Caracas ribolle. La piazza è in fermento. E il governo pure. In gioco, però, non c’è solo la tenuta del bolivarismo, ma un complesso sistema di equilibri regionali. Chávez – e di conseguenza, al di là dello scarso carisma, il successore – ha segnato una pagina di storia latinoamericana. Al Venezuela si intrecciano dunque i destini dei vicini. Primo fra tutti l’amico-nemico di sempre: la Colombia.
L’immagine ha fatto storia. Il 7 agosto 2010, Juan Manuel Santos prende letteralmente in consegna dal predecessore Álvaro Uribe la poltrona presidenziale della Casa de Nariño, nel cuore di Bogotà. Alla cerimonia ci sono oltre settante delegazioni e 17 capi di stato e di governo. Per il Venezuela, è presente Nicolás Maduro, allora ministro degli Esteri del defunto Hugo Chávez. Quest’ultimo è rimasto a casa dopo un ennesimo scontro con l’ormai ex presidente – e suo storico avversario – Uribe. Da Caracas, però, il caudillo invia un telegramma «di amore, solidarietà, futuro e speranza» al paese vicino. Al termine della cerimonia, Santos saluta gli invitati. La calorosa stretta di mano con Maduro è immortalata dai principali media internazionali. A rimarcare la fine di una stagione. Quella burrascosa degli scambi di accuse - con tanto di denunce internazionali – tra Venezuela e Colombia. O meglio tra i loro due rappresentanti: l’autoproclamato erede di Simon Bolívar e l’uomo di ferro nonché fedelissimo di Washington nel Continente.
Che Santos non fosse, come molti pensavano, “uribito” - per via del suo ruolo chiave nel precedente governo come ministro della Difesa - lo si è capito già quel giorno. Tanti ritengono che fin da allora avesse in mente un drastico cambio nella politica verso la guerriglia delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), passando dalla cosiddetta “sicurezza democratica”, ovvero il confronto feroce, al negoziato. L’indebolimento dell’ultimo, grande movimento rivoluzionario dell’America Latina rendeva ideale il momento per tentare “il colpo”. E riuscire dove tutti gli altri leader colombiani avevano fallito: mettere fine a oltre mezzo secolo di conflitto. Per portare i leader della formazione a un tavolo di trattative, Santos sapeva che aveva bisogno di un alleato fondamentale: il Venezuela chavista. Proprio l’ambiguità di quest’ultimo nei confronti delle Farc, lo rendeva il mediatore ideale.
La mano tesa di Bogotà è stata subito afferrata da una Caracas già in recessione e ben felice di recuperare un ottimo partner commerciale.
Il riavvicinamento si è trasformato in una luna di miele quando il 18 ottobre 2012, a Oslo, si è aperto il quarto – e forse ultimo – processo di pace tra le Farc e il governo colombiano. A fare da garanti ai colloqui tuttora in corso all’Avana erano – e tuttora sono - Cile, Norvegia, Cuba e, appunto, il Venezuela, ancora governato da un malato Chávez. La “successione” e l’elezione risicata di Nicolás Maduro non ha alterato gli equilibri con Bogotà. Nemmeno la visita alla Casa de Nariño di Henrique Capriles, leader dell’opposizione venezuelana, a maggio, ha “rotto” l’incantesimo. Certo, Caracas aveva espresso un certo fastidio, rapidamente risolto dai rispettivi diplomatici.
Sono state le attuali proteste caraqueñe – le cosiddette “guarimbas” – a scatenare la “tormenta”. Il 17 febbraio, un furente Maduro ha tuonato: «Santos si è lasciato trascinare dal suo cuoricino fascista. Vuole darmi lezioni di democrazia?» Una frase durissima, lanciata in diretta tv. Il giorno prima, il presidente colombiano aveva espresso “preoccupazione” per le proteste in Venezuela e aveva rivolto «un forte invito alla calma, al dialogo tra le differenti forze politiche per garantire la stabilità del paese». Parole non gradite da Maduro che le ha lette – non del tutto a torto – come una sorta di “rimprovero” per la repressione dell’opposizione e una sorta di inclinazione verso quest’ultima. Immediatamente, il ministro degli Esteri di Caracas, Elías Jaula, ha rincarato la dose: «Ci rammarica che il governo colombiano relativizzi la situazione, paragonandoci a coloro che stanno esercitando la violenza, che ci inviti a metterci d’accordo quando il governo venezuelano si siede quotidianamente con sindaci o governatore oppositori». Il 21 febbraio, ancora Maduro ha incalzato: «Mi sono astenuto dal commentare quando in Colombia i produttori agricoli hanno protestato contro il Trattato di libero scambio con gli Usa e ci sono stati ben 40 morti. Non mi risulta di aver detto che il governo di Bogotà massacrava i contadini…». Per un attimo l’orologio delle relazioni bilaterali è sembrato tornare indietro di sei o sette anni. E, con una punta di sarcasmo, Maduro ha aggiunto: «Forse anche Santos (oltre il cileno Piñera e il panamense Ricardo Martinelli) ha dovuto cedere alle pressioni degli Stati Uniti». In realtà, più che Washington, a spingere il leader alla dichiarazione “incriminata” è stata probabilmente l’opinione pubblica interna. Domenica in Colombia ci saranno le elezioni legislative. Il vero nodo sono, però, le presidenziali del 25 maggio. Santos rappresenta il centro-destra. E il suo elettorato è già stato messo a dura prova dal negoziato con le Farc, considerato un “cedimento” dai settori più intransigenti, riuniti intorno all’ex alleato Uribe. Il presidente, dunque, non può permettersi di alienarsi i consensi dei moderati che non vedono di buon’occhio la repressione degli studenti a Caracas. Da qui la necessità di “smarcarsi” dal Venezuela, segnando una differenza dai capi di stato del centro-sinistra latinoamericano, dalla brasiliana Dilma Rousseff all’uruguayano José Mujica, alla neoeletta cilena Bachelet, che hanno mantenuto un cauto silenzio. Non per “affinità” ideologica con il bolivarismo, in quanto nei loro paesi hanno applicato un modello progressista moderato molto distante dal chavismo. Ma per questione di “opportunità”. Probabilmente se non ci fosse stato l’appuntamento elettorale del 25 maggio, anche Santos avrebbe fatto altrettanto. Tanto più che il Venezuela continua a essere importante – seppur ormai non centrale – per portare avanti il negoziato con le Farc.
Dopo la “semana fatal” – come l’hanno definita i media locali –, dunque, i diplomatici delle rispettive nazioni si sono messi all’opera per ricucire. Il ministro degli Esteri colombiano, María Angela Holguín, ha precisato che le parole di Santos non volevano essere un’intromissione ma una “giusta preoccupazione”, come quelle più volte manifestate da Chávez sul conflitto colombiano. Passata la furia del primo impatto, anche Maduro ha fatto marcia indietro. Perdere il sostegno economico di Bogotà sarebbe tragico per un Venezuela allo stremo. Il 23 febbraio, il presidente ha minimizzato lo scontro con Santos: «Abbiamo avuto qualche problemino», ha detto. E ha ribadito l’impegno per agevolare i negoziati con le Farc. Crisi risolta? Forse quella con Bogotà è rientrata. Caracas, però, continua a ribollire.