L’intervento militare in Mali, cominciato l’11 gennaio 2013, è senza dubbio una delle decisioni più ambivalenti che abbia preso un presidente francese da molto tempo. Da un lato, si presentava come la manifestazione della preoccupazione legittima di vedere l’offensiva dei movimenti che si richiamano all’islam radicale nel nord del Mali, armati da Aqmi(1), prendere il controllo della principale base militare maliana a Sévaré e forse arrivare alla capitale Bamako, con il rischio di un collasso di quello che restava dello stato maliano. Dall’altro, ripeteva errori identici a quelli commessi al momento degli interventi delle potenze occidentali in Iraq, Afghanistan e Somalia. Gli scopi della guerra erano fluttuanti, mentre le dichiarazioni di vittoria erano rimesse continuamente in causa: la guerra, dicevano gli ufficiali francesi, era finita, mentre tutti sapevano che era a mala pena cominciata e che era proprio la preoccupazione di una lunga guerra che spingeva molti stati vicini al Mali a procrastinare un loro intervento.
L’assenza di una strategia politica chiara da parte di Parigi si esplicitava anzitutto nella cacofonia delle dichiarazioni ufficiali e si esprimeva, soprattutto e costantemente, nella difficoltà di articolare una campagna militare riuscita nei primi mesi con una riforma dello stato maliano che una gran parte della popolazione continua a stimare necessaria all’indomani della crisi.
Per Parigi, infatti, restava irrisolta una questione duplice: fino a che punto l’indebolimento (o lo sradicamento, éradication, come diceva il presidente francese) dei gruppi terroristici costituisce la componente maggiore di una riforma virtuosa dello stato maliano e in che modo una trasformazione sistemica della politica maliana può permettere di presidiare il Nord del paese e privare di spazi politici i gruppi che premono per un islam radicale?
Le risposte a queste domande sono essenziali, ma al momento, ovviamente, mancano. Non sono risposte semplici per molte e importanti ragioni. Nessuno oggi dubita che questa crisi sia quanto meno regionale e che ciascuno degli stati della regione dovrà confrontarsi con dinamiche che non sono radicate negli spazi nazionali, ma che, spesso, dipendono a loro volta da dinamiche nazionali e transnazionali. Il ruolo dell’islam nella vita pubblica, la repressione dei movimenti religiosi, che non sono tutti violenti all’origine, il vigore del salafismo e il romanticismo della rivolta violenta sono schemi che possono fare sistema in queste società. Il caso di Boko Haram in Nigeria è la dimostrazione di una radicalizzazione prodotta più dal concatenarsi di diversi avvenimenti che da un progetto politico iscritto in partenza nella violenza. È stato spesso affermato che le maggiori cause di reclutamento di Boko Haram nel 2010 sono state le violenze mai condannate degli apparati di stato e la deliquescenza economica provocata da decenni di politiche liberali.
La crisi del Mali mostra un’altra difficoltà ancora più seria e fondamentale: la profonda diversità di gruppi che si rifanno a una stessa ideologia semplificatrice all’estremo e violenta. Uno degli strateghi della politica americana di contro-insurrezione in Iraq e Afghanistan, David Kilcullen, parlava di “guerriglia accidentale”, nel senso che l’esistenza dei movimenti come al-Qaida permetterebbe la militarizzazione delle rivendicazioni locali e la sopravvivenza di organizzazioni armate, favorite da un appoggio esterno in termini di finanziamento ed expertise militare. Quest’affermazione comporta senza dubbio dimenticare completamente le storie locali e attribuire ad al-Qaida un ruolo smisurato, come testimonia l’esempio del Mali. Resta questa strana associazione, di cui le conseguenze più profonde restano a oggi sconosciute.
In effetti, se, in Mali, i movimenti che si definiscono come jihadisti sono emersi in modo molto rapido, bisogna tuttavia fare attenzione a non considerarli semplicemente come l’espressione di una sola matrice, per forza ideologica. In effetti, quello che colpisce nella moltitudine di scritti su questi gruppi, è una focalizzazione sulla dimensione ideologica e retorica, penalizzando le analisi propriamente sociologiche e storiche. Quando l’economia viene menzionata, si fa riferimento al solo aspetto di finanziamento di questi gruppi: leggendo i numerosi articoli sul Mali, si finisce per credere che gli islamisti radicali siano tutti trafficanti di droga, omettendo così il ruolo degli stati, la natura spesso continentale o transcontinentale di questi traffici e l’esistenza di altri attori oggi ancora troppo trascurati.
Aqmi ha una presenza relativamente antica nella regione, ma non ha sempre collezionato solo successi. Il reclutamento è restato per molto tempo essenzialmente limitato all’Algeria e alla Mauritania. È proprio grazie alla crisi nel Nord del Mali che si è allargato fino ad integrare altri paesi del Maghreb, in particolare la Tunisia. Il ruolo della Libia dal 2011 non può essere sottovalutato, prima di tutto perché questo paese ha costituito, volente o nolente, un santuario e una base d’approvvigionamento importanti. Quest’osservazione chiama in causa la cecità o l’irresponsabilità dei decisori occidentali, fra i primi Nicolas Sarkozy e David Cameron, nella gestione della crisi libica e delle sue conseguenze, seppure prevedibili quanto a radicalizzazione politica interna e sconfinamento nella regione.
