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Usa-Russia

Vertice Trump-Putin: a Helsinki si esibisce la politica degli uomini forti

Mario Del Pero
15 luglio 2018

È stata persino più turbolenta del previsto, questa prima parte del tour europeo di Donald Trump. Prima gli attacchi, ormai rituali anche nella loro scompostezza, ad Angela Merkel e alla Germania. Poi l’inattesa presa di posizione contro Theresa May e la linea soft adottata dal governo rispetto alla Brexit. Se vi sia una strategia, dietro uscite estemporanee e assai approssimative, nella forma e nei contenuti, è difficile comprenderlo, anche perché è ormai prassi che le dichiarazioni più controverse di Trump siano poi immediatamente corrette dai suoi portavoce e da altri membri dell’amministrazione o prontamente smentite, contro ogni evidenza, dallo stesso Presidente. Trasparente appare però una concezione delle relazioni internazionali, e degli interessi statunitensi, assai primordiale e rozza: come di un gioco a somma zero, facilmente misurabile, ad esempio, nelle bilance commerciali da riportare in equilibrio o nelle spese militari da ripartire più equamente.

È quindi in una certa misura appropriato che il viaggio di Trump si chiuda con il summit russo-statunitense di Helsinki. È difficile sottostimare la valenza simbolica dell’incontro con Putin. Sono trascorsi otto anni dall’ultimo vertice presidenziale tra Russia e Stati Uniti. Anni, questi, di tensioni crescenti culminate nella crisi ucraina, l’annessione russa della Crimea e le sanzioni imposte a Mosca. Anche se a Washington vi fosse un Presidente più convenzionale - democratico o repubblicano - il vertice di Helsinki rappresenterebbe un momento cruciale per la politica internazionale corrente. Alla Casa Bianca vi è però il Presidente meno ortodosso, prevedibile e preparato che si possa immaginare. Un Presidente che non nasconde la sua ammirazione per gli uomini forti à la Putin e su cui pendono le indagini relative sia alle ingerenze di Mosca nella campagna elettorale del 2016 sia agli opaci interessi economici della famiglia Trump in Russia.

I dossier critici per la relazione russo-statunitense sarebbero in realtà molteplici, dalla spinosa questione ucraina alla Siria e alla possibilità di contenere l’influenza iraniana nel paese, dal rilancio dei negoziati sul controllo degli armamenti alle sanzioni. Negli Usa, la narrazione politica e mediatica dominante dell’evento è però tutta concentrata sulla relazione quasi speciale venutasi a determinare tra Putin e Trump e su come questa abbia iniziato a modificare in profondità la percezione (e la rappresentazione) della Russia negli Usa. Una relazione speciale, questa, fondata sulla centralità che Putin e la sua leadership hanno acquisito tanto nel discorso trumpiano quanto in quello dei suoi oppositori.

Per Trump, Putin offre un modello di leadership carismatica e plebiscitaria, libera da quei vincoli paralizzanti che il debole presidenzialismo statunitense, e la diffusione del potere in un sistema federale, impongono invece a chi guida gli Stati Uniti. L’apprezzamento, talora esplicito e ostentato, per l’autoritarismo putiniano si somma alle affinità tra due nazionalismi – quelli di Trump e Putin – dove centrale è l’affermazione della necessità, e invero dell’eticità, di promuovere senza remore l’interesse nazionale. Fece scalpore, più di un anno fa, la risposta data da Trump al celebre giornalista conservatore della rete televisiva Fox Bill O’Reilly che lo incalzava sulle violenze del governo russo nei confronti di dissidenti e giornalisti. “Pensi che il nostro paese sia così innocente?”, ribatté allora il Presidente americano. Non si trattava però di una critica o di un’assunzione di responsabilità storiche. Era, al contrario, un modo per rivendicare la necessità di confrontarsi, senza remore o tentennamenti, con la brutalità e il cinismo della politica, che trovano nell’arena delle relazioni internazionali la loro sublimazione ultima.

Putin diventa quindi il medium attraverso cui si proietta un’immagine normativa di come debba essere un leader efficace e capace di tutelare gl’interessi del suo paese o, meglio, del suo popolo (che nel caso di Trump e della destra repubblicana, non include ovviamente la popolazione statunitense nel suo complesso, ma solo un suo preciso segmento). Invocare, come già il candidato Trump fece, un reset delle relazioni con Mosca e la creazione di un asse russo-statunitense non riflette solo ragionamenti strategici, più o meno logici e condivisibili. A monte vi è una dimensione ideologica e politica i cui effetti sono peraltro misurabili nel rapido cambiamento di opinione dell’elettorato di Trump nei confronti della Russia: secondo Gallup la percentuale di repubblicani che la considera un paese “amico” sarebbe quasi raddoppiata (dal 22 al 40%) tra il 2014 e oggi.

Tra i democratici la percentuale è invece rimasta invariata, ancorata al picco negativo raggiunto appunto nel 2014. Perché una rappresentazione parimenti ideologica della Russia e di Putin pare esservi anche a sinistra. Dove “putinizzare” Trump serve per enfatizzare, e talora esagerare, l’eccezionalità della situazione e i rischi di deriva autoritaria che esisterebbero oggi negli Usa.  E dove l’attenzione, quasi ossessiva, verso le ingerenze russe nelle elezioni statunitensi, tende talora a impedire una piena comprensione delle matrici complesse e profonde del fenomeno Trump, riducendolo a una sorta di temporanea patologia prodotta appunto da fattori esterni: pericolosissima se non s’interviene subito sull’agente patogeno, ma in ultimo facilmente curabile laddove lo si individui prontamente.

Dentro questa doppia rappresentazione, si colloca una relazione che, per quanto importante, non ha riacquisito né potrà mai riacquisire la centralità del passato. Perché nuove guerre fredde richiederebbero a Mosca una ben altra, e più articolata, capacità di proiezione globale della propria potenza; perché le priorità strategiche americane continuano a orientarsi verso l’Asia-Pacifico; e perché flebili, molto flebili, sono oggi le forme d’integrazione tra le due economie, con un volume di scambi assai ridotto - anche in conseguenza delle sanzioni, la Russia è appena il trentesimo partner commerciale degli Usa - e d’investimenti stagnanti e limitati.

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Tags

relazioni transatlantiche USA Russia trump Putin
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AUTORI

Mario Del Pero
Sciences Po

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