Dall'inizio dell'intervento americano in Afghanistan nel 2001 le relazioni fra Washington e Kabul sono andate progressivamente peggiorando. Le scelte del presidente statunitense Donald Trump dell'ultimo anno confermano una distanza dal governo guidato dal presidente Ashraf Ghani, una distanza che nelle ultime settimane ha finito per approfondirsi ulteriormente. La malcelata intenzione di Trump di ritirarsi il prima possibile dall'Afghanistan, espressa apertamente o fatta trapelare già dai tempi della sua campagna elettorale del 2016, è stata una costante della politica afghana dell'amministrazione americana. Solo l'intervento di H.R. McMaster (consigliere alla sicurezza) e James Mattis (Segretario alla Difesa), nel 2017, riuscirono a convincere temporaneamente il presidente non solo a rinunciare all'idea di un disimpegno militare troppo repentino ma addirittura a rilanciare un parziale re-engagement con la strategia per l'Afghanistan annunciata ad agosto 2017. Dimissionari o licenziati, entrambi non fanno più parte dell'amministrazione Trump da un pezzo e con loro la gran parte dei vertici che riteneva irrinunciabile non abbandonare l'Afghanistan in tempi brevi.
Nel 2018 i risultati di quel parziale rilancio della missione (con l'invio di 3.000 truppe aggiuntive e con regole di ingaggio più aggressive) sono stati limitati. Nelle percezioni del presidente americano, l'assenza di progressi evidenti ha confermato che l'Afghanistan era una causa persa. Alla fine dell'anno, infatti, l'amministrazione ha investito sul negoziato con i Talebani, nominando una figura di alto profilo come Zalmay Khalilzad a capo della delegazione americana e avviando una serie di round negoziali a Doha con i rappresentanti dei Talebani, che in un modo o nell'altro è dai tempi del Mullah Omar che hanno mostrato interesse a una trattativa.
Il profondo disinteresse per l'Afghanistan manifestato da Trump a più riprese, unito all'accelerazione sul negoziato con i Talebani tenendo fuori il governo di Kabul, hanno scavato un fossato fra Washington e Ashraf Ghani, il quale si sente alla vigilia delle elezioni isolato più che mai. Rimesse in prospettiva, in realtà, le relazioni fra Washington e Kabul non hanno fatto altro che peggiorare dai tempi della prima amministrazione Obama. Fra tutti i limiti ed errori commessi dall'amministrazione Bush in Afghanistan va fatta eccezione per i buoni rapporti personali e politici che il presidente americano cercò di coltivare, con successo, con il presidente Hamid Karzai. La luna di miele terminò con l'amministrazione Obama, la quale finì per alimentare una ossessiva sindrome dell'abbandono in Karzai e una diffidenza diffusa negli apparati di governo a Kabul. L’ex inquilino alla Casa Bianca Barack Obama, pur nella sua meticolosa revisione della strategia americana per l'Afghanistan, trascurò del tutto l'idea di coltivare buone relazioni con il governo di Kabul. Nel 2010 durante la visita alle truppe americane nella base di Bagram, non perse occasione di non incontrare il presidente Karzai accampando scuse risibili (il maltempo che avrebbe impedito il breve viaggio in elicottero e l'indisponibilità ad aspettare qualche ora perché potesse migliorare). Non solo, nessuna delle figure di vertice dell'amministrazione Obama aveva contatti stretti con il governo di Kabul, a parte Richard Holbrooke, il quale tuttavia rimase profondamente isolato sia nella cerchia politica dell'amministrazione sia fra i vertici del Pentagono. Obama ha finito per inaugurare un rapporto fra Washington e Kabul svuotato della sua dimensione politico-diplomatica, in particolare quella sostenuta da una rete di contatti personali ad alto livello, per affidarsi quasi esclusivamente ai militari.
Trump ha ereditato dunque una situazione in cui il rapporto politico con Kabul andava tutto ricostruito. Tuttavia, negli ultimi due anni le distanze fra Washington e Kabul non hanno fatto altro che crescere. In parte per volontà politica: come si è detto, Trump ha sempre manifestato un marcato disinteresse per l'Afghanistan. In parte per le circostanze: Trump si muove in un contesto di generale disimpegno, in cui cala la presenza militare, cala il supporto finanziario a Kabul da parte dei donors internazionali e calano l'attenzione e l'interesse strategico per l'Afghanistan. Infine, la decisione di avviare un rapporto negoziale bilaterale con i Talebani, escludendo il governo di Kabul, ha ulteriormente isolato il governo afghano e alimentato le diffidenze di Ghani.
In questo contesto, la scelta improvvisa di Trump di sospendere i negoziati con i Talebani ha complicato ulteriormente i giochi. Se si tratta di una mossa tattica per fare pressione ulteriore sui Talebani, oppure di improvvisazione estemporanea (inclinazione connaturata allo stile di Trump) è difficile da stabilire. Quel che è certo è che benché il presidente Ghani, come sostengono alcuni, possa salutare con favore il fallimento dei negoziati perché rompe il suo isolamento e potenzialmente riapre la partita per il governo di Kabul in un negoziato trilaterale, si trova alla vigilia delle elezioni indebolito più che mai. Il governo di Kabul ha necessità che le elezioni presidenziali si svolgano con successo, almeno parziale, e non vengano del tutto compromesse dai problemi di sicurezza. Per questa prova istituzionale e di legittimità avrebbe bisogno di un presidio delle forze di sicurezza nazionali che non è garantito e che è ancora troppo dipendente da una sempre più esigua presenza internazionale. Avrebbe avuto bisogno di un minimo accordo su un cessate il fuoco nei negoziati che riguardasse lo svolgimento della consultazione elettorale, un punto su cui gli Usa e i Talebani non hanno tuttavia raggiunto alcuna intesa. Al contrario, visto lo stallo del negoziato – voluta dalla decisione di Trump –, i Talebani hanno ora tutta l'urgenza di rispondere alla sfida di Trump dando prova della loro capacità offensiva e del loro controllo sul territorio. Le elezioni presidenziali sono purtroppo uno dei migliori teatri immaginabili.