Joe Biden conduce la corsa alla nomination inseguito da Bernie Sanders. Decisivo il voto di martedì prossimo. Ma sulla campagna elettorale piomba l’emergenza coronavirus e all’improvviso la rielezione di Trump non è più così scontata.
What’s up?
I numeri non ci sono ancora, ma da un punto di vista politico emerge con quasi certezza che a novembre, lo sfidante democratico per la Casa Bianca sarà Joe Biden. La vittoria alle primarie di martedì 10 in Michigan, Mississippi, Missouri e Idaho e il testa a testa nello stato di Washington assicura infatti all’ex vicepresidente di Barack Obama un vantaggio che è difficile, se non impossibile, colmare per l’altro aspirante candidato: Bernie Sanders. Ma al di là della conta dei delegati (che Biden conduce attualmente per 881 a 725), quello che stupisce è la capacità di Biden di convincere gli elettori a recarsi ai seggi, riportando al partito democratico sostenitori che lo avevano abbandonato nel 2016. Con gli ultimi risultati, l’ex vicepresidente ha dimostrato che i successi del Super Tuesday dello scorso 3 marzo non erano frutto di una spinta momentanea – seguita allo slancio del voto in South Carolina e alla recente ondata di endorsement a suo favore – ma a una base che ha saputo consolidare. Se Joe Biden convince gli afroamericani, infatti, gli ultimi dati rivelano che va forte anche tra i colletti blu, i bianchi delle classi meno agiate, le donne, e le famiglie delle zone suburbane.
In appena due settimane di tornate elettorali, la corsa alla nomination ha letteralmente cambiato volto: siamo passati dall’anno con più aspiranti candidati a un testa a testa tra due; dalla competizione con più candidate a una in cui la loro presenza - nonostante Tulsi Gabbard sia formalmente ancora in gara - è quasi marginale e anche se ancora mancano sette mesi alle elezioni, possiamo affermare senza timore di smentita che bisognerà aspettare almeno altri quattro anni per vedere la prima donna sedere nello studio ovale. Ma a prescindere da tutto ciò, quello che renderà il 2020 un anno elettorale senza precedenti è l’emergenza Coronavirus, da poche ore dichiarata da Trump un'emergenza nazionale. Dopo il primo caso di contagio da Covid-19 su suolo americano riscontrato il 26 febbraio scorso in California, gli Stati Uniti contano oggi 48 decessi e oltre 2100 positivi.
L’effetto sulla corsa dem si è cominciato a vedere martedì, quando sia Biden che Sanders hanno cancellato i loro comizi a Cleveland. Il virus però non si ripercuoterà sulle candidature allo stesso modo: in questo momento di incertezza, è probabile che l’immagine di una leadership solida e rassicurante proposta da Biden convinca di più gli elettori rispetto alle promesse di profonda trasformazione sociale e sanitaria che sono il cavallo di battaglia del senatore del Vermont.
Last but not least: il vantaggio di Biden è aumentato dal fatto che la risposta del suo principale avversario politico, Donald Trump, all’emergenza coronavirus è stata finora lacunosa e insufficiente. Il presidente ha contribuito a diffondere informazioni non comprovate sul virus e sulle misure di prevenzione alimentando psicosi e incertezza. Fino a ieri quando, dopo aver annunciato lo stop ai voli in arrivo dall’Ue, anche i mercati – che da sempre lo sostengono - gli si sono rivoltati contro e in modo autonomo gli stati americani hanno cominciato uno dopo l’altro un lockdown senza precedenti.
In our view
Il commento di Fabrizio Goria, La Stampa
La pandemia di virus Sars-Cov-2 è arrivata negli Stati Uniti. E, sebbene in leggero ritardo, l’esperienza italiana sta iniziando a dare i suoi frutti. Vale a dire, gli Usa stanno prendendo precauzioni severe e drastiche, come il blocco dei voli da e per l’Europa e la chiusura delle manifestazioni sportive, come nel caso dell’Nba. Allo stesso modo, però, la risposta del presidente Donald Trump rischia di essere troppo poco a fronte di un problema ben più grosso. Un esempio? I soli 46,500 posti di terapia intensiva presenti sul territorio nazionale, a fronte di oltre 320 milioni di abitanti. Un eventuale collasso del sistema sanitario nazionale potrebbe avere ricadute disastrose, ben maggiori di quelle osservate con il fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008. Continua a leggere
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La paura e la psicosi dunque investono anche gli Stati Uniti e le critiche a Trump non mancano. In questo momento di incertezza, ‘l’usato sicuro’ proposto da Biden convince e rassicura: che qualcosa stia cominciando a scricchiolare nell’attuale amministrazione? Secondo l’ultimo sondaggio di YouGov/The Economist condotto tra l’8 e il 10 marzo, il 43% di chi ha risposto non approva la risposta di Trump al coronavirus, contro il 41% che invece approva. Le percentuali variano molto a secondo del partito al quale uno è iscritto: l’82% dei repubblicani approva, il 78% dei democratici no.
