Quella che sta di nuovo esplodendo in Venezuela è la crisi più annunciata della sua recente e tormentata storia. E rischia di essere anche la più brutale e imprevedibile. Come finirà la folle corsa venezuelana lungo il piano inclinato su cui si avviò una ventina d’anni orsono? Basta una scintilla per dare fuoco alle polveri e gli ingredienti della tragedia sono tutti serviti. C’è innanzitutto la crisi economica, difficile a digerirsi in un paese che per oltre un decennio ha incassato fiumi di denaro pompati dal barile sopra i 100 dollari. Eppure il Venezuela è in piena recessione, caso più unico che raro in America latina. Al di là del crollo dei prezzi petroliferi, la verità è ormai chiara a tutti o quasi e pesa nella vita di tutti i giorni, ora in forma di scaffali vuoti nei supermercati, di inflazione alle stelle che divora i magri salari, di casse pubbliche così sfinite che la cessazione dei pagamenti è ormai dietro l’angolo. Il modo scriteriato in cui è stata gestita tanta ricchezza rimarrà negli annali già capienti dello spreco e dell’imprevidenza latino-americani: spesa pubblica a go-go; clientelismo improduttivo; corruzione; spese pazze e prestiti inesigibili per coltivare sogni di potenza; deficit di investimenti e logorio delle infrastrutture; continui e sterili conflitti con nemici veri o immaginari; indebitamento massiccio con paesi ormai timorosi di vedere sfumare i loro crediti, Cina in primis. Ce n’è per tutti i gusti e lo scontento tocca ormai anche le frange sociali che di tanta prodigalità avevano beneficiato, lo zoccolo duro chavista.
Alla crisi economica si somma quella politica: crisi perpetua, sistemica, ormai incancrenita. Come potrebbe essere altrimenti, considerando che il regime chavista agisce nel quadro istituzionale tipico della democrazia liberale, ma nei fatti ambisce a trascenderli, cosa che difatti fa con regolarità, ora accumulando poteri, ora usando a suo vantaggio fondi pubblici e macchina statale, ora reprimendo ogni dissenso? Il chavismo oggi, come il castrismo prima e il peronismo un tempo, si considera un ordine che basa la sua legittimità su fattori estranei allo spirito della democrazia liberale: il popolo inteso come comunità unanime; la rivoluzione intesa come redenzione dal male; la liberazione dalle minacce che graverebbero sulla purezza e l’unità di popolo e nazione. La logica manichea che ne deriva si traduce in ossessivo e perenne scontro del popolo con l’oligarchia, della rivoluzione con la controrivoluzione, della nazione con l’Impero. Ovvio che in tale contesto sia svanita ogni traccia di spazio pubblico neutrale, non esistano più istituzioni investite della fiducia di tutti i cittadini e che il passaggio dalla guerra civile simulata a quella reale sia tutt’altro che inverosimile.
A rendere ancor più cupo questo bozzetto a tinte già fosche, si aggiungono poi vari fattori, tra loro concatenati. Il fattore tempo, soprattutto, poiché il tempo incalza e gioca contro il regime chavista. Sul piano economico incombe il default e al governo non rimangono molti margini di manovra; o cade nel precipizio o nega se stesso adottando misure drastiche e impopolari, opposte alle ricette ideologiche sbandierate fino ad ora. Ma anche sul piano politico incombono scadenze ingombranti: le elezioni legislative di quest’anno sono un incubo per il presidente Maduro, ben conscio della sua scarsa popolarità e della prospettiva di uscirne con le ossa rotte. Ma può un regime rivoluzionario che pretende di incarnare el pueblo rassegnarsi a perdere le elezioni come il normale governo di una normale democrazia rappresentativa?
A tale somma di problemi e alle scadenze ormai alle porte è riconducibile la nuova fiammata della crisi venezuelana. Acuendo la repressione politica ed elevando al massimo i decibel dello scontro coi nemici esterni e interni, il chavismo spera di sottrarsi alla morsa in cui, come era prevedibile e previsto, s’è ficcato da sé. Per rinsaldare le sue fila sempre più fiacche, per rilanciare la prospettiva rivoluzionaria ormai logora, per evitare lo smacco elettorale e magari le elezioni stesse, il regime ha bisogno di un nemico che gli consenta di chiamare alla union sacrée del popolo; di invocare il pericolo alle porte per far fare alla rivoluzione una fuga in avanti, verso orizzonti ancor più radicali. Nulla calzerebbe perciò più a pennello ai suoi bisogni di una reazione violenta della piazza, di una dichiarazione golpista dell’opposizione, di un attacco dell’amministrazione Obama. Tanto che si direbbe che proprio simili reazioni sono quelle che esso cerca di scatenare reprimendo le folle che protestano e incarcerando gli avversari politici.
Ma mentre il Venezuela affonda nella spirale tipica che i populismi hanno già tante volte innescato in America Latina e altrove, il resto della regione guarda e tace, come un pompiere in sciopero che osservi con distacco il divampare di un incendio. Anzi, il grosso dell’area esibisce una tolleranza a prova di bomba verso Maduro e le sue pallide credenziali democratiche. La cosa sorprende fino a un certo punto: ci vuole coraggio e molta equanimità, in America latina, per prendere di petto un regime che incarna agli occhi di molti un bagaglio ideologico nazionalista assai popolare. Molto più facile è denunciare le violazioni dei diritti umani e della democrazia quando a commetterle sono regimi conservatori, magari alleati degli Stati Uniti. Eppure sulla capacità di mediare, di frenare per tempo la violenza politica e il disastro economico e sociale che stanno lacerando il Venezuela, si misurerà la maturità della regione e quella della leadership brasiliana in particolar modo.
Loris Zanatta, professore di Storia dell'America Latina presso l'Università di Bologna