I due gruppi a pretesa jihadista, Ansar al-Din e Mujao, s’iscrivono egualmente in contesti sociali differenti. Il primo è, a una prima approssimazione, un gruppo la cui identità tuareg è rimasta dominante fino a oggi. Nasce fondamentalmente dalla rivalità del suo capo, Iyad ag Ghali, con il Mnla originale(2), e la sua costituzione è stata resa possibile grazie ai legami stretti con Aqmi durante gli anni recenti, ma anche e soprattutto grazie al capitale sociale del suo massimo dirigente. L’esistenza di Ansar ed-Din è anche l’espressione delle rivalità in seno ai lignaggi nobili tuareg della regione di Kidal e, a questo titolo, evidenzia ugualmente una lotta per assumere il potere tradizionale tuareg in questa regione. Ansar al-Din intende marginalizzare quelli che, promuovendo il Mnla, avevano una concezione più repubblicana della società tuareg. Senza minimizzare il riferimento ideologico, è facile notare come l’emergere di Ansar al-din aveva più a vedere con delle contraddizioni precise delle élites tuareg che con una radicalizzazione salafita. Questo ci aiuta a comprendere meglio la quasi dissoluzione di questo movimento al momento dell’intervento francese. In particolare, esclusa la relazione quasi incestuosa intrattenuta con Aqmi, il rischio che rappresentava Ansar ed-Din al di là del Mali resta da valutare.
Il Mujao rappresenta tutt’altra dinamica. Il gruppo fondatore è legato a una katiba dissidente di Aqmi composta essenzialmente di arabi di Tilemsi (in prossimità di Gao). Inizialmente descritta come il prototipo dell’anarco-guerrilla, quest’organizzazione si è rivelata un operatore politico astuto. Da una parte ha lasciato in un primo tempo che il Mnla giocasse un ruolo da protagonista a Gao, e ha in seguito guadagnato il sostegno della popolazione difendendola davanti agli atti di banditismo del Mnla. Ben lungi dall’avere una strategia di reclutamento elitista tra i soli arabi, l’organizzazione ha reclutato anche da altri gruppi etnici “neri” (Songhay e Peul) e non bianchi (come gli arabi e i tuareg). Ha contrastato la superiorità di certi gruppi nobili proponendo un modello di potere più popolare. Certo, si è fatto ampio ricorso alla coercizione della popolazione e all’uso del terrore: questo gruppo non ha visibilmente seguito il consiglio dell’emiro di Aqmi, Abdelmalek Droukdel, per il quale il sostegno della popolazione era più importante dell’imposizione rigorosa della legge religiosa (nell’accezione di questi gruppi). L’intervento francese ha profondamente disorganizzato questi gruppi, eppure le organizzazioni citate si erano già preparate a un intervento internazionale e quindi bisogna essere prudenti sulla natura tattica e strategica della vittoria militare francese. Per il momento è difficile prevedere quello che succederà. Si va verso una regionalizzazione di questi gruppi con atti terroristici commessi in tutti gli stati della regione, nello stile degli Shabaab somali? Si va al contrario verso una riorganizzazione clandestina di questi gruppi sul territorio maliano e l’incremento in potenza di una guerra asimmetrica, come temono le Nazioni Unite? In nessuno scenario la guerra è vinta una volta per tutte, se non altro perché bisogna mettere in conto la crescita rapida di un banditismo di lungo percorso che in Africa centrale viene definito dei “coupeurs de route” (bande organizzate di ex ribelli che compiono agguati e rapine, spesso ai danni di autisti e trasportatori).
È fondamentale in ogni caso misurare quanto la popolarità di cui questi gruppi beneficiavano (forse a oggi in maniera più limitata) fosse una reazione contro l’impunità di cui beneficiavano i rappresentanti militari e civili dello stato in questa parte del Mali. Il sostegno accordato a questi gruppi armati radicali non si giustifica soltanto con i salari pagati alle nuove reclute, con i servizi sociali che per qualche mese hanno funzionato meglio di prima, ma anche con la fine di un certo tipo di arbitrio. La coercizione e l’estremisimo dei membri del Mujao hanno giocato un ruolo essenziale nella condanna popolare del suo programma politico, ma sbaglieremmo nel concludere che il ritorno dello stato sia in sé sufficiente a conservare la legittimità e l’appoggio delle popolazioni.
1. Al-Qaeda nel Maghreb Islamico. Per una presentazione dettagliata di tutti i gruppi si veda: R. MARCHAL, Is a military intervention in Mali unavoidable?, Noref, October 2012, accessibile al link: http://www.peacebuilding.no/Regions/Africa/Mali/Publications/Is-a-milita....
2. R. MARCHAL, Visions of war, «Stability Journal», June 2013, accessibile al link: http://www.stabilityjournal.org/article/view/sta.bc.