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Weekly Focus n.4

Weekly Focus USA2020

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
20 marzo 2020

Bernie Sanders pensa al ritiro mentre Joe Biden è in pole per la nomination democratica. L'ex vicepresidente rassicura gli elettori spaventati dal Coronavirus mentre Trump attacca Pechino e accusa "il virus cinese".

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What’s up?

Ce l’ha fatta anche questa volta Joe Biden: l’ex vicepresidente di Barack Obama ha vinto in tutti e tre gli stati che hanno votato martedì 17: Arizona, Florida, Illinois, mentre le elezioni in Ohio sono state posticipate a giugno per l’emergenza coronavirus. In Florida Biden ha stravinto con il 61,3% delle preferenze, in Arizona ha staccato Sanders di 12 punti percentuali, in Illinois di 23. Ma quella che ci siamo appena lasciati alle spalle non è solo un’altra tornata elettorale. Si tratta invece della vera cartina di tornasole di queste primarie democratiche e svela – dati alla mano – che gli elettori democratici hanno ormai scelto il loro candidato per la corsa alla Casa Bianca il prossimo 3 novembre. È Joe Biden l’unico secondo i dem in grado di battere Donald Trump e impedire una sua rielezione per un secondo mandato. Che il vento soffiasse dalla sua parte era fin troppo chiaro in queste ultime settimane e persino Bernie Sanders, nell’ultimo dibattito televisivo, aveva evitato di attaccare troppo duramente l'ex vicepresidente che, in cambio, dopo l'ultima vittoria si è rivolto direttamente ai sostenitori del senatore del Vermont: “Conosco le vostre richieste – ha detto - e le condivido”. Le prossime primarie sono fra tre settimane e Sanders ha diffuso una nota in cui prende tempo per decidere il da farsi. Ma il suo ritiro potrebbe essere annunciato già nei prossimi giorni: secondo diverse fonti, la squadra del senatore socialista ha già sospeso gli spot elettorali, così come scelsero di fare, prima di abbandonare la corsa, anche Pete Buttigieg e Michael Bloomberg.

Sanders tuttavia, potrebbe non essere disposto a smantellare la sua base, un eteroclito esercito di fan perlopiù giovani e progressisti, prima di aver condizionato l’agenda del partito ottenendo importanti concessioni, soprattutto in materia di sanità. Già, la sanità. Un tema quanto mai attuale mentre la corsa alle primarie viene via via oscurata dall’evolversi dell’emergenza coronavirus negli Stati Uniti. Il virus ha ormai raggiunto tutti i 50 stati del paese, causando oltre 19.000 contagi e 260 decessi. Anche se a far paura non sono solo i dati sanitari: la settimana che si sta per concludere ha segnato infatti alcune tra le sedute peggiori degli indici di borsa da anni. In un lunedì nero per i mercati finanziari, Wall Street è stata affondata dal panico per il coronavirus: non sono bastati né l’intervento della Fed né l’annuncio del G7 di un’azione coordinata per salvare l’economia a raffreddare i timori degli investitori. Il Dow Jones ha lasciato sul terreno il 12,94%, nella peggior sessione dal 1987.

Nel frattempo Donald Trump – che una settimana fa aveva finalmente dichiarato l’emergenza nazionale per il coronavirus – è tornato sull’epidemia annunciando una richiesta al Congresso di 500 miliardi per pagamenti diretti ai cittadini ed altri 500 miliardi per aiutare piccole e medie imprese. Trump si è definito un presidente “in tempo di guerra” e ha annunciato misure straordinarie per combattere il virus.

Dopo che questa settimana il Senato aveva approvato la “fase due” della risposta all’emergenza, un pacchetto legislativo che prevede una serie di misure tra cui lo stanziamento di 105 miliardi di dollari per retribuire i lavoratori rimasti a casa ad accudire i figli, parte così la “fase tre”, ancora più energica, che potrebbe far erogare al Tesoro una cifra complessiva che supera mille miliardi di dollari.

