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TRADE

Verso un decoupling globale?

Davide Tentori
09 Dicembre 2022

Lo scoppio della guerra in Ucraina, fonte del secondo shock subito dal sistema economico mondiale in meno di tre anni, ha fatto scoppiare un dibattito sul futuro della globalizzazione. Si tratta di un dibattito fondato? Alcune evidenze verificatesi nelle ultime settimane sembrano sostenere l’ipotesi di una crescente frammentazione, circoscritta però ad alcuni settori strategici per l’interesse e la sicurezza nazionale delle principali potenze. Si tratta dei settori ad alta intensità tecnologica e che vertono sulla produzione dei semiconduttori, rispetto alla quale i “motori” si stavano riscaldando da diverso tempo. Ora, con le recenti restrizioni commerciali introdotte dagli Stati Uniti nei confronti della Cina, si può dire che la corsa sia ufficialmente iniziata. Anche perché oltre al fronte del Pacifico che vede contrapporsi Washington a Pechino, rischia di aprirsene un altro a livello transatlantico, con l’Unione Europea che minaccia di rispondere alla potenza di fuoco dei sussidi alle tecnologie green previsti nell’Inflation Reduction Act lanciato dal governo statunitense. I rischi di un “decoupling generalizzato” potrebbero dunque aumentare nei prossimi mesi. Stiamo dunque per entrare in una nuova Guerra fredda, stavolta di natura commerciale?

 

Cosa è successo

Per comprendere cosa sta succedendo, cerchiamo di mettere in fila i principali eventi degli ultimi due mesi. Il 7 ottobre il Department of Commerce statunitense ha introdotto una serie di misure restrittive all’export di semiconduttori di tecnologia più avanzati e finalizzati alla produzione di supercomputer da applicare in settori specifici quali difesa e armamenti. Le misure consistono anche in un’espansione della lista di aziende cinesi a cui è vietato l’acquisto di prodotti americani in questi settori se non previa autorizzazione (tramite licenza) da parte delle autorità USA e nell’impedimento per persone fisiche statunitensi di fornire assistenza alle aziende cinesi operanti nel settore.

La mossa di Washington cerca di raggiungere due obiettivi: da un lato ritardare lo sviluppo dell’industria cinese dei semiconduttori più avanzati (ovvero quelli sotto i dieci nanometri di dimensione), dall’altro colpire la modernizzazione del settore della difesa. Il tutto privando Pechino dell’accesso sia alle tecnologie sia al know-how (attraverso il capitale umano, che è per l’appunto oggetto delle restrizioni). Non si tratta della prima restrizione commerciale da parte degli USA in questo campo: la mossa si inserisce infatti nel solco già intrapreso delle misure che gli Stati Uniti avevano adottato per colpire la cinese Huawei a partire dal 2020. In questo caso però le restrizioni all’export colpiscono non una sola azienda ma l’intero settore, arrivando a mettere i bastoni tra le ruote ad alleati (ad esempio Taiwan tramite il colosso dei chip TSMC) o addirittura ad aziende americane (es. Intel) dato che a causa di queste misure non potranno più operare in Cina.

È interessante notare che nemmeno Donald Trump si era spinto fino a questo punto: il presidente repubblicano aveva adottato una postura aggressiva nei confronti della Cina, ma sulla base di un approccio negoziale. L’attuale amministrazione, invece, ha colpito duramente senza timore di danneggiare gli interessi di attori economici USA o di Paesi partner. 

Ma Washington non si è fermata qui. Nel corso dell’estate, infatti, la Casa Bianca ha lanciato l’Inflation Reduction Act (IRA): provvedimento dal nome fuorviante perché il suo scopo primario non è il contrasto all’inflazione ma il sostegno alla crescita attraverso una vera e propria montagna di sussidi (369 miliardi di dollari) destinati alle aziende USA che producono nuove tecnologie legate alla transizione energetica. L’IRA – che entrerà ufficialmente in vigore il 1° gennaio 2023 – ha suscitato il malcontento dell’UE che, attraverso i Commissari all’Industria e alla Concorrenza Thierry Breton e Margrethe Vestager, ha sottolineato come questo provvedimento sia discriminatorio delle aziende europee interessate a esportare e investire negli USA, limitandone di fatto l’accesso al mercato domestico e mancando di reciprocità con le norme sulla concorrenza europee, che per l’appunto non applicano discriminazioni alle aziende statunitensi operanti negli stessi settori.

