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Commentary

Vertice di Ventotene: più retorica che idee e impegni precisi

Piero S. Graglia
23 Agosto 2016

L’incontro trilaterale tra Renzi, Merkel e Hollande a Ventotene ha a che fare con molte cose ma di certo non con l'eredità del Manifesto di Ventotene.

Quel documento, importante ma non risolutivo, immaginava delle prospettive e indicava delle priorità che in quell’anno, 1941, apparivano impossibili: esso proclamava l’inadeguatezza dello stato nazionale sovrano di matrice ottocentesca (in molti casi involutosi nello stato totalitario e autoritario) ad affrontare e risolvere i problemi di scala europea che gli stavano di fronte, se non usando la forza delle armi e la conquista imperiale; proclamava la necessità – per la stessa salvezza della civiltà europea – di cessioni di sovranità sostanziali nel campo della difesa, della politica estera, della moneta e della politica economica, realizzando quindi gli “stati uniti d’Europa” sul modello federativo statunitense; infine stabiliva un nuovo discrimine tra conservatori e progressisti, indicando nei sostenitori della soluzione federale gli unici progressisti sinceri, perché avrebbero abbandonato la visione del mondo nazionale e si sarebbero aperti a una visione sovranazionale, politica e istituzionale.

Quasi nulla di ciò che tale documento prefigurava è oggi inverato nell’Unione europea, con l’eccezione – quanto dibattuta e discussa lo sappiamo – rappresentata dalla moneta unica, priva però di quegli strumenti politici di controllo unitario che rendono di fatto l’euro un sorvegliato speciale; d’altro canto non abbiamo una politica estera unica, non abbiamo una politica di difesa integrata, gli stati dell’Unione mantengono con veemenza rissosa il controllo della loro sovranità (rappresentata, in primis, negli ultimi tempi, da un rinnovato controllo delle frontiere) e siamo lontani, se non lontanissimi, da un governo politico dell’Europa in campo economico e sociale, con il coinvolgimento del Parlamento e della Commissione e gli stati diminuiti nei loro poteri di veto.

Se vogliamo partire da questi dati di fatto, non si capisce proprio, quindi, perché tirare in ballo un’idea, quella federalista, così lontana dalla realtà effettiva del funzionamento dell’Unione europea.

Se vogliamo fare lo sconto della buona fede del presidente del Consiglio, si dirà che egli ha voluto il vertice in questo luogo così simbolico per favorire un rilancio ideale dell’Unione; questo lo si legge anche sui resoconti giornalistici – immediatamente pronti, con riflesso pavloviano, ad abboccare all’amo dell’immagine della “isola in cui è nata l’Europa”. Peccato che in quell’isola non sia nato invece proprio nulla che sia stato realizzato successivamente: nessuno, tra i padri costituenti delle prime comunità, come Adenauer, De Gasperi, Schuman, o lo stesso Monnet, misero i principi del Manifesto di Ventotene in cima ai loro pensieri. Furono dei simpatizzanti generici, portati alla collaborazione sovranazionale più dall’impulso e sprone statunitense che non dal valore ideale di un’idea che sentivano, giustamente, minacciosa per le distinte prerogative nazionali, e anche se Monnet definì nel 1950 la nascita della CECA come "la prima assise concreta della futura federazione europea", già nel 1956 tale principio federalista era scomparso, e per sempre. I federalisti restarono negli anni, nel sistema comunitario, considerati come degli originali rompiscatole, non certo ispiratori ascoltati. Lo stesso Spinelli dovette accettare la lezione dei fatti e farsi pragmatico analista della realtà comunitaria; prima come commissario europeo e poi come eurodeputato.
Il risultato è sotto i nostri occhi: l'Unione europea è cresciuta sulla base del metodo intergovernativo, e se pure nel tempo vi sono stati dei tentativi di aumentare il livello di sovranazionalità (come fece il primo presidente della Commissione Walter Hallstein, che venne fermato nelle sue velleità federaliste da de Gaulle), la storia ci restituisce l’immagine di un sistema fondato sulla collaborazione intergovernativa più che sulla cessione di competenze sovrane. In altre parole, gli stati membri da anni lottano, nella Comunità prima e nell’Unione poi, per difendere le prerogative nazionali e i residui delle loro competenze esclusive; ogni qualvolta si parla o si tenta di impostare una cessione di sovranità significativa in campi nevralgici, su iniziativa del Parlamento o della Commissione, riescono solo a essere parte del problema, non della soluzione.
Renzi, Merkel e Hollande dovrebbero quindi capire che andare a Ventotene non è come andare a Milano o a Friburgo: significa prendere degli impegni precisi e accettare un genius loci lontanissimo dal loro sentire. Il dossier delle questioni in discussione è molto ampio: ma non basta parlare di eurocorpi in campo militare (cioè le unità di nazionalità mista che sono nate sull’esempio della brigata franco-tedesca creata alla fine degli anni Ottanta e acquartierata a Strasburgo); non basta parlare di collaborazione tra polizie e servizi di sicurezza, di Europol e sistemi integrati di controllo tra sistemi nazionali che ammettono a malincuore e con tante resistenze la dimensione sovranazionale del lavoro di intelligence; non basta parlare di rinnovati piani europei per l’occupazione e lo sviluppo che però verranno gestiti da Hollande guardando alle elezioni presidenziali, dalla Merkel pensando alle elezioni politiche e da Renzi pensando con un emisfero cerebrale alla riforma costituzionale e con l’altro alle elezioni del 2018. Ci vogliono idee e impegni precisi, concreti e fondati su cessioni di sovranità crescenti che però non possono originarsi dai tre leader, per un semplice motivo: essendo capi di governo non possono programmare la diminuzione delle prerogative che rappresentano la loro legitimmazione.

