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Commentary

Washington tra Ryadh e Teheran

10 luglio 2014

«È cosa risaputa che nel momento in cui scoppia una crisi in qualsiasi parte del mondo, l'interrogativo per alcuni è sempre “Cosa significa questo per Israele?”» faceva notare nei giorni scorsi Ronald Tiersky, docente di scienza politica, sulle colonne dell'Huffington Post(1). In effetti, per quanto in questi giorni Israele sia più occupato sul fronte interno, esistono dei potenziali effetti negativi dell'avanzata dello Stato Islamico (IS). 

In primo luogo, il possibile spillover della crisi in Giordania potrebbe significare l'infiltrazione di gruppi terroristi lungo il confine con Israele. Ipotesi remota per il momento, ma da non sottovalutare. In secondo luogo, Israele potrebbe temere l'influenza dello Stato Islamico nei campi profughi palestinesi. Secondo alcuni commentatori, il movimento islamista avrebbe creato una brigata specializzata (Daash Al-Quds Unit) che sarebbe già all'opera nei territori palestinesi per incitare alla ribellione contro Israele. Non che vi sia bisogno dell'intervento di IS per fomentare la ribellione, ma, anche in questo caso, si tratta di un elemento da tenere in considerazione. Infine, conseguenza indiretta, ma non per questo meno dolorosa, l'avanzata dello Stato Islamico ha preparato il terreno a una riabilitazione dell'Iran, che dopo aver giocato la carta settaria per anni puntando sul cavallo vincente al-Maliki in Iraq, interviene oggi con i richiami all'unità del mondo islamico, facendosi paladino della lotta all'estremismo. Una riabilitazione che Israele non vede di buon occhio, per quanto possa essere parzialmente soddisfatto del fatto che Stato Islamico da una parte e Iran e Siria dall'altra si combattano e si indeboliscano a vicenda.  

In questo quadro, vi è chi scorge la possibilità di un riallineamento tattico delle fluide alleanze mediorientali, che giocoforza chiama in causa i due attori principali della regione: Arabia Saudita e Iran. All'interno dell'opacissimo governo saudita sembra sia in atto un rimescolamento di carte, probabile preludio alle lotte per la successione che si scateneranno alla dipartita di re Abdullah. L'esautorazione, lo scorso aprile, del principe Bandar bin Sultan da capo dei servizi segreti è stata letta come una volontà di rivedere la posizione saudita nei confronti della guerra in Siria. Bandar bin Sultan è stato infatti fino a pochi mesi fa lo stratega dietro la movimentazione dei gruppi islamisti in funzione anti-Assad. Troppa movimentazione, sembrano aver pensato a Ryadh, memori del pericolo rappresentato dieci anni fa dai jihadisti sauditi di ritorno dall'Iraq, dopo l'invasione Usa. 

Secondo il Guardian, che si basa su fonti interne a Ryadh, l'allontanamento di Bandar bin Sultan sarebbe imputabile a una divergenza di vedute con il principe Mohammed bin Nayef, tra i papabili successori dell'anziano re Abdullah, il quale, avendo guidato la repressione contro al-Qaida nel periodo 2003-2006, sarebbe ben cosciente del pericolo rappresentato dal ritorno in patria di jihadisti sauditi radicalizzati. 

Secondo la tv di stato iraniana, Press Tv, dietro alla rimozione del falco Bandar vi sarebbe stata una precisa richiesta da parte dell'amministrazione Obama, che sarebbe impegnata nel rovesciamento delle politiche e delle alleanze volute dal suo predecessore Bush. Gli Usa, insomma, starebbero cercando di fare da mediatore tra Arabia Saudita e Iran per favorire il riavvicinamento. Se così fosse, sarebbe quasi un ritorno ai gloriosi anni pre-1979, quando Arabia Saudita e Iran, non ancora repubblica islamica, rappresentavano i due guardiani Usa nel Golfo in funzione anti-sovietica. Venuto meno il pericolo sovietico, oggi Ryadh e Tehran rappresenterebbero due validi bastioni di contenimento della minaccia islamista. Poco importa se si tratta di una minaccia che Ryadh ha contribuito a fomentare fino al giorno prima.  