Nelle scorse settimane, il livello delle rimostranze europee si è alzato al punto da ventilare l’ipotesi di ricorrere al World Trade Organization facendo scattare una disputa commerciale. C’è davvero il rischio che si giunga a un nuovo scontro commerciale tra Bruxelles e Washington?

 

Le possibili ricadute

A causa dell’elevatissima interdipendenza lungo la supply chain dei semiconduttori (un esempio molto chiaro e concreto di quello che significa oggi globalizzazione) non è semplice isolare le possibili conseguenze delle misure statunitensi su un attore rispetto agli altri. Cerchiamo però di definire alcuni punti per poi analizzare quali potrebbero essere le contromosse e dunque le prospettive future della competizione per la leadership tecnologica globale.

Innanzitutto, dal lato degli Stati Uniti ogni collaborazione industriale tra aziende americane e cinesi nel settore è destinata a terminare. Come effetto immediato delle nuove restrizioni, i cittadini USA che lavorano in Cina per aziende hi-tech si stanno licenziando. L’impatto sul settore interno sarà misto: negativo per le aziende fornitori di Pechino (ad esempio il 27% delle vendite di Intel sono in Cina), positivo per altre che soffrono (o soffrivano) di concorrenza diretta dalla Cina (ad esempio Micron). Nel frattempo, gli USA stanno cercando di rafforzare l’industria nazionale dei semiconduttori: a luglio la Casa Bianca ha lanciato il CHIPS and Science Act che prevede 50 miliardi di dollari di investimenti pubblici; a settembre Joe Biden ha inaugurato un nuovo stabilimento di chip di Intel in Ohio costato 20 miliardi di dollari.

E il punto di vista della Cina? Il governo di Pechino non si è ancora espresso ufficialmente sulla questione, ma ritorsioni di natura economica non si possono escludere. Le maggiori aziende del Paese operanti nel settore hanno convenuto sul fatto che le mosse di Biden avranno un effetto molto dannoso per l’industria cinese di semiconduttori. Le principali aziende cinesi (SMIC e YMTC) potrebbero subire un ritardo nel percorso di catch-up tecnologico variabile da 2 a 5 anni, secondo le stime di alcuni esperti . Al momento, infatti, la produzione interna di chip è in grado di soddisfare solo il 15% della domanda domestica. Infatti, quella dei chip è la prima voce di import cinese (circa 350 miliardi di dollari), addirittura superiore al petrolio (circa 230 miliardi) di cui è di gran lunga il primo importatore mondiale.

Va poi considerata la prospettiva di Taiwan, dove sono basati i principali produttori per i microchip più avanzati. Da un lato, Taipei può ora utilizzare in senso strategico questo vantaggio rafforzando ulteriormente la propria azienda campione TSMC (che da sola detiene il 55% della produzione globale di chip). Dall’altro lato l’isola potrebbe considerare negativamente le misure americane: gli USA vogliono che TSMC aumenti i propri investimenti negli USA, ma il governo taiwanese resiste anche perché non vuole perdere quote di export sul mercato cinese.

E infine c’è ovviamente l’Europa. L’UE al momento è l’attore più in ritardo nella partita dei semiconduttori. Lo European Chips Act al momento ha messo sul piatto solo 15 miliardi di euro. Nel frattempo, stanno arrivando investimenti privati significativi che porteranno alla creazione di poli dei semiconduttori anche in Italia, come dimostrano i recenti annunci di Intel, STMicroelectronics e Tower Semiconductor. Tali risorse non sembrano però sufficienti rispetto a quanto Stati Uniti e Cina possono stanziare. Per l’UE rafforzare le supply chains con gli USA sembrerebbe una strada obbligata, ma le imprese statunitensi non rispettano le stesse regole del gioco: il riferimento, come si accennava prima, è ai sussidi e aiuti di Stato che vengono forniti alle aziende americane attraverso l’IRA.  

USA e UE si sono confrontati sul tema in occasione della terza riunione del Trade and Technology Council, che si è svolta il 5 dicembre all’Università del Maryland. L’incontro tra i responsabili delle questioni commerciali (Gina Raimondo per gli USA e Valdis Dombrovskis e Margrethe Vestager per la Commissione) è servito quantomeno a stemperare gli animi e ad annunciare da parte statunitense la disponibilità a rivedere le norme dell’IRA in senso non discriminatorio verso le aziende europee. Occorrerà dunque verificare se nei prossimi giorni saranno effettivamente applicati dei correttivi al provvedimento in grado di disinnescare la miccia di un nuovo scontro commerciale. Anche perché l’eventualità di un progressivo irrigidimento e chiusura da parte dell’UE, che porti a una nuova competizione globale a suon di sussidi e aiuti di Stato, è sempre più probabile, stando alle parole di Ursula von der Leyen di domenica 4 dicembre al College d’Europe.

