È stata la concorrenza a portare in poco tempo ai risultati che si stanno ottenendo nella ricerca di un vaccino contro il Sars-Covid-2. D’ora in poi, per la produzione e la distribuzione servirà però che i governi del mondo collaborino. Non è detto che succeda: la geopolitica del virus e del vaccino è in piena espansione e non è scontato che un cambio di presidente a Washington la riduca significativamente.
Le ipotesi in campo
Gli annunci di Pfizer-BioNTech e di Moderna – la quali dichiarano risultati positivi in oltre il 90% dei casi per i loro ritrovati – segnalano esiti potenzialmente straordinari (da verificare appieno) in una corsa a più campioni che ha travolto metodi e tempi di ricerca. Altre imprese – americane, europee, asiatiche – si preparano a presentare i frutti delle loro ricerche. Un’eccezionale competizione olimpica mai verificatasi prima, nella quale imprese grandi e piccole, alcune aiutate dai governi, altre no, e laboratori privati hanno dispiegato grandi intelligenze. Con un premio finale, per chi arriva, in termini di prestigio ancora più che di profitto. Vladimir Putin è stato il primo a cercare di raccoglierlo, tra molto scetticismo, lo scorso agosto quando ha annunciato il vaccino Sputnik V prima ancora che fosse in fase di test su umani. Ma anche con delusioni: le azioni delle aziende cinesiconcorrenti di Pfizer-BioNTech e Moderna sono cadute quando queste ultime hanno annunciato i loro risultati.
L’imperativo della cooperazione internazionale
La vera parte politica, però, arriva ora e saggezza vorrebbe che per la produzione e la distribuzione del vaccino – le quali non saranno semplici – i diversi Paesi collaborassero. Le capacità produttive attuali delle imprese impegnate nella ricerca fanno pensare a circa quattro miliardi di dosi da realizzare nei tempi necessari per intervenire, sostanzialmente il 2021e qualche mese del 2022. In realtà sarà necessario coinvolgere case farmaceutiche anche dei Paesi emergenti, indiane in testa, che hanno grandi capacità produttive. E quasi certamente si dovrà andare oltre ai primi mesi del 2022. In parallelo, si dovrà organizzare la logistica, con diversi tipi di catena del freddo a seconda delle caratteristiche del farmaco: un problema che potrebbe essere serio nei Paesi poveri, con poche risorse per organizzarsi.
L’alleanza tra Paesi lanciata da Nazioni Unite e Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) per garantire l’accesso globale al vaccino, Covax, ha raccolto l’adesione di oltre 150 Paesi. Non però quello di Stati Uniti e Russia, almeno finora: questo già racconta che la distribuzione sarà fortemente politicizzata, sia da parte di chi, come l’Amministrazione Trump, ha deciso di non aderire allo sforzo guidato dalla WHO ma anche da parte di chi ha aderito ma vede nel vaccino l’occasione per aumentare la propria influenza politica, particolarmente la Cina. Nonostante le aziende farmaceutiche cinesi siano state battute nella corsa al vaccino – rallentate anche dai relativamente pochi casi di contagio domestici - il loro ruolo sarà essenziale per quella che ormai è stata definita la diplomazia del vaccino di Pechino.
Strategie cinesi
Il giorno successivo all’annuncio di Pfizer, dai vertici cinesi si è sottolineato che il Paese ha già inviato innumerevoli “risorse anti-epidemiche” in tutto il mondo. In effetti, anche per fare dimenticare l’origine della pandemia a Wuhan, la Cina ha da mesi lanciato un’offensiva di aiuti e di interventi diplomatici aggressivi per cambiare la narrazione che la vede responsabile della crisi globale. Ora, la distribuzione dei vaccini sarà la continuazione di questa nuova formula di politica estera. Di soft-power assertivo. Avverrà attraverso canali destinati soprattutto, anche se non esclusivamente, ai Paesi poveri da agganciare più saldamente alle ambizioni egemoniche di Xi Jinping. Un vantaggio che le aziende cinesi possono avere è che i loro vaccini dovrebbero essere più facili da produrre, da stoccare e da trasportare di quelli occidentali resi noti finora, i quali hanno bisogno di una catena del freddo e di una logistica complicate da realizzare.