Un dato da non sottovalutare considerato che dal suo ingresso alla Casa Bianca, nonostante la sua imprevedibilità e divisività, il presidente ha sempre ottenuto un indice di gradimento abbastanza costante, che, secondo la media di FiveThirtyEight, si assesta attorno al 40%-45%. Barack Obama, per esempio, aveva iniziato con un indice di gradimento ben più alto, superiore al 60%, che è però andato a scemare sotto il 50%, per poi risollevarsi di quasi quattro punti percentuali durante la sua campagna per la rielezione.
Nonostante Trump abbia raggiunto il picco dei consensi (44,6%, non contando i primi giorni dall’insediamento) proprio negli ultimi mesi, per il presidente non è evidentemente ancora tempo per rilassarsi. La media del suo indice di gradimento è più bassa di quella di tutti gli altri ex presidenti in carica da almeno il 1945.
I temi caldi
Esattamente una settimana fa, il presidente Donald Trump firmava un pacchetto da 8,3 miliardi di dollari, concordato da democratici e repubblicani, per affrontare l’emergenza sanitaria. Adesso, mentre anche negli Stati Uniti si chiudono scuole, si annullano assembramenti pubblici e si consiglia di lavorare da casa, quel provvedimento appare per quello che è: insufficiente e i politici si trovano a dover fornire una risposta al paese che però risulta difficile da concordare.
Dal fronte repubblicano, Trump ha annunciato un possibile taglio dell’imposta sui salari per alleviare i cittadini. L’amministrazione sta inoltre considerando di posticipare la scadenza del deposito fiscale del 15 aprile, per aggiungere “200 miliardi di dollari di liquidità all’economia”, e di stabilire qualche sostegno per le piccole e medie imprese e per le industrie più colpite. Ma le proposte di Trump sono state criticate per non essere in linea con il momento che stanno attraversando gli Stati Uniti. Secondo i democratici, e anche qualche repubblicano, il governo dovrebbe prima concentrarsi sul limitare il diffondersi del virus, anche frenando l’attività economica, e poi stimolare l’economia con un’efficace politica fiscale.
Mercoledì sera è arrivata la risposta dem: la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato un sostanzioso pacchetto economico dal valore non ancora precisato ma comunque di decine di miliardi di dollari, che include congedi di malattia, testing gratuito di coronavirus, aiuti alimentari e sussidi di disoccupazione. Ma, a differenza del pacchetto sanitario di settimana scorsa che era una proposta bipartisan, la proposta dem ha riscontrato qualche attrito, e proprio per questo, poco prima dell’annuncio di mercoledì, Pelosi ha incontrato il Segretario al tesoro Steven Mnuchin. Venerdì, la Casa Bianca e i democratici hanno finalmente raggiunto un accordo a riguardo, consapevoli che il tempo stringe e la necessità di trovare un equilibrio si fa sempre più impellente. Poco dopo che Trump ha annunciato dichiarato un’emergenza nazionale e lo sblocco di 50 miliardi di fondi federali per fronteggiare il coronavirus, la proposta è stata votata alla Camera e attende ora il voto del Senato.
Il candidato
È stata una notte difficile quella di martedì 10 per il candidato Bernie Sanders. Il senatore del Vermont non è riuscito a ripetere la magia del 2016 in Michigan, dove vinse a sorpresa, anche se di poco, contro Hillary Clinton, e quest’anno ha invece ottenuto solo il 36% delle preferenze contro uno schiacciante 53% di Biden.
Nei suoi 50 anni di carriera politica, sicuramente non è la prima difficoltà che Sanders deve affrontare. Sindaco di Burlington negli anni 80, poi rappresentante della Camera per quasi 20 anni, infine eletto senatore del Vermont nel 2007, è nel 2015, a 73 anni, che lancia la sua sfida più ambiziosa candidandosi alle primarie del partito democratico, al quale non è tuttora iscritto. Non ottiene la nomina ma, anche se sconfitto, riesce a raggiungere un risultato impensabile fino a pochi mesi prima, raccogliendo quasi il 40% delle preferenze.
In questi anni il suo messaggio è rimasto coerente: bisogna proteggere la gente comune, i lavoratori e le classi svantaggiate. Con le sue parole d’ordine salario minimo, “Medicare per tutti” e istruzione universitaria gratuita, Sanders ha delineato la sfida elettorale dem 2020, trasformandola in un “uno contro tutti”, progressisti (lui e Warren che però è stata scavalcata dall’ondata del “socialdemocratico”) contro moderati, e spingendo il dibattito verso sinistra.
Dal primo caucus in Iowa, quest’anno, Sanders è stato il candidato contro il quale tutti gli altri si sono dovuti misurare. Ora la situazione è cambiata e – anche se grazie alla sua capacità di ottenere contributi individuali, potrebbe resistere ancora a lungo – l’ex senatore del Vermont sa che il voto di martedì prossimo sarà inevitabilmente decisivo.