 

Il decoupling arriva…ma da Occidente?

Negli ultimi anni si è parlato molto di decoupling della Cina rispetto all’Occidente. In realtà, con queste misure sono gli USA che dimostrano di voler accelerare il distacco dal sistema produttivo cinese facendo leva sulle vulnerabilità e i ritardi di Pechino. L’approccio di Biden verso la Repubblica popolare sembra più ideologico e meno incline a negoziazioni/compromessi rispetto a quello di Trump. Se l’obiettivo è anche quello di ridurre l’enorme deficit commerciale di Washington nei confronti della Cina, va detto che tali misure potrebbero funzionare solo per i settori tech considerati “strategici” e che sono stati oggetto di restrizioni commerciali. L’import dalla Cina in questi settori è crollato negli ultimi anni, ma per converso sono aumentate le importazioni di molti altri prodotti non soggetti a dazi o altre barriere (in genere beni manufatti di basso/medio valore aggiunto).

Dunque, cosa accadrà? Molto probabilmente assisteremo a una crescente divisione in blocchi, con regionalizzazione di filiere quantomeno nei settori hi-tech. Per la Cina l’export pesa sempre meno in rapporto al Pil (oggi è al 20% rispetto al 35% del 2007) e la tendenza tra i vari blocchi sarà quella di rendersi meno dipendenti gli uni dagli altri. Attenzione però, perché se da un lato gli USA cercano di tagliare fuori la Cina dalle fasi “a valle” della filiera dei chip, Pechino controlla ancora quelle “a monte”, ovvero le materie prime necessarie per realizzare i semiconduttori (la Cina detiene il 35% della capacità di raffinazione globale di nichel, tra il 50-70% di litio e cobalto e oltre il 90% di terre rare). Inoltre, non è affatto scontato che gli alleati occidentali seguano gli USA in questo allontanamento dalla Cina.

Le aziende cinesi produttrici di semiconduttori dipendono in maniera vitale dalle importazioni di componenti chiave e stanno cercando nuovi fornitori alternativi agli USA. Aziende giapponesi come Hitachi e Tokyo Electron potrebbero subentrare a quelle americane e non è escluso che Pechino possa cercare nuovi fornitori anche in Europa: del resto, la recente visita del Cancelliere Scholz a Xi Jinping ha testimoniato che la Germania non è disposta a rinunciare ai propri enormi interessi in Cina. Nel frattempo, la taiwanese TSMC ha annunciato che amplierà il proprio stabilimento in Arizona per produrre chip ancora più piccoli e performanti (fino a 3 nanometri di dimensione!). La parola d’ordine, però, non sembra essere “sostituzione” bensì “diversificazione”, dato che il colosso taiwanese non vuole perdere, come si è detto, l'accesso al mercato cinese.

La strategia degli USA non è dunque priva di rischi. In questo momento, anche alla luce delle difficoltà economiche cinesi, sa di poter avere un margine di vantaggio su Pechino limitatamente a questi settori: infatti, nonostante il parziale “disgelo” bilaterale che c’è stato ai margini del G20 di Bali, gli USA hanno affondato nuovamente il colpo definendo Pechino, nel recente rapporto annuale della US-China Economic Security and Review Commission, come una “potenza ostile”, arrivando persino a ventilare l’ipotesi di revocare a Pechino lo status di nazione più favorita in ambito WTO. Tuttavia, tirare troppo la corda in questo ambito rischia di aprire un altro fronte commerciale con l’UE, che dal canto suo potrebbe decidere di fare oscillare il pendolo nella direzione di un maggiore dirigismo rispetto a orientamenti più incentrati sul laissez faire, con il rischio di ridurre il coordinamento tra politiche industriali e commerciali con l’alleato transatlantico. Washington dunque non riuscirà a realizzare la “nuova globalizzazione” che ha in mente se non cercherà un coordinamento preventivo ed efficace con i propri alleati.

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Davide Tentori
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Image Credits (Unsplash License): CHUTTERSNAP

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