 

In our view

Il commento di Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera

"Le primarie del partito democratico sono di fatto terminate. Anche se Bernie Sanders dovesse decidere di restare in corsa, avrebbe scarsissime probabilità di sorpassare Joe Biden. Abbiamo assistito a due dinamiche contrarie e simmetriche.

Il campo moderato ha dato prova di realismo e di maturità politica, ricompattandosi dietro la candidatura dell'ex vice presidente. Biden è riuscito a costruire in breve tempo e partendo dal voto della comunità afroamericana una coalizione sociale e geografica trasversale. A questo punto può competere anche con Donald Trump.

L'area radical, invece, ha dissipato in poche settimane la forza d'urto accumulata negli ultimi due anni, a partire dalle elezioni di mid-term. Nel momento decisivo, mentre i rivali facevano blocco, la sinistra democratica si è lacerata tra rivalità e dissapori personali. Sanders ha perso per strada prima la giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez, poi non è riuscito a convincere Elizabeth Warren a fare fronte comune. E alla fine il pragmatismo ha prevalso sul settarismo e i personalismi."

 

In numeri

Il coronavirus ha fatto ormai il suo ingresso in tutti i 50 stati americani e in California, New York e Illinois scatta l’ordine di quarantena per 1 americano su 5. Quello che ancora non si sa, invece, è quanto e come il virus si sia diffuso. Il primo caso di contagio risale a due mesi fa, il 21 gennaio. Da quel momento, anche qui si è iniziato a testare persone che presentavano i sintomi della malattia, ma con un ritmo che molti giudicano insufficiente.

I dati diffusi dalle autorità sanitarie rivelano che il numero di test condotti negli USA non è minimamente equiparabile a quelli fatti per esempio in Italia o in Corea del Sud. Inoltre, i dati Usa sono confusi, con discrepanze tra stato federale e agenzie statali, e il fatto che l’agenzia federale della sanità americana indichi il numero di campioni testati e non il numero di persone esaminate, porta probabilmente a una sovrastima del numero di cittadini controllati.

Per rispondere alle esigenze di monitoraggio, è nato il COVID Tracking Project, che raccoglie dati da autorità locali e statali e aggiornamenti dei media. Il progetto mostra che negli ultimi giorni il numero totale di test condotti è aumentato, raggiungendo quota 135.000, da soli 20.000 di sabato scorso, 14 marzo. Ma il numero rimane assolutamente insufficiente per monitorare con completezza la popolazione Usa. Mercoledì sono state testate circa 20.000 persone in un giorno, su una popolazione di circa 325 milioni: un numero simile a quello della Corea del Sud, che però di abitanti ne ha "solo" 50 milioni. La paura è quindi che siano molti gli americani positivi ma non intercettati dai test, ancora in incubazione o asintomatici.

Un dato sicuro, invece, è il numero di letti in terapia intensiva su cui la popolazione può fare affidamento: circa 45 mila. Un numero inferiore alle necessità e che rischia di non essere sufficiente a fronteggiare l’emergenza.

Fondamentale diventerà quindi per le autorità statunitensi isolare i contagiati, individuare i focolai già attivi ed evitare che ne spuntino di nuovi. Per farlo servirebbe non solo una vasta campagna di tamponi e test, ma anche che i cittadini con sintomi si facciano avanti per farsi diagnosticare. Cosa che potrebbe rivelarsi problematica dato che molti, nonostante le rassicurazioni, temono di dover pagare di tasca propria (circa 3.000 dollari) il costo del test per il coronavirus. La mancanza di un sistema sanitario unificato e universale, che per molti americani era e resta un tabù, rischia di trasformarsi in un boomerang per la salute pubblica degli interi Stati Uniti.

 

Latest polls

Secondo l’ultimo sondaggio di di AbcNews/Ipsos la nuova strategia di Donald Trump contro il Coronavirus convince gli americani: il 55% approva le misure varate dal presidente, mentre il 43% le disapprova. Appena una settimana fa il dato era praticamente invertito. Segno che l’inversione dell’amministrazione riguardo l’emergenza sta portando i frutti sperati. Ma c’è un altro dato che preoccupa la Casa Bianca e riguarda l’indice di credibilità del presidente proprio sulla pandemia legata al Covid-19. Stando ad un sondaggio di Npr appena il 37% degli americani si fida delle informazioni ricevute dal presidente riguardo l’emergenza sanitaria.

