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SISTEMA MONETARIO

Verso una nuova Bretton Woods?

Luca Fantacci
23 maggio 2022

Janet Yellen, segretaria al Tesoro USA e già governatrice della FED, in un recente discorso all’Atlantic Council ha ricordato la conferenza di Bretton Woods, citando il discorso inaugurale di Roosevelt: “È giusto che, mentre la guerra di liberazione è al suo culmine, ci riuniamo per definire assieme la forma del futuro che dobbiamo conquistare”. Era il luglio del 1944 e, mentre ancora infuriavano i combattimenti della Seconda guerra mondiale, nella località montana del New Hampshire si tenne sotto l’egida degli Alleati una conferenza per disegnare un nuovo ordine economico internazionale capace di promuovere la prosperità e la pace – e perciò di infondere motivazione e speranza a combattenti e popolazioni allo stremo. Una rievocazione quanto mai opportuna in un momento in cui ritorna lo spettro di un conflitto planetario.

“Dunque lei sta invocando una nuova Bretton Woods”, ha subito rilanciato la moderatrice, l’editorialista del Financial Times, Rana Foroohar. Quasi spaventata dall’imparità del suo stesso confronto, la segretaria Yellen ha subito abbassato il tiro, osservando che Bretton Woods creò “un eccellente set di istituzioni”, che queste ultime hanno fatto un buon lavoro nel promuovere la crescita degli scambi e degli investimenti globali e che, insomma, non si tratta oggi di riformare l’architettura monetaria internazionale, ma soltanto di renderla più adatta ad affrontare le sfide del presente.

 

Oggi come ieri: sfide simili

Peccato. Perché, dopo quasi ottant’anni, le sfide di oggi sono le stesse di allora. E in larga parte proprio a causa degli accordi di Bretton Woods, dei loro difetti intrinseci e del modo in cui sono stati successivamente interpretati, applicati e modificati. Sarebbe ora di riconoscere che le istituzioni di Bretton Woods hanno mancato il loro compito principale, che era quello fissato nella Carta Atlantica siglata da Roosevelt e Churchill già nell’agosto del 1941: “far sì che tutti i Paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti, abbiano accesso, in condizioni di parità, ai commerci e alle materie prime mondiali necessarie alla loro prosperità economica”.

Proprio al fine di promuovere un commercio globale libero ed equo, a cui ogni Paese potesse partecipare in ragione del proprio vantaggio comparato, evitando al contempo la formazione di squilibri finanziari persistenti, gli accordi di Bretton Woods affidarono al Fondo Monetario Internazionale il compito di finanziare deficit temporanei, ma anche “di ridurre la durata e il grado di squilibrio delle bilance dei pagamenti internazionali dei membri” (Art. I, vi).

Ora, se dovessimo misurare oggi le performance del Fondo sulla base della sua capacità di assolvere a tali funzioni originarie, dovremmo concludere che ha fallito miseramente. Fin dall’inizio, infatti, si sono accumulati squilibri commerciali strutturali che hanno spaccato il mondo fra Paesi in surplus e Paesi in deficit. Gli sbilanci di parte corrente sono aumentati fino alla crisi finanziaria globale del 2008, quando hanno superato complessivamente il 2,5% del Pil globale, per poi diminuire, ma assestandosi comunque sopra all’1%: i principali surplus sono in Cina, nei Paesi mediorientali esportatori di petrolio e sempre più in Europa, mentre il più ampio e persistente deficit è quello degli Stati Uniti (Figura 1).

 

Figura 1 Squilibri globali

(in percentuale del Pil mondiale)

   Fonte: Council on Foreign Relations

 

Anno dopo anno, i deficit si accumulano formando una montagna di debiti soprattutto in capo agli Stati Uniti, mentre in maniera del tutto speculare si sommano i surplus, accrescendo la posizione creditoria, particolarmente nella forma di riserve delle banche centrali dei Paesi esportatori netti (Figura 2). Gli interessi speculari di debitori e creditori contribuiscono a perpetuare gli squilibri, alimentando nei primi l’illusione di poter continuare a spendere senza restrizioni e negli altri la presunzione di poter continuare a risparmiare senza limiti.

 

Figura 2 Debiti netti USA e riserve in dollari nel resto del mondo

Fonte: IMF e BEA

 

Questa situazione è la conseguenza diretta di un altro lascito di Bretton Woods che perdura sino ad oggi: l’adozione (surrettizia) del dollaro come moneta internazionale, sulla base della sua convertibilità in oro. Risale a quegli accordi, infatti, l’egemonia del dollaro che consente agli Stati Uniti di fare circolare i propri debiti in tutto il mondo alla stregua di moneta. Da quando il presidente Richard Nixon ha sospeso la convertibilità del dollaro in oro, nell’agosto del 1971, la capacità degli Stati Uniti di creare moneta internazionale non ha più alcun limite.

