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Weekly Focus n.5

Weekly Focus USA2020

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
27 marzo 2020

Gli Stati Uniti diventano il primo paese per numero di contagi da Covid-19. L’America si blinda e vara misure senza precedenti per contenere i danni economici e sociali. Ma il presidente Trump annuncia: “riapriremo tutto entro Pasqua”.

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What’s up?

Donald Trump spiazza tutti un’altra volta e annuncia: “Ho appena concluso un'ottima conversazione con il presidente Xi della Cina. Abbiamo discusso in dettaglio il coronavirus che sta devastando gran parte del nostro pianeta”. Con un colpo di spugna il presidente americano cancella settimane di accuse e minacce neanche troppo velate, per comunicare al mondo che “la Cina ha molta esperienza e ha sviluppato una forte conoscenza del virus. Stiamo lavorando a stretto contatto insieme. Molto rispetto!”. Che il coronavirus avrebbe modificato la campagna elettorale americana era chiaro a tutti ma fino a che punto il virus si sarebbe imposto nell’agenda politica a stelle e strisce, forse, è diventato lampante solo questa settimana: gli Stati Uniti sono diventati il primo paese al mondo per numero di contagi. Secondo i dati della John Hopkins University sono 86.012, più di Cina e Italia, con 1.301 morti. Ecco spiegato il repentino cambio di rotta dell’inquilino della Casa Bianca che fino a pochi giorni fa accusava apertamente Pechino di aver ritardato nel comunicare la gravità del virus, provocando, di fatto, l’attuale pandemia. Secondo i media cinesi, durante il colloquio telefonico Xi avrebbe detto a Trump che i due paesi “devono unirsi contro l’epidemia” del Covid-19. Il leader cinese ha poi affermato, alla televisione pubblica Cctv, che “la Cina è disposta a proseguire nella condivisione di informazioni ed esperienza con gli Stati Uniti senza riserve” sul virus.

La possibilità concreta che gli Stati Uniti diventino il nuovo epicentro della pandemia ha finalmente convinto il presidente a riconoscere che l’emergenza è reale e che bisogna agire, anche se Trump continua a mettere le mani avanti ipotizzando di riaprire il paese entro Pasqua: “Perdiamo migliaia e migliaia di persone ogni anno per l’influenza - ha twittato, confrontando ancora una volta il coronavirus con l’influenza stagionale - ma non chiudiamo il paese”. Uno scenario, quello della ripresa del business as usual tra appena due settimane, che spaventa non poco gli esperti di salute pubblica e molti cittadini negli States.

Ma qual è il motivo che ha convinto the Donald ad attivare un countdown, quello per il 12 aprile, che potrebbe ritorcerglisi contro? It’s the economy, stupid. Il presidente ha ribadito più volte che la cura all’emergenza coronavirus “non può essere peggiore del problema”. E i suoi timori per le ricadute economiche del lockdown hanno trovato conferma negli ultimi dati sull’occupazione nel paese: solo la scorsa settimana ben 3,3 milioni di americani hanno richiesto sussidi di disoccupazione. Un record assoluto, di gran lunga superiore al precedente di 695.000 richieste, che risale al 1982.

Non tutti gli stati però condividono l’ottimismo di Trump. Se la California è stata la prima a muoversi, ordinando già una settimana fa ai suoi 40 milioni di abitanti di restare a casa, molti altri stati hanno seguito l’esempio. Al momento 22 stati su 50, oltre a 64 contee, 16 città e un territorio, hanno imposto ai propri cittadini l’autoisolamento. Un totale di 212 milioni di persone, più di 1 americano su 2.

Infine uno sguardo al campo democratico: con la corsa alla nomination ormai dominata da un solo candidato, sono in molti a chiedersi che fine abbia fatto in questi ultimi giorni Joe Biden. Dopo le primarie in Arizona, Florida e Illinois della settimana scorsa, il senatore socialista del Vermont Bernie Sanders pare davvero non poter più insidiare la posizione dell’ex vicepresidente di Obama, che gode ormai di un ampio margine di delegati per ottenere la nomination (914 delegati per Sanders, 1.217 per Biden). Biden, che finora si era avvantaggiato della volontà di sminuire i rischi dell’epidemia, sembra ora soffrire il cambio di rotta, faticando a reggere il confronto con la macchina comunicativa della Casa Bianca: mentre Trump martella l’opinione pubblica a colpi di tweet e briefing giornalieri per la stampa, Biden deve mostrarsi all’altezza di una corsa sempre più digitale.