L’opinione pubblica appare spaccata in base al partito di appartenenza: solo l’8% dei democratici si fida di quello che dice Trump, mentre la percentuale sale al 74% tra i repubblicani (e al 34% tra gli indipendenti). Segno che neanche la pandemia globale riesce a ricomporre le profonde divisioni in seno alla società americana.

Inoltre la fiducia accordata al presidente è in media molto più bassa di quelle riposta in altre fonti di informazione: il 50% della popolazione si fida dei media, il 72% dei governi statali e locali, l’84% degli esperti di salute pubblica. Il presidente rischia di pagare in termini di perdita di legittimità il tardivo cambio di rotta sulla gravità dell’emergenza coronavirus degli Usa, minimizzata fino a pochi giorni fa.

 

I temi caldi

Nel tentativo di riguadagnare terreno, Donald Trump è corso ai ripari annunciando che il governo federale rinuncerà alla sua quota sugli interessi dei prestiti universitari. Negli Stati Uniti sono circa 45 milioni gli studenti ed ex-studenti che hanno contratto un debito con Washington, per un ammontare complessivo di ben 1.500 miliardi di dollari, circa l’8% dell’intero Pil americano. Solo 10 anni fa, era la metà. Un vero e proprio cappio al collo per milioni di studenti, alcuni dei quali (ad oggi circa il 12%) non riescono comunque ad accedere a lavori ben retribuiti e a rimborsare i prestiti contratti. A crescere negli anni non è stato solo il debito totale ma anche il debito medio di ciascuno studente: se negli anni ‘70 erano circa mille dollari all’anno, ora siamo vicini a quota 7.000. E se oltre al debito per la laurea si considera quello per la specializzazione, la somma complessiva pro capite aumenta vertiginosamente: si va dai 50mila dollari nel campo scientifico ai 140mila di un avvocato e ai 160mila di un medico. Una ‘bolla’ pronta a scoppiare e che assume connotazioni ancor più drammatiche se analizzata nella prospettiva del gap di genere e delle minoranze.

A ben guardare però, gli ‘sconti’ annunciati dal presidente potrebbero incidere solo in minima parte sul problema. In mancanza di ulteriori dettagli da parte della Casa Bianca, sono in molti a chiedersi quale sarà davvero l’effetto economico della misura nel breve termine.

Chi da sempre propone la cancellazione totale del debito universitario, invece, è Bernie Sanders. Il candidato democratico propone da anni di rendere pubblica l’istruzione universitaria e cancellare il debito studentesco, finanziandolo con una tassa federale sulle transazioni finanziarie. Questa domenica, anche Biden si è espresso sulla questione, annunciando di voler far propria una parte della proposta di Sanders: senza arrivare a cancellare il debito studentesco tout court, Biden propone di offrire istruzione universitaria gratuita per tutti i giovani da famiglie con un reddito sotto i 125mila dollari.

 

Il candidato

Mentre tutti si chiedono se e quando Sanders rinuncerà alla corsa, questa settimana in campo dem un ritiro c’è già stato: si tratta di Tulsi Gabbard, l’ultima donna in gara, l’ultima candidata non-bianca e, a soli 38 anni, l’ultima sfidante con meno di 70 anni.

Con soli 2 delegati al suo attivo (lo 0,01% del totale), Gabbard è distante anni luce da Biden (1.180 delegati) e Sanders (885). L’ultimo dibattito televisivo al quale è riuscita a qualificarsi era stato a novembre; da allora ci sono stati altri 6 dibattiti ai quali non ha partecipato, compreso l’ultimo di domenica 15 marzo. Anche per questo, Gabbard ha lamentato che l’élite politica e i media abbiano cercato estrometterla dalla corsa.

