La crisi economica, politica e istituzionale in Venezuela si è aggravata progressivamente negli ultimi quattro anni e oggi ha raggiunto dei livelli drammatici: crollo della produzione petrolifera, iperinflazione, emigrazione di massa, scontro tra chavisti, che considerano Nicolás Maduro legittimo presidente per i prossimi sei anni, e opposizione, che riconosce Juan Guaidò come presidente ad interim e chiede nuove elezioni presidenziali. I costi per il popolo venezuelano sono elevatissimi e sono destinati ad aumentare in assenza di un cambiamento politico, che non pare vicino. Una recente, rara, buona notizia per i venezuelani è che, grazie a un accordo con Maduro e Guaidó, la Croce Rossa inizierà a inviare aiuti umanitari al paese da metà aprile.
Ma quali sono gli effetti della crisi venezuelana per i principali paesi dell’emisfero occidentale, in particolare per Stati Uniti, Brasile e Messico? Per rispondere a questa domanda bisogna valutare gli effetti sul commercio estero, sui flussi migratori e sulla geopolitica internazionale.
L’impatto principale sul commercio riguarda il petrolio e i suoi derivati. A metà marzo 2019, per la prima volta da decenni, gli USA non hanno importato petrolio greggio dal Venezuela e hanno aumentato le importazioni da tutti gli altri paesi latinoamericani produttori di petrolio. Rispetto a metà marzo 2018, le importazioni americane dal Venezuela sono diminuite da 506 a 0, mentre sono aumentate dal Messico da 534 a 712, dalla Colombia da 228 a 421, dall’Ecuador da 20 a 197 e dal Brasile da 0 a 175 (dati in migliaia di barili al giorno). La produzione di petrolio greggio in Venezuela è destinata a calare ulteriormente, sia per la carenza di investimenti in passato che per le sanzioni statunitensi, e si prevede che scenderà a circa 750.000 barili al giorno quest'anno, dagli 1,3 milioni di barili del 2018. Questo consentirà ad altri produttori, incluso il Messico e il Brasile, di espandere la propria produzione. Anche le importazioni di petrolio del Venezuela sono diminuite molto, ma il paese sudamericano importa relativamente poco da Brasile e Messico. Le imprese che stanno subendo i maggiori effetti negativi sono invece alcune raffinerie americane che esportavano in Venezuela.
Per quanto riguarda la seconda questione, la pressione degli emigrati venezuelani su Brasile, Messico e Stati Uniti potrebbe aumentare molto visto che il numero dei migranti e rifugiati venezuelani in America Latina e nei Caraibi ha raggiunto i 2,7 milioni, di cui più di un milione in Colombia e mezzo milione in Perù, mentre i venezuelani arrivati in Brasile e Messico sono molto meno, rispettivamente 96.000 e 39.500 (dati UNHCR, relativi a gennaio 2019). Analoghe pressioni migratorie riguardano anche gli Stati Uniti dove, in meno di quattro anni, le richieste d’asilo provenienti dal Venezuela sono aumentate del 2.300%.
Lo scontro politico interno si è invece riflesso nella formazione di due schieramenti opposti a livello internazionale: da una parte a sostegno di Guaidó e per nuove elezioni vi sono gli Stati Uniti, il Canada, il Gruppo di Lima (formato da alcuni paesi dell’America Latina, incluso il Brasile), e dell’Unione Europea. Dall’altra, la Russia e la Cina sono i principali paesi che appoggiano Maduro e criticano le ingerenze esterne. È diventata una contrapposizione ideologica, anche se nasconde rilevanti interessi economici e geopolitici. Gli Stati Uniti hanno l’interesse a ristabilire un fornitore sicuro di petrolio nella regione e a fermare la probabile pressione migratoria, mentre la Russia e la Cina cercano di evitare di perdere le risorse impiegate nel paese sudamericano, come investimenti e prestiti. Infine, il Messico ha cambiato posizione negli ultimi mesi. A differenza di Peña Nieto, che si era schierato con il Gruppo di Lima contro Maduro, il Presidente Andrés Manuel López Obrador ha optato per una posizione neutrale, rifacendosi alla Dottrina di Estrada, ministro degli Esteri messicano negli anni Trenta, in base alla quale prendere posizione sulla validità di un nuovo governo in un altro stato costituisce una ingiustificata interferenza negli affari interni dell'altro stato.
Nelle ultime settimane la tensione tra USA, Russia e Cina per il Venezuela è stata alta in due occasioni: in un caso, ripreso ampiamente dalla stampa, quando il 23 marzo due aerei militari russi sono arrivati a Caracas con soldati ed equipaggiamento militare. L’altra occasione, passata più inosservata ma molto significativa, quando il 22 marzo l’Inter-American Development Bank (IDB) ha deciso di non tenere l’Annual Meeting a Chengdu, in Cina, a soli quattro giorni dal previsto inizio. La motivazione, anche se non comunicata ufficialmente dall’IDB, sembra essere legata al fatto che Pechino non aveva rilasciato il visto a Ricardo Hausmann, che avrebbe dovuto partecipare all’Annual Meeting come nuovo IDB governor per il Venezuela, nominato da Guaidó. Gli USA hanno fatto pressioni su Pechino per ammettere Hausmann, ma la Cina non ha ceduto e l'IDB ha deciso di trovare un altro paese dove tenere l’Annual Meeting.
La crisi economica e le sanzioni americane toglieranno progressivamente le risorse vitali a Nicolás Maduro, ma sarebbe un errore considerare imminente la sua scomparsa. Quando è stato eletto presidente del Venezuela nel 2013, molti avevano detto che non sarebbe durato in carica più di un anno. Tredici mesi dopo, quando le proteste devastarono il paese, si pensava che i suoi giorni fossero contati. Nel 2016 quando l'opposizione si batté per il referendum revocatorio oppure successivamente con le proteste di massa nel 2017, di nuovo in molti ritenevano che quella sarebbe stata la fine di Maduro. Eppure, Nicolás Maduro rimane il presidente de facto del Venezuela.