Rafsanjani, in un comunicato pubblicato sul suo sito in seguito a un incontro bilaterale con l'ambasciatore iraniano a Ryadh, ha invocato la cooperazione tra le due sponde del Golfo, allo scopo di combattere il nemico comune, quell'Islam radicale che sta offuscando la vera essenza dell'Islam e indebolendo il mondo islamico. Ovviamente quella di Rafsanjani è solo una voce, per quanto potente, nel complesso panorama iraniano. Il Teheran Times il 6 luglio riportava che il vice ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian ha affermato che non è stato avviato alcun dialogo con l'Arabia Saudita a proposito della crisi in Iraq, affermando però al contempo che un ipotetico dialogo sulla questione sarebbe il benvenuto(2). 

Ammesso e non concesso che un riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita sia effettivamente in atto, come si colloca Israele? 

Barack Obama, in un articolo scritto per Haaretz in occasione della Conferenza sulla pace organizzata dal giornale, ha ribadito il serio impegno degli Usa a fianco del paese, citando cifre e sviluppi futuri della cooperazione di sicurezza tra i due. Nello stesso articolo, però, il presidente Usa ha messo ben in chiaro che lui e il segretario di stato John Kerry saranno disponibili e pronti a riprendere in mano la mediazione degli accordi di pace quando, da entrambe le parti, ci sarà la seria volontà politica di rimettersi al tavolo negoziale. Dal canto suo, Abbas, in un'intervista registrata e mandata in onda alla conferenza, ha affermato che il naufragio del processo di pace è da imputare al fatto che Obama e Kerry non hanno proposto alcun framework concreto, mentre Netanyahu continua a ribadire che non vede nessuno con cui negoziare e arrivare a un accordo. Insomma, è palese che finché continuerà il gioco delle tre scimmiette – non vedo, non sento, non parlo – misto a una certa tendenza a incolparsi a vicenda, non vi sarà nessuna speranza non solo di raggiungere un accordo di pace, ma nemmeno di rilanciare i negoziati. Particolarmente ironico e emblematico, tra l'altro, il fatto che la prima pagina di Haaretz si sia trovata a ospitare al contempo le riflessioni sui motivi dell'impossibilità della pace e la notizia del lancio dell'operazione Protective Edge su Gaza. 

Ma c'è un altro articolo pubblicato su Haaretz che reca la firma di un ospite illustre: quella di Turki al Faisal, principe saudita per lungo tempo a capo dei servizi segreti del regno (1977-2001), nonché ex ambasciatore nel Regno Unito (2002-2005) e negli Usa (2005-2006). Nell'articolo Turki al Faisal prova a rilanciare l'Arab Peace Initiative(3), lanciata nel 2002 proprio da re Abdullah e data per morta e risorta diverse volte. Secondo il principe saudita, il temporaneo arresto dell'impegno Usa nel processo di pace lascerebbe lo spazio per i paesi arabi per provare a risolvere la questione “tra di loro”. Tuttavia, per quanto possa aver fatto scalpore il fatto che per la prima volta un alto ufficiale di governo saudita abbia scritto su un giornale israeliano, il sospetto è che anche quella di Turki al Faisal rimanga vox clamantis in deserto. Israele non ha mai dato segno negli anni di voler anche solo prendere in considerazione l'Arab Peace Initiative(4). Non si intravvedono all'orizzonte segnali del fatto che potrebbe prenderla in considerazione adesso. 

