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Commentary
Venezuela sull’orlo del baratro
Carlo Cauti
| 27 Dicembre 2016

Il Venezuela vive ormai in uno stato di calamità permanente. La situazione economica venezuelana non è più definibile con la parola “crisi”, ma è necessario appellarsi al termine “collasso”, molto più adeguato per spiegare ciò che sta avvenendo nel paese sudamericano. Durante le crisi economiche si assiste a riduzioni del PIL, aumento della disoccupazione, contrazione della produzione industriale. Ma sempre per un periodo più o meno lungo, e con un mercato che continua ad esistere, a produrre e a soddisfare bisogni della collettività. Non è il caso venezuelano. Gli scaffali dei supermercati desolatamente vuoti, le file apocalittiche davanti ai negozi di alimentari, la scomparsa di medicine negli ospedali, i ripetuti black-out elettrici, la chiusura delle fabbriche, la violenza endemica e persino le grottesche penurie di carta igienica o anticoncezionali mostrano inequivocabilmente che il Venezuela non è in crisi: è un paese allo sbando.

La popolazione venezuelana è alla fame, e non è esagerato denunciare una crisi umanitaria in atto. Tanto che decine di migliaia di venezuelani sono già scappati verso i paesi vicini. Su internet si trovano filmati di orde di persone che attraversano la frontiera con la Colombia nelle poche ore in cui il regime bolivariano ne ha concesso l’apertura. Immagini di una fuga in massa, con venezuelani che piangono per la felicità di lasciare un paese diventato ormai una prigione che affama i propri cittadini. In Brasile, nello stato di confine di Roraima, il governo conta oltre 50 mila profughi venezuelani, ma i numeri reali potrebbero essere più del doppio. Un flusso umano che non cessa di aumentare, al ritmo di 100 persone al giorno che attraversano il confine, inutilmente chiuso dal governo di Caracas. Vivono per strada, ammassati nelle stazioni degli autobus, fanno l’elemosina, si prostituiscono e occupano abusivamente case abbandonate. Con il rischio costante di venire rimpatriati. Una vita miserabile, ma comunque meglio di quella che avevano in Venezuela.

Nel 2016 l’inflazione in Venezuela ha superato quota 720%, il PIL è crollato del 14% ma anche in questo caso i numeri reali sono di sicuro molto peggiori, dato che le cifre diffuse dalle autorità locali sono notoriamente inaffidabili. C’è carenza di oltre l’80% dei prodotti alimentari e per l’igiene personale. Ogni anno vengono assassinate oltre 28mila persone. Un indice di 119 omicidi ogni 100mila abitanti (in Italia è lo 0,8). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera “un’epidemia” la soglia di 10 omicidi ogni 100 mila abitanti. Negli ospedali i pazienti muoiono per i corridoi, i neonati sono lasciati in culle fatte di scatole di cartone e neanche i medici cubani importati a peso d’oro dal regime riescono a sopperire alla totale carenza di farmaci o strumenti sanitari di base. È diventato difficile persino arrivare nel paese, dopo che numerose compagnie aeree hanno cancellato le rotte verso Caracas. Anche la Coca Cola, bevanda onnipresente nelle tavole dei venezuelani, ha dovuto issare bandiera bianca: impossibile proseguire la produzione a causa della scarsità di materia prima. E il paese è stato sospeso permanentemente (ovvero di fatto espulso) dal Mercosur per voto unanime degli altri paesi partner. Come se non bastasse il caos, ecco anche il disonore.

Il governo di Nicolás Maduro è appeso a un filo. Negli ultimi mesi migliaia di venezuelani hanno occupato le strade di Caracas e delle principali città in tutto il paese, protestando contro la sospensione del referendum revocatorio del mandato del caudillo. Un voto popolare espressamente previsto dalla Costituzione voluta dal suo predecessore e padrino politico, Hugo Chávez, ma che Maduro tenta a tutti i costi di evitare, sapendo perfettamente che si tratterebbe della sua condanna a morte politica e della definitiva fine del governo bolivariano. Secondo numerosi sondaggi, più dell’80% dei venezuelani vuole la cacciata di Maduro, esasperati da condizioni di vita umilianti che perdurano da anni, figlie delle scellerate scelte di politica economica dei governi del Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV). Il tentativo dell’esecutivo di addossare la colpa al crollo delle quotazioni del petrolio o all’“imperialismo yankee” non ha più alcuna presa tra la popolazione. I venezuelani sono perfettamente consapevoli che l’attacco alla proprietà privata, la nazionalizzazione di interi settori produttivi, la “petrolizzazione” dell’economia, le violazioni della libertà di stampa, le incarcerazioni arbitrarie di oppositori politici e la sfrontata corruzione sono le vere cause del disastro. Responsabilità esclusiva del gruppo di potere bolivariano.

Dall’inizio del 2016 il Venezuela vive in uno stato di eccezione, decretato da Maduro, con la scusa della “guerra economica” che gli imprenditori, le opposizioni e gli immancabili “Estados Unidos” avrebbero dichiarato al paese. In questo modo il presidente ha accentrato praticamente tutti i poteri, governando per decreto e militarizzando di fatto l’intera società venezuelana. Ufficiali delle Forze Armate sono inviati a “controllare” la produzione e distribuzione di prodotti di base come riso, carne o latte. Con l’unico risultato di rallentare o rendere impossibile qualsiasi attività imprenditoriale, facendo ulteriormente aumentare le file di cittadini affamati davanti ai negozi.