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

È interessante vedere, nel primo grafico, che dal 2 marzo ad oggi il livello approvazione di Donald Trump è cresciuto di ben 11 punti percentuali. Anche se il paese resta diviso sull’operato del presidente, il trend è positivo per il presidente. Segno che le misure intraprese dalla sua amministrazione per cercare di contenere l’epidemia nelle ultime settimane, convincono gli elettori.

Il secondo grafico mostra invece come negli ultimi giorni ci sia stata un’impennata nell’impegno in prima persona dei cittadini americani per proteggersi dal contagio. Lavare spesso le mani e usare disinfettanti sono pratiche sempre più diffuse nella vita degli americani. E oggi solo l’11% dei cittadini, quasi un americano su 10, ammette di non aver cambiato e proprie abitudini quotidiane per far fronte all’emergenza.

 

In our view

Il commento di Matthew Wilson, docente Southern Methodist University Texas

Like every other aspect of American life, the 2020 election campaigns for the presidency and Congress have been completely upended by the emergence of the novel coronavirus. Less than a month ago, Donald Trump’s re-election prospects looked as bright as they had at any point in his presidency. The stock market was at an all-time high, unemployment was at an historic low, and the United States had just reached an agreement with the Taliban to end its long-running involvement in Afghanistan. The Democrats seemed on track to nominate Bernie Sanders, a candidate far to the left of the American political mainstream whose previous stances and statements provided a cornucopia of opposition research. The president’s advisors were feeling quite optimistic about his electoral prospects. Now, however, circumstances have changed radically. Not only have Democrats coalesced behind a more moderate and palatable candidate in Joe Biden, but COVID-19 has completely remade the national (and global) landscape in ways that far transcend politics.

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In numeri

Intanto a Washington, dopo una settimana di dure trattative, democratici e repubblicani hanno finalmente trovato l’accordo per la “fase 3” della risposta economica al virus: un pacchetto da circa 2.000 miliardi di dollari, il maggior stanziamento di denaro pubblico mai varato nella storia americana. Approvata al Senato e alla Camera - dopo due bocciature da parte dei dem, che chiedevano maggiore trasparenza nelle modalità di erogazione dei sussidi alle imprese e maggiori stanziamenti per la sanità - la proposta attende ora la firma di Trump.

Anche se i dettagli del piano non sono ancora definitivi, si sa già che comprenderà un assegno da 1.200 dollari per ciascun cittadino adulto, 500 dollari per i bambini e circa 850 miliardi tra prestiti agevolati e aiuti per le aziende dei settori più colpiti dalla crisi. Ci sarebbero anche significativi aumenti di spesa per i contributi di disoccupazione, così come per gli ospedali e gli operatori sanitari, in prima linea nell'emergenza. In molti, pero, hanno criticato che un assegno unico di 1.200 dollari non sia sufficiente, considerato che il reddito mediano annuale procapite negli Stati Uniti è di 64mila dollari, e l’affitto medio è di circa 1.400 dollari al mese.

Il piano di aiuti federale assieme alle azioni senza precedenti messe in campo dalla Fed, che ha annunciato un Quantitative Easing praticamente illimitato e lanciato nuovi strumenti per sostenere mercati e business, porterà quindi in dote all'economia americana, circa 6mila miliardi di dollari: un vero e proprio bazooka, quello imbracciato dal governatore Jerome Powell a cui peraltro il governo ha garantito fondi per 500 miliardi che la banca centrale potrà utilizzare per erogare prestiti fino a 4mila miliardi a banche e aziende. Azioni straordinarie per tempi straordinari dunque? Così pare se anche il sottosegretario al Tesoro Mnuchin si è detto pronto a fare di tutto per salvare l'economia americana, anche a entrare nel capitale delle aziende se necessario con delle nazionalizzazioni di salvataggio. Come a suo tempo fece Obama, durante la crisi del 2008.

