Raramente nella storia d’Europa, una storia sì di guerre, ma anche di alleanze, coalizioni, equilibri e lunghe contese diplomatiche, un singolo stato si è ritrovato a occupare la posizione di vantaggio geostrategico di cui gode l’odierna Germania. Assorbiti ormai quasi definitivamente i contraccolpi derivati dall’unificazione (1990), alla tradizionale forza economica tedesca si è aggiunta la preminenza politica sul continente e una stabile coesione sociale interna.
La proiezione internazionale della Germania poggia dunque su questi tre solidi pilastri – su cui gli altri grandi d’Europa non possono contare che in maniera incompleta. Inoltre, il paese ha attraversato praticamente indenne – anzi, rafforzando ulteriormente il proprio status (nel 2011-12 il suo PIL è cresciuto al doppio della media europea) - i tempestosi anni di crisi che altrove hanno invece scosso o addirittura sconvolto il panorama politico ed economico. I cittadini tedeschi, consapevoli del processo in corso e in maggioranza soddisfatti di quanto avviene, si apprestano a conferire un terzo mandato governativo alla Cancelliera che guida il paese dal 2005, Angela Merkel.
Nonostante ciò, la Germania declina in politica estera la sua posizione di vantaggio in maniera molto diseguale. Dal punto di vista delle relazioni diplomatiche e militari, Berlino preferisce infatti un atteggiamento cauto e riservato. Se durante le tensioni del dopoguerra – da Suez in poi – sembrava naturale che una Germania sconfitta e divisa, pur economicamente già importante, restasse nella condizione di "nano politico", appare invece meno spiegabile la reticenza al coinvolgimento nelle crisi attuali.
L'impegno nelle missioni internazionali è riassumibile in un contingente inviato in Afghanistan (circa 4000 soldati) e in un altro in Kosovo (meno di mille in un'area di tradizionale interesse per la geopolitica tedesca). Dibattito interno limitato e partecipazione simbolica per quanto riguarda altri teatri – Libano, Libia, Mali – che vedono coinvolti paesi come Francia, Regno Unito e Italia. Anche nel caso siriano la Germania si è mantenuta rigorosamente non interventista: una volta caduto il fronte "belligerante" di Londra e Parigi per il voto contrario espresso dal parlamento inglese, la diplomazia tedesca non ha voluto scoprirsi preferendo lasciare François Hollande in posizione di isolamento.
È alle relazioni economiche internazionali che viene dedicato il massimo sforzo. A cominciare appunto dallo scenario continentale: se la costruzione istituzionale di una "UE forte e solidale" non è andata oltre le parole della Cancelleria, preoccupata di non solleticare l'euroscetticismo locale, la Germania ha raggiunto invece tutti i suoi obiettivi economici. Primo: l'euro – moneta ideale per garantire alti livelli di esportazioni al proprio fortissimo settore industriale – e la BCE continuano ad essere strutturati secondo il suo volere. Secondo: la disciplina di bilancio, cardine della visione economica tedesca, è stata rapidamente "costituzionalizzata" quasi ovunque nell'UE.
A livello mondiale, Berlino ha resistito a tutte pressioni – da Washington e da Pechino – contro le politiche di austerità applicate in Europa (ma non in patria), accusate di contribuire al blocco della ripresa mondiale. Parallelamente, è riuscita ad espandere ulteriormente il suo export: la Germania è il primo partner commerciale della quasi totalità dei membri dell'UE ed è uno dei pochissimi paesi del mondo ad aver invertito lo squilibrio delle partite correnti con la Cina.
Questa visione mercantilista, che riduce la Germania a poco più di una grande Svizzera – secondo la definizione di Ulrike Guérot – difficilmente cambierà con il più che probabile terzo mandato di Angela Merkel. Nessuno, nè il Regno Unito tagliato fuori dalle decisioni che riguardano l'eurozona, nè la Francia colpita da crisi sociali e di bilancio, nè i debolissimi paesi mediterranei, nè quelli dell'Est ormai economicamente colonizzati, sarà in grado di di-sputarle la supremazia continentale.
In realtà, i motivi per preoccuparsi non mancherebbero: la Germania deve affrontare un importante problema di leadership a livello continentale: i governi europei, tranne un ridotto nucleo di vicini, non vedono di buon'occhio il predominio di Berlino. Accettano le sue decisioni perchè deboli, non perchè sicuri di ricavarne dei benefici. Lo stesso vale per la maggiorparte delle opinioni pubbliche, convinte che la Germania sfrutti il suo vantaggio per ragioni imperialistiche, o al massimo che pensi solo al proprio interesse particolare.
Se non riuscirà a modificare questo dato, la Germania rischia il distacco dei partner dell'UE - già lacerati da crisi, populismo e nazionalismo di ritorno – e una rottura dell'Unione, più che negativa per i propri interessi. Dopo il 1945, gli Stati Uniti seppero concedere ai paesi europei la possibilità di ricostruire le proprie economie e rafforzarle attraverso un'unione commerciale: un vantaggio immediato per tutti. Subirono poi la concorrenza delle merci della rinata Europa, ma ottennero in cambio una fedeltà e una stabilità politica che durano tuttora sotto l'egemonia americana.
Molti dei paesi europei non sentono oggi alcun beneficio dall'appartenenza a un'Unione di matrice tedesca. Quando la Germania, con un esercizio migliore e più corente di relazioni internazionali, riuscirà a sacrificare qualcosa del modello che oggi impone senza compromessi sul continente, concedendo ai suoi partner dei vantaggi e ottenendone in cambio un vero consenso alla sua leadership, non solo la sua stessa supremazia sarà più garantita, ma il futuro dell'intera Europa sarà più stabile.
Riccardo Pennisi, analista di politica europea collabora con Limes e Aspenia.