Il problema di Pechino, ancor più dopo lo scoppio della pandemia, è che i suoi Paesi amici sono davvero pochi: il Pakistan, la Cambogia e pochi altri. Negli ultimi mesi, ha dunque scelto di combinare una diplomazia aggressiva, con gli ormai famosi interventi diplomatici dei Wolf Warriors, al fine di frenare le critiche con una politica di aiuti, spesso reali, altre volte più che altro propagandistici, per mostrare un volto positivo. Ora, Pechino vede un’occasione molto reale: in tutte le grandi crisi internazionali del passato – ultime lo tsunami nell’Asia del Sud nel 2004 e l’epidemia di Ebola nell’Africa Occidentale tra il 2013 e il 2016 – gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo di leadership ineguagliato; questa volta, l’Amministrazione Trump ha invece abbandonato il campo, in ossequio della politica di “America First”. In questo vuoto lasciato dalla potenza dominante si vuole inserire la potenza emergente cinese.
Non è detto che la Cina abbia più successo di quanto ne ha avuto con la politica espansiva della Belt and Road Initiative, la quale suscita ormai scetticismo e anche opposizioni nei Paesi che ne sono coinvolti o che potrebbero aggiungersi. Fatto sta che Pechino si vuole presentare come la potenza benevola e cooperativa del Ventunesimo Secolo; nei giorni in cui gli Stati Uniti si ritirano.
L’incognita USA
In realtà, non è detto che gli Stati Uniti si ritirino. Innanzitutto, le loro imprese e i loro scienziati hanno dimostrato di essere ancora all’avanguardia nella ricerca e nella realizzazione del vaccino: la scienza e la libertà di praticarla contano. In secondo luogo, dal momento che la sfida della diplomazia del vaccino riguarda i governi, la Casa Bianca di Joe Biden probabilmente tornerà a collaborare con gli altri Paesi del mondo, anche all’interno dell’alleanza Covax.
Le ferite alla reputazione americana create dall’approccio di Trump non sono facili da superare, soprattutto creano nel mondo incertezza sull’affidabilità della democrazia leader. Dall’altra parte, però, il desiderio di rivedere gli Stati Uniti di nuovo impegnati nella cooperazione internazionale è alta, la loro assenza è stata molto sentita durante questi mesi di pandemia; e la nuova Washington potrebbe dare segnali in una nuova direzione già dall’inizio del 2021.
Una sfida più complessa
La sfida del vaccino per conquistare amici e influenza, soprattutto in Africa, America Latina e nei Paesi poveri dell’Asia, è insomma aperta. Sarà soprattutto un test per capire come si posizionano Washington e Pechino nella loro rivalità per stabilire l’egemonia politica, diplomatica e culturale del futuro. Per capire quanto terreno possono recuperare gli Stati Uniti e quanto è accettata l’influenza della Cina. Per Biden e per l’establishment americano si tratta di inserire la lotta alla pandemia in un inizio di nuova politica estera nell’era della crescita della Cina, qualcosa che a Washington manca da decenni. Per Xi e per il Partito comunista cinese si tratta di verificare quanto l’offensiva del vaccino può suscitare gratitudine nel mondo e diminuire i timori che il gigante asiatico sempre suscita, a cominciare dai Paesi vicini.
Nella gara si è inserito anche Putin. Con ambizioni diverse, dal momento che la Russia rimane una potenza militare di grande rilievo ma manca dei muscoli economici per potere perseguire obiettivi troppo ampi. L’impressione è che, in questo passaggio, Mosca intenda essere molto vicina a Pechinosoprattutto per mettere la nuova Amministrazione Biden di fronte a un quadro internazionale complicato e difficile da affrontare. Se non si vince sul piano della scienza – sembra la teoria di Putin, per qualche verso condivisa da Xi – si può vincere nella diplomazia della distribuzione del vaccino, soprattutto se si è in due contro uno.
Il ruolo geopolitico del vaccino è spesso trattato con una certa iperbole. Innanzitutto, è ancora possibile che una collaborazione internazionale venga raggiunta. In secondo luogo, probabilmente la competizione in corso non sarà decisiva per stabilire i prossimi equilibri tra Stati Uniti e Cina e tra loro e il resto del mondo: per definire quelli ci vorrà tempo e ci saranno altri conflitti. Detto questo, la sfida è un momento importante per conquistare posizioni di forza, amicizie, crediti di gratitudine, per sfoderare il proprio soft-power. E per mostrare chi ha la potenza realizzativa maggiore. In fondo, è la prima, vera crisi globale dell’era dello scontro tra Washington e Pechino. E, come diceva Mao, anche la marcia più lunga inizia con un primo passo.