Vent’anni dopo la catastrofe dell’11 settembre, il quadro della lotta alla minaccia jihadista appare multiforme e composito, mostrando sia luci sia ombre.
Se si guarda agli aspetti positivi, si può innanzitutto riconoscere che l’aspirazione ufficiale di Al-Qaeda - essere avanguardia armata a livello transnazionale di un ampio processo di sollevazione nel mondo a maggioranza musulmana - non si è realizzata. Oltretutto, l’organizzazione esce fortemente indebolita da vent’anni di veemente repressione da parte degli Stati. Il suo stesso leader attuale, l’egiziano Ayman Al-Zawahiri, non compare da mesi e le voci circa la sua presunta morte per cause naturali non sono state ancora definitivamente smentite. D’altra parte, la gran parte degli altri leader storici del gruppo armato, a partire dal fondatore Osama Bin Laden, sono stati uccisi o catturati.
Inoltre, Al-Qaeda, nel suo processo di forzata decentralizzazione dopo l’11 settembre, ha mostrato difficoltà a coordinare le sue varie branche regionali. In particolare, la filiale locale emersa in Iraq si è posta in aperta competizione con l’organizzazione di Bin Laden e, divenuta ufficialmente Stato Islamico nel 2014, per alcuni anni è riuscita persino a eclissarla.
A questo proposito, si può naturalmente aggiungere che il sedicente Stato Islamico, con la caduta del “califfato” in Siria e Iraq e la morte del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi nel 2019, ha ormai lasciato alle spalle i suoi anni di “gloria”. Con il crollo di questa entità territoriale, anche il flusso di foreign fighters jihadisti verso il Levante (in totale, oltre 40.000 persone, da più di 100 paesi; poco meno di 150 con legami con l’Italia) si è sostanzialmente interrotto. In generale, il campo jihadista transnazionale è frammentato in diverse organizzazioni e sigle, non di rado in competizione tra loro.
In Occidente, è plausibile sostenere che in questa fase la minaccia terroristica non sia drammatica. Dopo la strage di Barcellona e Cambrils, in Catalonia, del 17 agosto 2017 (16 morti e oltre 150 feriti) nella regione non si è più registrato un attacco terroristico su vasta scala. A maggior ragione, attentati di portata catastrofica, paragonabili a quello dell’11 settembre, appaiono oggi assai improbabili (per quanto non impossibili). Gli episodi di violenza non sono certamente scomparsi, persino nelle fasi più dure delle misure di restrizione ai movimenti e di controllo dovute alla pandemia di COVID-19. Nondimeno, negli ultimi quattro anni la minaccia terroristica si è manifestata in Occidente principalmente nella forma di attacchi pianificati ed eseguiti da singoli individui, non appartenenti a organizzazioni terroristiche, con piani di azione poco complessi e con tattiche e armi poco sofisticate, se non addirittura rudimentali (in particolare, aggressioni a passanti con coltelli e altri comuni armi da taglio). In Occidente, la minaccia non è quindi venuta affatto meno, ma in questa fase è stata quantomeno contenuta. A ben vedere, a differenza di vent’anni fa, essa tende oggi a non apparire più come una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti e, in parte, anche per i paesi europei.
Un ruolo cruciale in questo sforzo di contenimento è stato chiaramente giocato dagli apparati antiterrorismo. Venti anni fa, il sistema di intelligence degli Stati Uniti, il più potente e celebrato del mondo, veniva colto tragicamente di sorpresa da un’ambiziosa e inedita sequenza di attacchi aerei sferrati al cuore dell’unica superpotenza. Negli anni successivi, gli apparati di sicurezza degli USA e degli altri paesi occidentali sono riusciti, nel complesso, ad adattarsi alla nuova minaccia, l’hanno valutata come prioritaria nelle proprie attività e hanno acquisito notevolissime conoscenze, risorse e capacità per contrastarla. Nel frattempo, la normativa degli Stati è stata ripetutamente perfezionata, ricevendo sollecitazioni rilevanti, anche in Italia, soprattutto a seguito degli attacchi del 7 luglio 2005 contro il sistema dei trasporti pubblici di Londra e del 7-9 gennaio 2015 nella sede di Charlie Hebdo e in altri luoghi dell’area di Parigi.
In aggiunta a politiche e misure di repressione del fenomeno terroristico, in molti Paesi occidentali sono stati sviluppati programmi e iniziative di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione, volti e prevenire e contrastare i processi di radicalizzazione, anche con la collaborazione di attori della società civile.