Questo nuovo autoritarismo impiantato dal governo Maduro si affianca al solido controllo della macchina pubblica, della Guardia Nacional Bolivariana, la milizia del partito, e del potere giudiziario, interamente nominato dal presidente stesso. Non è un caso che subito dopo le elezioni parlamentari i giudici venezuelani abbiano deciso che tutte le decisioni prese dall’Assemblea Nazionale – dove le opposizioni hanno trionfato, benché ostacolate in tutti i modi dal governo – sono incostituzionali, svuotando così il Parlamento di qualsiasi potere.

Dopo che il Consejo Nacional Electoral (CNE), massimo organo giudiziario del Venezuela, ha decretato lo scorso 21 ottobre la sospensione del referendum revocatorio del mandato presidenziale, la collera popolare è esplosa. Le manifestazioni di piazza, soprannominate la “Tomada de Venezuela” sono degenerate in scontri violenti, brutalmente repressi dalle truppe del regime, con decine di morti, centinaia di feriti e un numero non precisato di arrestati. Gli ultimi tumulti sono stati generati dalla decisione del governo di ritirare sei miliardi di banconote da 100 bolivares ufficialmente per “combattere le mafie”. Peccato che con quelle cedole i venezuelani comprino ancora il minimo per la loro sussistenza, principalmente nei negozi oltrefrontiera, dove non valgono più nulla e i commercianti preferiscono pesarle invece che contarle.

Per evitare che gli scontri per le strade degenerassero in una violenza generalizzata, il Vaticano è intervenuto facilitando il negoziati tra il governo e le opposizioni della Mesa de la Unidad Democrática (MUD). Si tratta dell’ultima chance per una transizione ordinata e pacifica prima che la situazione sfoci in guerra civile. Ma nelle ultime settimane il governo ha cercato di boicottare anche questo sforzo, quasi cercasse lo scontro duro. Maduro ha ancora sotto il suo comando ampi settori delle Forze Armate, l’industria petrolifera e le principali risorse economiche del paese. Se la situazione dovesse degradare in un confronto armato, il presidente venezuelano partirebbe in vantaggio sui suoi avversari, avendo la scusa e la possibilità materiale per liquidare fisicamente una volta per tutte i dissidenti che ancora resistono.

Scegliere la linea dura può tuttavia portare a sanzioni internazionali o a un’esplosione sociale. Le opposizioni, dal canto loro, sono a un bivio: o scendono in strada protestando attivamente, optando la disobbedienza civile, o promuovono un fronte politico ampio che unisca forze sociali e politiche di tutti gli schieramenti (inclusi settori scontenti del chavismo) in una battaglia a difesa della Costituzione e per il referendum. In passato, tuttavia, le opposizioni si sono dimostrate incapaci di trasformare lo scontento in azione politica. Ma oggi la società venezuelana è esausta, e quindi la strada pare obbligata. In tutti i casi la transizione avrà un costo molto più alto rispetto alla possibilità offerta dal referendum revocatorio. Comunque si risolva la partita, per il Venezuela sarà una traversata nel deserto.

Una situazione esplosiva che soffre di ripetute ingerenze esterne. Non è un mistero per nessuno che chi spinge apertamente per la rottura sia Cuba. Da anni ormai i cubani hanno occupato i gangli vitali dello stato venezuelano (ad esempio, sono cubani i funzionari che consegnano i passaporti o che gestiscono gli aeroporti in Venezuela), prendendo possesso principalmente delle Forze Armate. E ovviamente una transizione pacifica eliminerebbe questo controllo della macchina statale venezuelana. Pregiudicando così anche Cuba, la quale sopravvive grazie ai fiumi di petrolio che arrivano sull’isola direttamente dai pozzi venezuelani, praticamente gratis, sulla base di una serie di generosi accordi firmati con Chávez e Maduro.

Tuttavia, l’appello per un “intervento dei militari venezuelani” lanciato da Henrique Capriles, leader delle opposizioni sconfitto da Maduro alle ultime elezioni presidenziali, è un segnale che fa pensare che non tutto l’esercito sia compatto dalla parte del regime. Parte delle Forze Armate non è assoggettata ideologicamente al governo, e potrebbe contribuire alla sua caduta nel caso di un’involuzione ancora più autoritaria. 

Il Venezuela è sull’orlo del baratro. Se nel 2017 Maduro non accetterà una transizione morbida, il rischio che la situazione degeneri in un incontenibile vortice di violenza è altissimo. Il paese, che già oggi è un focolare di instabilità per l’America Latina, potrebbe diventare un buco nero geopolitico in una regione che si considerava fino a poco tempo fa sostanzialmente libera da minacce gravi alla sua sicurezza. Una situazione che preoccupa i paesi vicini, i quali si troverebbero a dover gestire per la prima volta nella loro storia massicci flussi di profughi o addirittura intervenire con missioni di pace. Ma che dovrebbe preoccupare anche l’Italia, dato che in Venezuela vivono oltre due milioni di italo-venezuelani. Una comunità di connazionali impossibile da evacuare, ma che è impensabile abbandonare al suo destino. 

 

Carlo Cauti, giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente con diverse testate italiane e brasiliane.

 

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America Latina maduro Crisi
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AUTORE

Carlo Cauti
Giornalista freelance

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