Alla fine di quello che è stato probabilmente il mese più difficile per la politica americana del Pivot to Asia, le scelte dell’Australia e del suo nuovo governo a guida conservatrice potrebbero risultare determinanti per gli equilibri strategici nella regione Asia-Pacifico. L’accelerazione della partnership con il Giappone, evidenziata dalla visita a Tokyo nei giorni scorsi del ministro degli Esteri Julie Bishop, appare un segnale in tal senso.
D’altra parte per l’Australia, a differenza di altri attori regionali come Filippine e Vietnam che da Washington si attendono molto in chiave anticinese, l’appannamento dell’impegno americano in Asia Orientale, evidenziato almeno a livello simbolico dall’assenza del presidente Obama dai vari vertici dipanatisi nella regione mentre era in corso la crisi del default, non è stato un trauma. Al contrario ha costituito la conferma che la via maestra scelta dal nuovo primo ministro Tony Abbott, in realtà non molto differente da quella dei suoi predecessori laburisti se si eccettua l’enfasi sulla necessità di accrescere le spese per la difesa, non ha alternative.
Proprio dall’Australia e con l’Australia era nato il Pivot to Asia americano. Per dare concretezza alla decisione di “tornare a concentrarsi sull’Asia per restarci”, l’amministrazione Obama aveva annunciato l’invio di 2500 marines nella base di Darwin. Il dispiegamento di truppe statunitensi – almeno la loro presenza permanente – deve ancora avvenire e c’è perfino chi sospetta che non si verificherà mai, visti i tagli al bilancio federale decisi da Washington e gli appelli rivolti agli alleati ad assumersi le proprie responsabilità. Nessuno dubita a Canberra, però, che una piena collaborazione sul piano militare con gli Stati Uniti debba restare l’asse portante della politica di difesa. E se altri problemi – non solo il default, ma anche, ad esempio, l’attrazione fatale che continua a rappresentare il Medio Oriente – ritardano o bloccano la completa attuazione della revisione delle priorità strategiche americane, resta la totale convergenza sull’obiettivo di garantire la libertà di navigazione lungo le rotte che percorrono il Pacifico occidentale: non solo le più trafficate del mondo, ma anche strumento insostituibile del modello economico au-straliano export oriented. A tale scopo rimodellare le linee guida della difesa, puntando più sul contrasto alle crisi locali che a quelle globali, diventa una necessità per l’Australia in sintonia con le aspettative dell’alleato americano. Un cambiamento, questo, che presenta anche il vantaggio agli occhi di Abbott di armonizzarsi bene con l’intransigenza anti-immigrazione, decisiva nel farlo trionfare alle elezioni dello scorso settembre.
In questo quadro s’inserisce la strategia definita Asia first, ovvero la politica mirante a consolidare e se possibile moltiplicare i rapporti economici con i “vicini asiatici”. Tra di essi l’importanza della Cina, principale partner commerciale e inesauribile fonte di investimenti, non si discute. (Abbott dovrebbe recarsi a Pechino nei primi mesi del 2014). Ma è sul secondo partner commerciale, il Giappone, definito dalla Bishop nel corso della sua visita a Tokyo «il nostro miglior amico in Asia», che l’Australia sta ora puntando, non fosse altro che per le affinità culturali: adesione al libero mercato, istituzioni democratiche, simmetrica alleanza con gli Stati Uniti. Ora all’accelerazione dei rapporti con Tokyo potrebbe contribuire la relativa affinità ideologica delle due nuove coalizioni di governo, entrambe orientate decisamente a destra. Comunque la marcia di avvicinamento tra i due paesi era in corso da tempo ed è collegata a logiche molto più ampie, che riguardano l’evoluzione degli equilibri regionali e la sempre più profonda correlazione tra aspetti economici e aspetti diplomatico-militari. I rapporti commerciali sono intensi (oltre 70 miliardi di dollari d’interscambio annuo) e quelli diplomatici in crescita. Nel 2006 è stata firmata un’intesa che ha preso il nome di Comprehensive Strategic Partnership e da allora i due paesi hanno tenuto regolari consultazioni 2+2 tra i rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa. Al di là di convergenze come l’impegno comune contro la diffusione di armi di distruzioni di massa o il sostegno australiano alla richiesta giapponese di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ora nei rapporti bilaterali si sta puntando sulla creazione, si spera entro sei mesi, di una zona di libero scambio. L’obiettivo presenta non pochi lati oscuri dato che in entrambi i paesi sussistono ancora forti istanze protezionistiche (in Australia contro le auto giapponesi e in Giappone contro i prodotti alimentari australiani). Tuttavia l’avvicinarsi della conclusione dei negoziati per la creazione della Trans Pacific Partnership favorisce il superamento delle posizioni più conservatrici, ostili all’abolizione delle tariffe doganali. I piani di Abbott prevedono, come il premier ha detto durante l’Est Asia Summit, intese analoghe entro un anno con la Corea del Sud e la Cina. Ma il Giappone deve fare da battistrada. Lo impongono le logiche che hanno portato all’inizio di ottobre, a margine del vertice Apec di Bali, al recupero – o forse al rilancio – del dialogo trilaterale strategico Tsd tra Australia, Giappone e Stati Uniti.
Il Tsd, nato nel 2002 e promosso al livello ministeriale nel 2006, è oggi una scatola in gran parte da riempire. Potrebbe limitarsi a essere un megafono di convergenze su temi globali – dal clima a crisi come quella siriana che l’Australia si è trovata a gestire, nel momento culminante, in veste di presidente di turno del Consiglio di Sicurezza – o uno strumento per favorire la cooperazione nel campo della sicurezza: scambio di informazioni, training, esercitazioni congiunte. Ma potrebbe anche essere molto di più, diventando un piedistallo del Pivot to Asia di Obama. Proprio Australia e Giappone, infatti, appaiono i paesi più ricettivi alle richieste che vengono da Washington, prima tra tutte un maggiore impegno nella salvaguardia della stabilità regionale. Il punto debole è conciliare questo obiettivo con build up militare e contenziosi territoriali sempre più virulenti. E questo per l’Australia è un problema grosso, vista la sua volontà di rafforzare i rapporti a tutti i livelli con Pechino che intanto non manca di percepire anche il Tsd come un’arma brandita dagli Stati Uniti per attuare il temuto “contenimento”. Lo dimostra l’irata reazione cinese al comunicato finale emesso dopo la riunione di Bali, in cui si sposava la tesi del “codice di condotta” per risolvere gli attriti nel Mar Cinese Meridionale e garantire la libertà di navigazione.