Mentre i mercati sembrano aver gradito gli aiuti proposti, non tutti gli amministratori locali sono altrettanto rassicurati: il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, lamenta che lo stato e la metropoli (particolarmente in difficoltà e con il più alto numero di contagi tra tutti gli stati americani) otterranno solo una minima parte delle risorse richieste - solo 3.8 miliardi sui 15 richiesti.

 

I temi caldi

“È per questo che ci servono i confini!”. Mentre il mondo cerca una strategia globale contro il Coronavirus, il presidente Trump non perde occasione di rilanciare uno dei suoi cavalli di battaglia elettorale: il giro di vite restrittivo in tema di immigrazione. “Durante una pandemia globale, i migranti irregolari “rischiano di creare la tempesta perfetta” ha spiegato il presidente, definendoli “un pericolo” per i cittadini americani e il sistema sanitario. Lo aveva già fatto un mese fa quando – pur bollando il coronavirus come una “bufala” dei democratici – aveva dichiarato che la politica dei confini aperti era “un pericolo diretto per la salute e il benessere di tutti gli americani”.

Trump ha poi reiterato lo stesso concetto venerdì scorso annunciando, pochi giorni dopo la chiusura parziale del confine con il Canada, la chiusura del confine tra Usa e Messico a tutti i viaggi non essenziali (richiedenti asilo inclusi).

Come spiega il New York Times, però, a questo punto della situazione epidemiologica fermare gli ingressi nel paese non sarebbe più una strategia efficace per contenere la diffusione del virus. Probabilmente, infatti, il Covid-19 è arrivato negli Usa già mesi fa e si è diffuso grazie anche ai molti contagiati asintomatici. Per di più, ad oggi gli Stati Uniti contano oltre 80.000 casi rilevati, molti più di quelli dichiarati dal Canada (3.500) o dal Messico (475). Il presidente ha proposto comunque di blindare il confine col Canada schierando i militari a 40 chilometri dal confine, così da impedire ingressi irregolari. Una misura denunciata dallo stesso premier canadese Justin Trudeau, che si è detto “totalmente contrario” alla militarizzazione della frontiera tra i due paesi. Il Canada confina con 13 Stati americani.

Lungo il confine sud, non si ferma invece la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico, una delle promesse elettorali più clamorose della campagna elettorale di Trump nel 2016. Lo scorso anno, per forzare la prosecuzione dei lavori nonostante il Congresso avesse bloccato i fondi, il presidente aveva dichiarato l’emergenza nazionale. Oggi, la pandemia potrebbe offrirgli l’opportunità di concretizzare la stretta sull’immigrazione che aveva promesso ai suoi elettori. Per i democratici, tutto si giocherà sulla capacità di tenere separati i due temi - coronavirus e migrazione - evitando che nella mente dei cittadini americani prenda forma l’idea di un virus che cammina sulle gambe dei migranti.

 

Il personaggio

Trump non è certo uno abituato a condividere i riflettori. Ma nel briefing giornaliero sul coronavirus tenuto alla Casa Bianca è affiancato da un esperto, una voce autorevole che possa garantire dal punto di vista scientifico le misure messe in campo dal governo. Si chiama Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive, e in queste settimane è diventato più famoso di una stella dell’Nba.

Classe 1940, Fauci dirige l’istituto dal lontano 1984 su nomina del presidente Ronald Reagan, che gli affidò l’incarico dopo che Fauci era emerso come uno dei più accesi sostenitori della necessità di un intervento federale per contenere l’epidemia di Hiv/ Aids che colpiva in quegli anni gli Stati Uniti. Da allora, Fauci è stato consulente scientifico di sei presidenti, con i quali ha collaborato per fronteggiare emergenze come quelle di Hiv, Sars, Mers ed Ebola. Negli ultimi decenni, Fauci è stato uno degli scienziati americani di maggior rilievo e autorevolezza nel campo epidemiologico e delle malattie infettive e negli ultimi giorni ha mostrato competenza e prudenza, intervenendo per correggere le dichiarazioni spesso imprecise del presidente. In alcuni casi il disagio dell’accademico non è sfuggito ai social, diventando addirittura il protagonista di un meme – divenuto virale e ritwittato dallo stesso Trump - che lo ritrae sconsolato portarsi la mano alla fronte, mentre il presidente parla. “Non posso saltare sul microfono e spingerlo giù” ha spiegato ironicamente Fauci ammettendo però che “anche se siamo in disaccordo, lui mi ascolta”. Eppure oggi, il tentativo di evitare il diffondersi dell’epidemia negli States, appare come la sfida più ardua della sua lunga carriera.