Sotto questo profilo, vale la pena di ricordare la condizione peculiare dell’Italia. Da un lato, la politica nazionale antiterrorismo si è dimostrata aggressiva e generalmente efficace, contribuendo in modo decisivo al fatto che il paese sino a ora abbia rappresentato una felice anomalia nel panorama europeo ed occidentale (un numero assai ridotto di attacchi jihadisti sul territorio nazionale, senza alcuna vittima). Dall’altro lato, l’Italia deve ancora sviluppare un’organica strategia nazionale di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione.
Se si concentra l’attenzione sugli aspetti problematici, vent’anni dopo l’11 settembre il quadro della lotta alla minaccia jihadista appare segnato anche da ombre non trascurabili. Al-Qaeda, pur debilitata da quella che presumibilmente è stata ed è la più estesa campagna antiterroristica della storia, è ancora attiva e pericolosa, dopo oltre trent’anni dalla sua fondazione; questo fatto è tanto più significativo se si pensa che, come documentato dalle ricerche disponibili, la maggioranza delle organizzazioni terroristiche vanta solo pochi anni di longevità.
Oltretutto, Al-Qaeda potrebbe addirittura trarre ampi benefici dalla recente vittoria degli alleati talebani in Afghanistan – lo stesso paese che negli anni Ottanta fu culla dell’organizzazione di Bin Laden e dell’intero movimento dello jihadismo globale. Dopo il crollo del “califfato” nel 2019, vi è il rischio molto concreto che un’organizzazione jihadista di portata transnazionale ritorni a godere di un ampio rifugio sicuro (safe haven). Nel breve periodo, la (ri-)conquista talebana dell’Afghanistan, ottenuta con una rapidità imprevista, e contestualmente il ritiro precipitoso della superpotenza americana e dei suoi alleati (non privo di aspetti che possono apparire umilianti), costituiscono già una significativa vittoria simbolica per la causa jihadista.
Inoltre, al di là del perimetro organizzativo dei singoli gruppi armati, il jihadismo globale, da causa relativamente oscura, appannaggio di un numero piuttosto ridotto di mujahiddin, si è di fatto espanso sino a diventare anche uno dei più noti movimenti di protesta e ribellione a livello transnazionale, potenzialmente attraente pure per individui che abbiano scarsa familiarità con questioni dottrinali e nessuna precedente militanza in organizzazioni islamiste. Assai rilevante in questo processo è stato il ruolo di internet e, negli ultimi anni, specialmente dei social media.
Come detto, in Occidente il pericolo del terrorismo può apparire al momento contenuto; nondimeno, anche ipotizzando che il livello di organizzazione e coordinamento rimanga modesto, non si può escludere che in futuro militanti e simpatizzanti jihadisti dimostrino un maggior livello di creatività e innovazione: per esempio, ricorrendo con successo a tecnologie avanzate (droni, armi stampate in 3D, ecc.).
Al di fuori dell’Occidente, la minaccia jihadista è invece di fatto in espansione in molte altre regioni del pianeta, ben al di là della sua sfera d’azione ai tempi dell’11 settembre. Oggi, in numerosi paesi dell’Africa e dell’Asia, dal Mali alle Filippine, sono attivi gruppi armati di ispirazione jihadista, intenti a intrecciare alcuni principi dell’ideologia globale con istanze prettamente locali e pronti a sperimentare subito forme di controllo territoriale (cui l’originaria organizzazione di Bin Laden non era interessata). In questo contesto, la crescita della violenza di ispirazione jihadista nell’Africa subsahariana desta particolare preoccupazione.
Oltretutto, gli Stati Uniti, dopo il ritiro dalle occupazioni militari avviate dall’Amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq, non sembrano più disponibili a impegnarsi in vaste campagne di counter-insurgency in lontani paesi stranieri.
Al di là degli strumenti militari, meriterebbe infine una valutazione attenta anche l’effettivo esito della pur complessa e delicata “battaglia delle idee” lanciata dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali subito dopo l’11 settembre con l’obiettivo di promuovere efficacemente sul piano culturale i principi ispiratori delle democrazie liberali.
In conclusione, la minaccia del jihadismo globale, divenuta notoria a livello planetario con gli attacchi dell’11 settembre 2001, si è trasformata considerevolmente nel corso degli anni: in sintesi, oggi appare meno strutturata, ma per alcuni versi più capillare. Dopo vent’anni, la sua fine non sembra vicina.