Nel 2013 “ascesa di un nuovo autoritarismo” fu l’espressione utilizzata dal politologo ed esperto di Medio Oriente Toby Dodge per descrivere l’evoluzione delle dinamiche politico-sociali dell’Iraq a dieci anni dall’invasione anglo-americana che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein.[1] In quel periodo, le politiche sempre più assertive e settarie attuate dal primo ministro Nouri al-Maliki, alla guida di un governo a maggioranza sciita, stavano favorendo la marginalizzazione della minoranza arabo-sunnita e accentrando il potere decisionale nell’ufficio del primo ministro, il quale si serviva di alcune frange delle forze di sicurezza per intimidire i propri avversari politici e reprimere ogni dissenso espresso dai cittadini sunniti.
Dopo sette anni e una sanguinosa guerra contro il sedicente Stato islamico (IS), l’Iraq si ritrova ancora prigioniero di un sistema politico disfunzionale e inefficiente, in cui la corruzione dilagante e la distribuzione su base etno-settaria del potere hanno sostanzialmente azzerato la capacità di portare avanti nuove riforme, specie in ambito economico, e fornire servizi alla popolazione. Le proteste scoppiate nell’estate del 2018 nella provincia meridionale di Bassora per la mancanza di elettricità e acqua potabile, sedate violentemente dalle autorità, erano solo le avvisaglie di un profondo malcontento che sarebbe esploso con portata e intensità molto maggiori poco più di un anno più tardi. Dall’ottobre 2019, infatti, centinaia di migliaia di iracheni manifestano ogni giorno contro la corruzione, la mancanza di servizi e la disoccupazione, chiedendo un ricambio della classe politica e nuove elezioni. Sebbene la mobilitazione popolare stia interessando soprattutto le province centrali e meridionali del paese, abitate in prevalenza da arabi sciiti, questa ha dato origine a una rimarchevole solidarietà trasversale tra le varie comunità etno-religiose. Anche in aree e città a maggioranza sunnita come Salahaddin, Diyala, Mosul e Tikrit, la popolazione ha eretto memoriali in supporto delle proteste e sfilato pacificamente, evidenziando un senso di frustrazione verso l’élite al potere che travalica le linee etno-settarie, seppur con gradi e sfumature differenti. Tuttavia, nonostante alcune analisi sottolineino una trasversalità senza precedenti nella mobilitazione, la realtà è che gran parte della minoranza sunnita non ha preso parte attiva alle proteste nel timore di subire una ritorsione da parte del governo e delle forze di sicurezza, dominati dagli sciiti, e di rivivere così l’incubo di sette anni fa.
La recente nomina del nuovo primo ministro, inoltre, non ha placato gli animi dei manifestanti, che in parte considerano Muhammad Tawfiq Allawi una figura in continuità con la nomenclatura che ha governato il paese negli ultimi anni.
Se, da un lato, i rappresentanti delle minoranze come quelle curda e sunnita hanno fatto appello al governo di Baghdad affinché ascolti le richieste della piazza, dall’altro temono che un cambio drastico dell’attuale classe politica o una nuova stagione di riforme possano mettere in discussione il loro status e peso politico nel paese. La popolazione sunnita convive ancora con lo stigma del suo sostegno (più o meno volontario) allo Stato islamico e con un senso di marginalizzazione all’interno della società, al punto che l’idea di creare una regione autonoma sunnita – a volte indicata come “Sunnistan” – è stata recentemente riproposta da importanti esponenti della stessa comunità come soluzione ideale per risolvere le divisioni e i problemi dell’Iraq.[2] Nella regione autonoma curda, pure, le difficoltà economiche e la corruzione sono solo in parte mitigate dalle buone condizioni di sicurezza, mentre le divisioni politiche continuano a limitare l’operato del Governo regionale curdo (KRG).
Nelle attuali proteste, la grande partecipazione giovanile è l’altro aspetto di rilievo che emerge. Circa un quarto della popolazione irachena, infatti, ha tra i 15 e i 24 anni ma di questa fascia oltre il 16% non ha un impiego, un dato preoccupante che si aggiunge ad un quadro economico in cui risaltano la dipendenza pressoché totale dai proventi degli idrocarburi, la mancanza del settore privato e la capacità di sfruttare concretamente solo il 5% di quanto stanziato per gli investimenti nel settore pubblico. Le ragioni della mobilitazione, tuttavia, non sembrano esclusivamente economiche. In più occasioni, infatti, gruppi di manifestanti si sono scagliati anche contro le continue ingerenze straniere, percepite come un fattore di sostegno cruciale per l’attuale status quo, assaltando e bruciando i consolati iraniani di Karbala e Najaf e intonando cori sia contro la Repubblica Islamica d’Iran sia contro gli Stati Uniti. È quindi evidente che molti iracheni contestano la facilità e regolarità con cui Washington e Teheran si intromettono negli affari interni del loro paese. E proprio le voci delle giovani generazioni sembrano ridare linfa a un nazionalismo iracheno i cui contorni appaiono ad oggi piuttosto indefiniti, ma non del tutto inesistenti. Questi sussulti potenzialmente positivi, tuttavia, risaltano nel quadro di un sistema politico-istituzionale – quello adottato dopo la caduta di Saddam – che certamente non ha favorito la nascita, o il riemergere di un’identità nazionale solida e condivisa. Semmai il contrario. La suddivisione degli incarichi e delle posizioni di potere su base etno-settaria ha infatti rafforzato il confessionalismo, rendendo la politica uno spazio per promuovere interessi personali e clientelari, a spese però di un discorso nazionale inclusivo e di un’efficiente gestione della cosa pubblica. Sovente si è propensi ad accostare i problemi del paese al contesto di rivalità ed instabilità regionale, ma così facendo si perdono di vista il peso e il ruolo di una disfunzionalità politica interna che si autoriproduce dal 2003. Le relazioni esterne e la presenza di attori stranieri hanno certamente un’influenza sulle dinamiche nazionali, ma non sono le sole cause dell’attuale crisi.