Eppure, all'interno del panorama israeliano non mancano voci a favore, anche tra le “aquile”. Secondo Ephraim Sneh, ex generale delle forze di difesa israeliane, con un passato nel Partito laburista e fondatore nel 2008 del partito politico Yisrael Hazaka (Strong Israel), la minaccia rappresentata dall'avanzata dello Stato Islamico avrebbe suonato la campana della sveglia per Israele: sarebbe giunta l'ora, secondo Sneh, di costituire un'alleanza tra Israele e i paesi arabi che funga al contempo da scudo nei confronti dello Stato Islamico e dell'Iran(5). Sneh parla di un'ipotetica alleanza Israele-Arabia Saudita-Egitto, da estendersi a Emirati Arabi Uniti e Giordania. Il requisito di base per la costruzione di quest'alleanza è un accordo di pace tra Israele e Palestina, che passa inevitabilmente dall'accettazione dei principi dell'Arab Peace Initiative, della quale però nessuno sembra voler seriamente parlare. Un corto circuito, insomma, una strada senza uscita. 

Mentre l'avanzata di IS spinge i paesi della regione a cercare inedite alleanze per “passare la nottata”, Israele rimane a guardare, seduto sul suo muro di ferro(6). Della solitudine di Israele si è tanto parlato(7), ma ancora le parole più giuste sembrano essere quelle dell'Antico Testamento, citate spesso per descrivere Israele e il suo atteggiamento nei confronti della comunità internazionale, quello di un «popolo che dimorerà solo e non avrà parte fra le nazioni» (Numeri 23:9).

1. Ronald Tiersky, "ISIS: what does it mean for Israel?", Huffington Post, 13 giugno 2014, http://www.huffingtonpost.com/ronald-tiersky/isis-what-does-it-mean-fo_b_5489756.html
2. http://www.tehrantimes.com/politics/116822-iran-says-no-dialogue-with-saudi-arabia-on-iraq
3. L'Arab Peace Initiative (Api) si basa su due punti principali: la normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi arabi in cambio del ritiro di Israele entro i confini pre-1967 e la risoluzione della questione dei rifugiati secondo quanto stabilito dalla risoluzione 194 dell'Assemblea Generale dell'Onu (A/RES/194). La traduzione ufficiale in inglese del testo dell'Api, così come adottata dal summit della Lega Araba a Beirut il 28 marzo 2002, è disponibile al link http://reliefweb.int/report/israel/text-arab-peace-initiative-adopted-beirut-summit
4. Questa riflessione di Yossi Alpher, ex ufficiale del Mossad, anche se del settembre 2013, aiuta a fare il punto sui motivi del fallimento dell'Arab Peace Initiative: http://www.opendemocracy.net/opensecurity/yossi-alpher/return-of-arab-peace-initiative 
5. Ephraim Sneh, "ISIS should be catalyst for new Middle East alliance", in Al Monitor, Israel Pulse, 2 luglio 2014, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2014/07/isis-israel-new-reality-alliances-iraq-syria.html
6. Il termine deriva dall'omonimo pamphlet firmato nel 1923, quindi prima della nascita di Israele, da Zeev Jabotinsky, fondatore del movimento sionista riformista e padre nobile del Likud. Jabotinsky affermava che nel destino di Israele vi sarebbe sempre stata la guerra, data l'impossibilità del fatto che le popolazioni arabe si sarebbero rassegnate al compromesso. Di conseguenza, Israele avrebbe dovuto costruirsi da solo, rifugiandosi dietro un invalicabile “muro di ferro” rappresentato dalla forza militare. Solo in questo modo gli abitanti della Palestina avrebbero potuto convincersi dell'inevitabilità dell'esistenza di Israele e dell'ineluttabilità del loro destino, quello di accettarlo e scendere a compromessi. Da questo spirito, cioè dalla consapevolezza che Israele avrebbe potuto esistere solamente se avesse portato sempre una spada nella mano, come affermato da Moshe Dayan, Israele ha elaborato la propria dottrina militare di “deterrenza aggressiva”, rispondendo con grande potenza di fuoco ad attacchi anche di entità modesta. 
7. Due riflessioni in particolare risultano interessanti: "Gideon Levy, Israel does not want peace", in Haaretz, 4 luglio 2014, http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/israel-peace-conference/1.601112#.U7fXUqEqGNw.twitter e Yossi Sarid, "Peace in the Middle East is in our good time", in Haaretz, 8 luglio 2014, http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/israel-peace-conference/1.601990 
Annalisa Perteghella, PhD Candidate, Università Cattolica di Milano.
 
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