 

Politics on the rocks

Ormai è cosa nota: il briefing quotidiano alla stampa della Casa Bianca - guidato dal vice Mike Pence ma spesso dirottato da un presidente ‘a ruota libera’ – è fonte di post virali e lazzi sui social. Ma la conferenza stampa di due giorni fa, di sicuro, ha fatto ridere in pochi da questa parte dell’Atlantico. In un attacco diretto all’Europa, alle prese con il contenimento della pandemia, Trump ha dichiarato: “Con le sue regole e i suoi divieti, l’Europa gioca contro di noi da anni e mai nessun presidente ha detto nulla al riguardo. Non importa se adesso gli europei hanno un disperato bisogno di questo materiale, e le nostre fabbriche nordamericane, sono pronte a mandarlo, ma non si può per le regole europee. Prepariamo il miglior materiale medico al mondo, ma l’Europa non lo accetta perché hanno regolamenti che non permettono l’ingresso”.

E ancora: “Certa gente si sta approfittando di noi. E sono i nostri alleati” ha detto il tycoon aggiungendo che “questa gente, questi alleati non danno sufficiente denaro all’interno del Patto, motivo per cui noi siamo costretti a pagare più degli altri, e poi non accettano le nostre esportazioni”.

A voler essere maliziosi, i commenti contro l’Europa e gli alleati Nato, con cui Trump era già entrato più volte in rotta di collisione riguardo la questione dei bilanci e della spesa militare, sembrano più un’espediente per oscurare il rapido diffondersi dell’epidemia, che un vero e proprio attacco. Questa settimana le riprese tra i grattacieli delle strade deserte di New York hanno fatto il giro del mondo: uno scenario apocalittico. La città “che non dorme mai” è ferma da venerdì scorso, 20 marzo, e non sa quando potrà ripartire.

Sarà il 12 aprile, come dice Donald Trump, la data fatidica? In pochi ci credono, anche se il presidente cerca di accelerare l’uscita dal tunnel che, inaspettatamente, si è messo fra lui e il nuovo mandato di novembre.

 

In our view

Il commento di Stefano Stefanini, ISPI Senior Advisor

Non è il nemico che la Nato pensava di affrontare. Fra le minacce alla sicurezza l’Alleanza non ignorava che le pandemie, ma questa particolare forma di virus e la pervasiva rapidità di diffusione ne toccano nervi critici: minano l’operatività, possono indebolire le capacità militari ed incrinare la coesione politica. Difendersi da un nemico interno è molto più difficile che prendere misure contro un nemico esterno. Alle prese con Covid-19, la Nato deve fare tutt’e due le cose. Il nemico interno ha il potere di mettere in ginocchio l’Alleanza ben più delle grandi minacce esterne sullo schermo – che, semplificando, sono Russia e terrorismo. Le caratteristiche specifiche di coronavirus incidono inevitabilmente sull’operatività e prontezza dei dispositivi militari degli Alleati – e quindi sull’intera struttura Nato. Le misure necessarie per proteggersi da Covid-19, in particolare distanziamento sociale, limitazione dei contatti interpersonali e isolamento dei casi positivi o sospetti tali, mal si coniugano con il regime di vita in qualsiasi organizzazione militare, grande o piccola.

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Per saperne di più

The wrong kind of American exceptionalism

Edward Luce, Financial Times

America’s emergency stimulus is imperfect but necessary

The Economist

 

What’s next

- 32 giorni alle primarie in New York e Ohio (28 aprile 2020)

- 67 giorni alle primarie in 10 stati e Washington D.C. (2 giugno 2020)

- 108 giorni alla Convention democratica (13 luglio 2020)

- 221 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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AUTORI

Paolo Magri
ISPI Executive Vice President and Director
Alessia De Luca
ISPI Advisor for Online Publications
ISPI Research Assistant

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