Nata nelle Samoa Americane e cresciuta alle Hawaii, Gabbard è rappresentante del Congresso per il Secondo Distretto delle Hawaii dal 2012. Maggiore dell’esercito, ha servito in Iraq e Kuwait. Non è un caso dunque che in campagna elettorale si sia concentrata su questioni di politica estera, in particolare sulla necessità di ritirare le truppe Usa dispiegate in scenari di guerra. Secondo quella che la stampa americana ha ribattezzato “la candidata fantasma”, per i numeri bassi e la vittoria di appena due delegati, gli Stati Uniti “dovrebbero smettere di cercare di essere i poliziotti del mondo e impiegare invece i soldi dei contribuenti per rispondere alle esigenze degli americani”. In questi mesi, si è contraddistinta per essere stata l’unica candidata alla nomina (e anche l’unica deputata democratica) ad aver votato “presente” al processo diimpeachment contro Donald Trump al Congresso, mentre tutti i suoi compagni di partito hanno votato a favore, tranne tre contrari. Una decisione che non ha giovato alla sua popolarità al punto che sui social è iniziato a circolare l’hashtag #TulsiCoward.

Ieri, nell’annunciare il ritiro, Gabbard ha espresso il suo sostegno a Joe Biden: “Conosco bene il vicepresidente e sua moglie e mi onoro di aver considerato un amico suo figlio Beau – ha detto - Non siamo d’accordo su alcuni temi, ma è una brava persona che agisce solo per il bene del paese”.

 

Politics on the rocks

La miglior difesa, si sa, è l’attacco. Deve averlo pensato anche Donald Trump che, dopo aver minimizzato per settimane sul coronavirus, paragonandolo a un’influenza che sarebbe finita con il caldo, forse già ad aprile, ha deciso di cavalcare l’emergenza sanitaria in funzione anticinese. Su Twitter il presidente lo ha definito “virus cinese”: un’accusa, venata di razzismo, che diventa anche un’arma politica e geopolitica. Sembrano lontanissimi i giorni in cui - era appena febbraio - Trump lodava la risposta del presidente cinese Xi Jinping all’emergenza sanitaria.

“Sarebbe stato molto, molto meglio – ha detto Trump - se avessimo saputo del virus qualche mese fa. Avrebbe potuto essere contenuto in quell’unica regione della Cina da cui è partito. Ma ora tutto il mondo, o quasi, è contagiato da questo terribile virus e paga un prezzo alto per quello che loro hanno fatto”.

Attaccando Pechino, insomma, il presidente tenta di giustificare il ritardo nella risposta all’emergenza, che solo pochi giorni fa liquidava come meno pericolosa di una normale influenza.

Mentre la Cina prova a rimediare al danno di immagine subìto inviando materiale sanitario e medici nei paesi più colpiti, l’inquilino della Casa Bianca non perde occasione di ricordare che la responsabilità della situazione odierna cade anche e soprattutto sulle spalle di Pechino e minaccia “ripercussioni”. Le autorità cinesi avrebbero nascosto le prime fasi dell’emergenza, ritardando così l’adozione di contromisure da parte del resto del mondo. La Cina condanna il linguaggio di Trump – accusandolo di "infangare un intero paese” - e cerca a sua volta di capovolgerne la narrativa, ipotizzando che il virus si sia sviluppato altrove e sia stato poi importato nella regione dello Hubei. A ribadirlo, di recente, è stato anche un portavoce del ministero degli Esteri cinese, dichiarando che l’investigazione sulle origini del virus è ancora aperta.

Dopo essere rimasta in sordina nei programmi dei candidati e nei dibattiti pubblici, la politica internazionale si riaffaccia prepotente sulla campagna elettorale in corso: il rischio di una nuova crisi diplomatica tra Stati Uniti e Pechino è alle porte.

 

Per saperne di più

The Trump Presidency Is Over

Peter Wehner, The Atlantic

Biden’s promise of a female vice president was a good thing. So why does it feel so lame?

Monica Hesse, The Washington Post

 

What’s next

- 39 giorni alla seconda giornata elettorale più importante dopo il Super Tuesday (28 aprile 2020)

- 115 giorni alla Convention democratica (13 luglio 2020)

- 228 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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AUTORI

Paolo Magri
ISPI Executive Vice President and Director
Alessia De Luca
ISPI Advisor for Online Publications
ISPI Research Assistant

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