Gli anni del Pontificato di Benedetto XVI hanno segnato per molti versi un passaggio chiave nelle relazioni problematiche fra Repubblica popolare cinese e Santa Sede, determinate dalla condizione anomala e sofferente vissuta dalla Chiesa cattolica che è in Cina.
Dopo gli anni della persecuzione cruenta, coincisi con il tempo della Rivoluzione Culturale, la Cina Popolare ha permesso la riapertura delle Chiese e dei seminari, ma ha continuato a imporre alla Chiesa cattolica in Cina uno statuto “obbligato” di auto-governo, colpendo con campagne di repressione poliziesca le comunità cattoliche cosiddette “clandestine che si sottraggono alla politica religiosa dello Stato-partito. A garantire e gestire la sottomissione della Chiesa al dirigismo di governo sono organismi ibridi come l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Apcc), un apparato burocratico che risponde al Fronte unito e all’Amministrazione statale degli affari religiosi. Tale statuto contempla anche il controllo politico sulla scelta dei vescovi, da sottrarre a ogni “interferenza” esterna. Una prospettiva che entra fatalmente in conflitto con le vigenti norme del diritto canonico della Chiesa cattolica, orientate in linea di principio a non riconoscere più alle autorità civili prerogative e privilegi da esercitare nelle elezioni episcopali.
Nell’ultimo decennio, intorno al punto sensibile si è registrato un cambio di scenario incontestabile. Un numero crescente di elezioni episcopali cinesi è avvenuto in ottemperanza alle procedure imposte dallo stato e rispettando al contempo i passaggi che attestano canonicamente la comunione dei vescovi con il Papa e la Sede romana. La prassi provvisoria delle nomine episcopali avvenute con “consenso parallelo” è iniziata nel gennaio 2004 ed è continuata in maniera intermittente fino al 2012, permettendo in diversi casi a Cina Popolare e Santa Sede di trovare forme di compromesso nelle procedure di nomina dei vescovi cinesi.
Sulla base di questa politica dei fatti compiuti, e approfittando di una conoscenza sempre più dettagliata delle dinamiche vissute dalle comunità cattoliche cinesi, Benedetto XVI e i suoi collaboratori hanno più volte manifestato il loro interesse per un dialogo aperto con le autorità politiche cinesi, teso a superare gradualmente le anomalie e le sofferenze subite dal cattolicesimo cinese a causa delle pretese dirigiste della politica religiosa di Pechino. L’espressione compiuta e organica di questa disponibilità a risolvere i problemi dialogando con le autorità civili è delineata nella Lettera papale ai cattolici della Repubblica Popolare in Cina, pubblicata il 30 giugno 2007, che rappresenta uno dei testi più importanti del magistero pontificio ratzingeriano e rimane a tutt’oggi il più importante pronunciamento rivolto dalla Sede Apostolica alla Chiesa che è in Cina. In quella Lettera si mostra comprensione davanti al fatto «che le autorità governative siano attente alla scelta di coloro che svolgeranno l’importante ruolo di guide e di pastori delle comunità cattoliche locali». Si auspica addirittura «un accordo con il governo per risolvere alcune questioni riguardanti la scelta dei candidati all’episcopato». Un solo punto viene posto come irrinunciabile: che la guida pastorale della Chiesa sia esercitata dai vescovi. Si ribadisce che la pretesa di alcuni organismi di porsi al di sopra dei vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale, «non corrisponde alla dottrina cattolica». Così come sono inconciliabili con la fede cattolica «i princìpi d’indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa» che il potere civile vuole imporre ai cattolici cinesi.
Prima e dopo la Lettera papale del 2007 – cioè nel periodo in cui in Vaticano il dossier cinese era affidato soprattutto alle cure di monsignor Pietro Parolin, a quel tempo sottosegretario della sezione per i rapporti con gli stati della Segreteria di Stato – è iniziata una serie di contatti riservati tra rappresentanti della Santa Sede e del governo cinese per affrontare e risolvere gradualmente le questioni pendenti tra le due parti, a cominciare da quella relativa alle nomine episcopali. Questo inizio di negoziato – che nel tempo dovuto avrebbe potuto portare all’allacciamento dei rapporti diplomatici tra Cina Popolare e Vaticano – si è interrotto bruscamente a partire dal novembre del 2010, con l’inizio di una nuova serie di ordinazioni episcopali illegittime, imposte dal regime cinese senza il consenso della Sede apostolica.
Nell'ennesima fase di stallo, si segnala l’emergere di nuovi protagonisti che potrebbero giocare un ruolo chiave nell’evoluzione dei rapporti sino-vaticani. Dal dicembre del 2010 è segretario della Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli l’arcivescovo Savio Hon, cinese di Hong Kong. Dall’aprile 2009 il titolare della sede episcopale di Hong Kong è il vescovo John Tong, noto per il suo approccio aperto al dialogo che lo distingue dal suo predecessore Joseph Zen, il cardinale nativo di Shanghai divenuto icona cattolica della critica al regime cinese. John Tong è stato creato cardinale da Benedetto XVI nel Concistoro del 18 febbraio 2012, e dopo le dimissioni di papa Ratziger sarà il primo cinese della storia chiamato a partecipare al Conclave per l’elezione di un nuovo Pontefice. Accanto al profilo del cardinale cinese, assume risalto quello del suo collega Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Il capo del dicastero vaticano per le missioni – a cui è affidata la cura di tutte le circoscrizioni ecclesiastiche cinesi – lo scorso ottobre ha pubblicato un saggio sulla rivista Tripod in cui veniva delineata la proposta inedita di istituire una Commissione bilaterale «di altissimo livello» tra Cina Popolare e Santa Sede per trattare «questioni di reciproco interesse». Da questa proposta potranno ripartire le trattative tra la Cina del nuovo presidente Xi Jinping e la Chiesa affidata al successore di Benedetto XVI. Tra i primi nodi da risolvere, c'è il futuro della diocesi di Shanghai, la più importante della Cina: il successore designato dei due anziani vescovi legittimi – il 96enne Aloysius Jin Luxian, riconosciuto come vescovo “ufficiale” dal governo, e il “clandestino” Joseph Fan – è il vescovo coadiutore Thaddeus Ma Daqin, consacrato lo scorso luglio con il consenso parallelo del Regime e della Sede apostolica, ma subito caduto in disgrazia agli occhi di Pechino – che ora gli impedisce di esercitare il ministero pastorale e lo tiene segregato – per aver annunciato pubblicamente la sua intenzione di uscire dall’Associazione patriottica.
*Gianni Valente, redattore presso l’agenzia «Fides», organo d’informazione delle Pontificie Opere Missionarie. Colla-bora con la rivista italiana di geopolitica «Limes» e con «Vatican Insider».