Dove si vota?
Anche martedì prossimo, 17 marzo, sarà una giornata elettorale da tenere d’occhio: i cittadini di Arizona, Florida, Illinois e Ohio eleggeranno ben 577 delegati, la terza tranche più consistente dopo quella del Super Tuesday e di martedì 28 aprile. Trofeo della tornata è la Florida, che assegna 219 delegati, e deciderà il destino della candidatura di Bernie Sanders.
Al momento, i sondaggi non promettono bene per il senatore del Vermont che nell’ultimo poll di questa settimana si trova in svantaggio di ben 36 punti percentuali. Un dejà-vu per lui che, proprio in Florida nelle primarie del 2016, fu surclassato da Hillary Clinton di oltre 30 punti. Quel che è strano, è che Tío Bernie sembrerebbe essere in svantaggio non solo tra gli afroamericani, elettorato legato a Biden, ma anche tra gli ispanici, che lo hanno invece aiutato a vincere in Nevada e California. A differenza della California però, dove la maggior parte degli ispanici è di origine messicana, in Florida la maggioranza ha invece origini cubane, con molti venezuelani, argentini, colombiani e nicaraguensi. Questo aspetto gioca a sfavore di Sanders, più volte criticato per i suoi commenti positivi rispetto ad alcuni regimi socialisti del Sudamerica, per esempio il suo sostegno ai Sandinisti in Nicaragua. Idee ripetute anche in un’intervista di domenica 23 febbraio, al programma 60 Minutes di CBS News dove ha premiato il programma di alfabetizzazione introdotto in Cuba negli anni ‘60, dicendo che “il regime di Fidel Castro ha fatto anche cose buone”. Un’affermazione che in Europa non sposterebbe di un decimale i voti percentuali, ma che a questo punto della corsa, Bernie Sanders potrebbe pagare a caro prezzo. Come ha notato il democratico afroamericano Andrew Gillum, “ascoltare i commenti di Sanders su Cuba, per gli ispanici, è stato come per molti di noi sentire Trump poche ore dopo gli scontri di Charlottesville, quando ha affermato che c'erano persone buone da entrambe le parti”.
Politics on the rocks
L’arrivo del coronavirus sul suolo americano potrebbe cambiare la campagna delle primarie dem e poi le elezioni presidenziali di novembre come mai accaduto prima d’ora. I prossimi stati chiamati al voto stanno prendendo precauzioni e spostando i seggi lontano dalle aree ad alta densità abitativa, mentre in tutte le stazioni di voto sono stati predisposti lavabi e misure stringenti da osservare. Sono le primarie ai tempi della pandemia, e alcuni stati hanno già predisposto la possibilità di esprimere il proprio voto via e-mail.
Ma i pericoli della campagna elettorale non sono solo una questione di voti. “La democrazia americana si costruisce una stretta di mano alla volta, insieme a selfie, baci di bambini e abbracci fotogenici” osserva Laurie Garrett su Foreign Policy, secondo cui “l'ex vicepresidente democratico Joseph Biden e il senatore Bernie Sanders sono agitatori e abbracciatori inveterati, ed entrano in contatto con più elettori in un'ora di quanto la maggior parte delle persone potrebbe fare in un mese”. Per questo le mani di un candidato alla nomination possono diventare un super vettore di contagio del virus.
In quello che a molti appare come un rompicapo (motivare gli elettori portandoli alle urne ma tenendoli al sicuro) l’unico che sembra avere le idee chiare è ancora una volta Joe Biden che in queste ore ha diffuso il suo piano contro il Covid-19. E i risultati si vedono: negli ultimi due giorni l’ex numero due di Obama ha incassato endorsement di peso: Cory Brooker, senatore del New Jersey, e gli ex aspiranti dem Kamala Harris e Andrew Yang si sono pronunciati in suo favore, alimentando il Joe-mentum.
A Washington tutti i campanelli d’allarme si sono messi a suonare. I repubblicani filo-Trump hanno attaccato il candidato dem definendolo “sciacallo” ma le disposizioni di fermare i voli dall’Europa, per inutili che siano, sono un brusco cambio di rotta e servono a dare l’idea di stare facendo qualcosa per gestire il problema. Non è più tempo di far finta di niente. Gli strateghi della Casa Bianca lo sanno: d’ora in avanti la rielezione del presidente dipenderà dalla risposta all’emergenza che sta per manifestarsi.
Per saperne di più
Why Coronavirus May Be the Biggest Threat Yet to Donald Trump's Re-Election
Brian Bennett, Time
Joe Biden Is Giving the Trump White House Reasons to Be Worried
John Cassidy, The New Yorker
What’s next
- 4 giorni alle primarie in Arizona, Florida, Illinois e Ohio (17 marzo 2020)
- 122 giorni alla Convention democratica (13 luglio 2020)
- 235 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)