In altre parole, non si può chiedere al sovrano di programmare la sua abdicazione e di costruirla in prima persona: è una “contradizion che nol consente”. Singolare è infatti la circostanza che in nessun caso i tre abbiano fatto riferimento al ruolo del Parlamento europeo in questo rilancio dell’Europa unita (federale?), o a quello della Commissione; parlano e si presentano come deos ex machina, e di certo non con un programma di cessioni di sovranità.

Del resto, è lo stesso Spinelli oggi celebrato dai tre leader a ricordarci che le iniziative intergovernative possono essere utili per dare un impulso di avvio, ma poi l’iniziativa deve provenire dalla politica politicienne e dagli organismi rappresentativi sovranazionali. Scrivendo nel 1955 dopo il fallimento della comunità europea di difesa, giustamente infuriato con il governo italiano e francese che avevano fatto fallire il progetto, egli affermava: “Non è più ormai sui governi e sui loro diplomatici, sui parlamenti e sulle loro delegazioni europee, che si può contare, né per elaborare, né per ratificare la costituzione federale di cui l’Europa continua ad avere urgente e assoluto bisogno. È ai popoli democratici di Europa, riconosciuti come fonte prima del potere dei governi e dei parlamenti nazionali che bisogna chiedere e ottenere che sia data la parola. […] Poiché l’unità europea non può essere realizzata nelle presenti circostanze con un atto di forza, rivoluzionario o militare, che obblighi gli stati nazionali a cedere ciò che non sanno più amministrare, occorre ottenere il loro consenso alla convocazione della Costituente europea. Ma le diplomazie devono essere escluse dalla redazione di questa costituzione e i parlamenti nazionali devono essere esclusi dalla sua ratifica finale”.

Credo che a questo punto i fiori appena deposti sulla tomba del grande europeista federalista comincino già ad appassire. Una costituente europea che ridefinisca i termini del nostro stare insieme, e che definisca l’importante principio che si può anche partire con aggregazioni di stati di numero inferiore a quello dell’Unione europea attuale per dare vita a nuclei di integrazione federale, è l’unica strada da battere per dare un senso e una conseguenzialità al simbolo di Ventotene.

E di nuovo, centrale è il grande assente, il Parlamento europeo, in cui non siede più alcun Spinelli ma che rappresenta l’unica assemblea in grado di prendere in mano l’iniziativa costituente. Altrimenti, avrebbe detto Ernesto Rossi, si parla di “aria fritta”.

 

Piero S. Graglia è professore di integrazione europea all’Univesità Statale di Milano

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Piero S. Graglia
professore di integrazione europea all’Univesità Statale di Milano

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