È così che, da cinquant’anni, il sistema monetario internazionale basato sul dollaro ha dato l’illusione di poter risolvere ogni problema affogandolo nella liquidità: crisi finanziarie, crisi fiscali, pandemie, guerre… Ma queste continue iniezioni di liquidità non hanno fatto altro che ampliare ulteriormente gli squilibri globali in un circolo vizioso.

Già nel 1941 Keynes riconosceva negli squilibri di bilancia dei pagamenti la principale minaccia alla pace, sociale e internazionale: “Il problema di mantenere l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti fra Paesi non è mai stato risolto, da quando i vari tipi di baratto hanno ceduto il passo all’uso della moneta e delle lettere di cambio. […] L’incapacità di risolvere questo problema è stata una seria causa di impoverimento e malcontento sociale, e perfino di guerre e rivoluzioni” (The Secular International Problem). La spiegazione di tali esiti nefasti sta nel fatto che, quando anche finalmente gli squilibri sono affrontati, ciò avviene perlopiù attraverso misure correttive che sono foriere di tensioni, all’interno (austerity) o all’esterno (protezionismo).

 

Nodi che vengono al pettine

Oggi, in effetti, gli “assegni senza copertura” che circolano come moneta internazionale stanno venendo a scadenza: le iniezioni massicce di liquidità che hanno caratterizzato gli ultimi tredici anni hanno fornito il carburante per l’attuale fiammata inflattiva di cui pandemia e guerra hanno costituito meramente l’innesco. Anche l’incremento dei prezzi dell’energia, pur scatenato dalle sanzioni, è alimentato dalla sovrabbondanza di liquidità alla ricerca di impieghi alternativi a fronte del calo delle borse. A ciò si aggiunge il desiderio di alcuni Stati, segnatamente la Cina, di convertire riserve valutarie in riserve energetiche, dopo il congelamento che ha colpito la Banca centrale russa. In definitiva, più di quanto si sia comunemente disposti a riconoscere, l’inflazione ha origini monetarie.

E non ci si può aspettare il coordinamento delle politiche monetarie quando il sistema è costruito per creare interessi contrapposti. Il rischio della stagflazione sta propiziando il ritorno di un mercantilismo mascherato, nella forma di guerre valutarie striscianti e del riposizionamento delle catene del valore in patria, o quantomeno in Paesi alleati (friend-shoring of supply chains).

A fronte del rischio della frammentazione dell’economia globale, si invoca sempre più di frequente una nuova Bretton Woods. Ma si dimentica spesso che Bretton Woods implicò uno sforzo diplomatico immane, dispiegato lungo tre anni di preparativi, culminato in una conferenza convocata dall’embrione di ciò che si sviluppò poi nelle Nazioni Unite, con la partecipazione di 44 delegazioni provenienti da altrettanti paesi e 21 giorni di negoziazioni… e, ciononostante, fu un’occasione mancata. Un sistema internazionale che non permette il pagamento dei debiti, è un sistema internazionale che alla lunga è incapace di assicurare la pace, posto che, come ricorda anche la comune radice etimologica delle due parole, non c’è pace senza pagamento.

 

Serve una nuova moneta internazionale

Occorre una nuova conferenza monetaria internazionale. Lo aveva promesso Nixon quando, sospendendo la convertibilità del dollaro in oro, ha inaugurato il “post-Bretton Woods non-system”. Invece non se ne parla più, se non in maniera iperbolica e per abbassare subito la mira. Occorre istituire una vera moneta internazionale, per evitare che la crescita continui a produrre squilibri, costringendo il Paese che detiene l’egemonia monetaria a essere anche il più indebitato. Invece perlopiù ci si limita ad attendere, con malcelato fatalismo, lo scontro finale fra dollaro e yuan.

Il nuovo ordine monetario internazionale non è tutto da inventare. Per conto del governo britannico, Keynes aveva elaborato un piano che prevedeva l’istituzione di una moneta internazionale distinta dalle moneta nazionali. Si sarebbe chiamata bancor, perché sarebbe stata creata al pari di una moneta bancaria da una camera di compensazione globale, nell’esatta misura richiesta dagli scambi commerciali internazionali, senza alcun bisogno di ricorrere a mercati di capitali a breve termine e alle loro dinamiche speculative destabilizzanti. Il sistema era disegnato per evitare l’accumulazione di squilibri e per incentivare il risparmio internazionale nella forma non di attività finanziarie, ma di riserve di materie prime, al fine di stabilizzarne il valore. Keynes amava descrivere la sua proposta come un piano di “disarmo finanziario”. Sarebbe quanto mai urgente ripartire da lì, adesso che – con la chiusura del sistema dei pagamenti, il blocco degli asset, il congelamento delle riserve – le armi della finanza sono oggetto di un dispiegamento senza precedenti.

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AUTORI

Luca Fantacci
UNIMI e Bocconi

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