Negli ultimi mesi, la disfunzionalità della macchina statale irachena sembra manifestarsi in modo particolare lungo due direttrici correlate: la risposta delle autorità alle proteste e la natura dell’apparato militare iracheno. Similmente a quanto accaduto in occasione delle proteste del 2012 e 2013, il governo ha finora optato per una soluzione repressiva che ha lasciato sul terreno oltre 600 morti e decine di migliaia di feriti e sta alimentando uno scontro a somma zero tra l’élite e i manifestanti. Questo è ancor più grave se si considera l’escalation di violenza e intimidazione attuata dalle forze di sicurezza contro giornalisti e attivisti della società civile. I dati sono allarmanti: dall’inizio delle proteste almeno 121 tra reporter e attivisti sono stati rapiti o assassinati, evidenziando una campagna di repressione pressoché sistematica contro la libertà di stampa e di espressione. Ciò non è solo indice di un divario sempre più ampio tra la classe governante e la popolazione, ma è anche la conseguenza di un sistema politico in cui il potere decisionale è diluito tra reti informali e clientelari che spesso riconducono a potenti milizie armate. Proprio la frammentazione dell’apparato di sicurezza e il ruolo sempre più preponderante dei gruppi paramilitari legati alle Unità di mobilitazione popolare (PMU) a scapito dell’esercito regolare hanno di fatto privato il governo del monopolio dell’uso della forza e, quindi, della capacità ultima di far rispettare lo stato di diritto e proteggere i cittadini. Non solo: alcune delle più influenti fazioni all’interno delle PMU, specie quelle più vicine all’Iran come Kata’ib Hezbollah e Asaib Ahl al-Haq, non hanno esitato a porre le condizioni per la scelta del nuovo primo ministro, addirittura minacciando il presidente Barham Salih dopo la sua decisione di rifiutare il candidato proposto dal blocco filo-iraniano al-Binaa Asaad al-Eidani. Molti di questi gruppi armati hanno ampliato la propria attività e sostituito lo stato nel garantire assistenza e servizi alla popolazione, infiltrando le istituzioni e ritagliandosi uno spazio politico che ha aumentato la loro influenza nel processo decisionale interno. È il caso, ad esempio, dell’organizzazione Badr, che ha monopolizzato il Ministero dell’Interno e le forze di polizia, e il cui leader Hadi al-Ameri ha assunto la guida delle PMU e della coalizione al Fatih (conquista), giunta seconda con 48 seggi nelle elezioni parlamentari del 2018. Sebbene nel 2016 le PMU siano state formalmente integrate all’interno delle forze armate irachene e poste agli ordini del primo ministro – nel ruolo di comandante in capo – esse mantengono de facto una catena di comando autonoma che permette loro di operare agevolmente al di fuori del controllo dello stato. Ad una profonda frammentazione politica, dunque, corrisponde una multipolarità di fatto istituzionalizzata nell’apparato di sicurezza, in ciò che appare come un circolo vizioso che ha origine in realtà ancor prima del 2003.[3]
Come nel 2012-13, la violenza indiscriminata contro i manifestanti (all’epoca prevalentemente sunniti) perpetrata impunemente da gruppi armati non identificati suggerisce tanto l’inadeguatezza e debolezza delle istituzioni quanto la volontà dei primi di favorire la sopravvivenza dell’attuale status quo. Tuttavia, nell’Iraq di oggi sono i rischi posti dalla frammentazione politica e securitaria – e non quelli di un primo ministro autoritario – a minare la stabilità interna. Fin quando queste criticità non saranno risolte e a dettare le regole saranno corruzione e logiche settarie, piuttosto che trasparenza e un concreto dialogo tra le comunità, la crisi irachena non cesserà. Eppure, anche senza una vera leadership, il movimento di protesta e con esso la società civile stanno dimostrando una crescente consapevolezza e una grande capacità di resilienza, e questa è probabilmente la ragione di maggior speranza per un paese ancora prigioniero di se stesso.
[1] Toby Dodge, State and society in Iraq ten years after regime change: the rise of a new authoritarianism, International Affairs, Vol. 89, Issue 2 (2013), pp. 241–257.
[2] Ibrahim Al-Marashi, Ma esiste davvero un “Sunnistan” iracheno?, «Oasis», anno XIV, n. 27, luglio 2018, pp. 79-88.
[3] Ibrahim Al-Marashi, Sammy Salama, Iraq’s Armed Forces: an Analytical History, Routledge, 2008.