Oltre un milione di casi accertati e più di 60mila vittime. Negli Stati Uniti la pandemia da Coronavirus provoca anche più di 30 milioni di disoccupati e un crollo record del Pil. Ma per Donald Trump è tutta colpa della Cina: "sta facendo di tutto per avere Biden al mio posto alla Casa Bianca".
What’s up?
Un tonfo come non se ne vedevano dalla crisi del 2008: a causa della pandemia e delle misure di lockdown, nel primo trimestre del 2020 il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti è calato del 4,8%, tornando in negativo per la prima volta dal 2014. Peggio del previsto, e le previsioni non sono incoraggianti: nel secondo trimestre potrebbe andare anche peggio, con un calo del Pil fino al 30%.
Dati che non si vedevano dai tempi della Grande Depressione e, di sicuro, i peggiori dalla Secondo Guerra Mondiale. Al punto che secondo il New York Times “Non stiamo assistendo alla peggior crisi del decennio, ma alla peggiore della vita”. La questione ora, scrive Ben Casselman, è capire quanto sarà consistente il danno e quanto ci metterà il paese per riprendersi. La Federal Reserve si è detta pronta al “whatever it takes” di Draghiana memoria e ha annunciato che i tassi rimarranno a zero per tutta la durata dell’emergenza. Quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi negli Stati Uniti, molti economisti ipotizzavano una ripresa a “V”, una forte recessione iniziale seguita da un altrettanto rapido rimbalzo. Ma quelle proiezioni si basavano sull’ipotesi di una breve pausa nelle attività commerciali. Il prorogarsi del lockdown – e riaperture solo parziali per settimane o mesi in molti stati – ha profondamente mutato il quadro.
Per ogni settimana di fatture non pagate e vendite ai minimi storici, sempre più aziende falliranno o decideranno di non riaprire e sempre più perderanno i propri impieghi, trasformando licenziamenti temporanei in perdite di posti di lavoro permanenti. Più prestiti non verranno ripagati, mettendo a rischio le banche e l’intero sistema creditizio. Oggi il governo Usa ha diffuso i nuovi dati sulle richieste di sussidi di disoccupazione: in sole sei settimane, il numero di richiedenti supera quota 30 milioni.
La situazione economica è talmente compromessa che il presidente Donald Trump ha affermato: “I cinesi stanno facendo di tutto per farmi perdere le prossime elezioni”. Più volte negli ultimi giorni l’inquilino della Casa Bianca aveva dichiarato che sono in corso investigazioni sull’origine del virus, suggerendo che il Covid-19 potrebbe essere stato creato in laboratorio a Wuhan, in Cina. E questo, nonostante la stampa continui a riportare che già a gennaio, i report dell’intelligence statunitense mettevano in guardia dai rischi di un’epidemia. Ai giornalisti che gli chiedevano di commentare i sondaggi dell’ultima settimana, che danno Joe Biden in vantaggio su di lui, Trump ha obiettato: “sono sicuro che gli americani siano più intelligenti di come appaiono nei sondaggi”. Ma i dubbi circa le possibilità del presidente di portare a casa alcuni stati-chiave per la rielezione, come Florida, Wisconsin e Arizona, cominciano a serpeggiare anche tra i suoi più stretti collaboratori. Secondo Cnn e Washington Post in un accesso d’ira il presidente avrebbe persino minacciato di denunciare il manager della sua campagna Brad Pascarle per aver diffuso risultati di proiezioni che lo vedrebbero sconfitto in alcuni stati se si andasse al voto domani.
Sul fronte democratico, intanto, Joe Biden ha incassato questa settimana altri due endorsement di peso: quello di Nancy Pelosi, speacker della Camera e della ex first lady e candidata nel 2016, Hillary Clinton. “Serve un leader, un presidente come Joe Biden – ha detto l’ex Segretario di Stato Clinton nel corso di un town hall virtuale con il candidato dem – Le sfide poste dal coronavirus rappresentano il momento della resa dei conti per creare quell'America che vogliamo”.
Questa settimana gli Stati Uniti hanno raggiunto il milione di casi di contagio e superato i 60mila decessi. In soli tre mesi, gli americani contano più vittime di quanti furono i soldati americani morti durante la guerra in Vietnam (58.000). Una soglia psicologica che colpisce e che viene superata, coincidenza, nel giorno di un anniversario significativo: il 30 aprile 1975, 45 anni fa esatti, il mondo assisteva alla caduta di Saigon che a quella guerra avrebbe, di fatto, posto termine.
Va tutto male quindi? Non proprio. Un dato positivo arriva dalle borse, incoraggiate dai primi test clinici positivi del farmaco antivirale Remdesivir, usato in passato nel trattamento della Sars e della Mers. Il consulente della Casa Bianca Anthony Fauci ha confermato i “risultati incoraggianti” del farmaco nel favorire la guarigione e la Food and Drugs Administration è pronta ad autorizzare in emergenza l'uso del farmaco sperimentale per trattare i pazienti affetti da coronavirus. Se confermata la validità del trattamento medico potrebbe essere cruciale nella battaglia contro il Covid-19 considerato che secondo le autorità sanitarie americane ci vorranno almeno tra i 12 e i 18 mesi per avere un vaccino contro il virus.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
La gestione dell’emergenza sanitaria fa segnare un ulteriore peggioramento delle valutazioni dei cittadini americani nei confronti del presidente Trump, riportando il divario tra chi disapprova (53%) e chi approva (42%) a quello registrato a inizio aprile (11 punti).
Al contrario, il giudizio generale sull’operato di Trump dopo il calo della scorsa settimana si mantiene stabile al 42%. Le opinioni continuano ad essere guidate dalla partigianeria: l'85% degli elettori repubblicani approva, mentre solo l'11% degli elettori democratici lo fa. I cittadini americani si dividono nettamente anche nella valutazione dei punti di forza (economia ed occupazione) e di debolezza (riforma della sanità, gestione Covid 19 e immigrazione) attribuiti al presidente. Gli orientamenti di voto in vista delle elezioni presidenziali confermano il vantaggio di Biden su Trump: 42% a 36%.
I temi caldi
Dall’inizio della pandemia, gli Stati Uniti hanno emanato decreti per oltre 2.500 miliardi di dollari per fronteggiare l’emergenza, incluso il più grande pacchetto di aiuti della storia americana. Un’iniziativa che il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha addirittura deciso di includere in un video della campagna per la sua rielezione in Kentucky. Che uno degli esponenti principali del partito repubblicano, che si è sempre tradizionalmente opposto a grandi interventi pubblici nell’economia, pubblicizzi un intervento statale di queste dimensioni la dice lunga su quanto il coronavirus stia cambiando i paradigmi economici dei grandi partiti americani. Gli effetti del coronavirus si fanno sentire dunque sulle risposte economiche – il ritorno del “big government” – ma anche e soprattutto nel dibattito interno ai partiti repubblicano e democratico.
La filosofia economica che ha dominato il partito repubblicano negli ultimi decenni è, in versione più o meno aggiornata, ancora quella lanciata da Ronald Reagan negli anni ‘80 con l’avvio di un processo di deregolamentazione dell’economia e un progressivo ritiro dello stato dal mercato. Fu lo stesso Reagan, durante il suo discorso inaugurale nel 1981, a spiegare che “il governo non è la soluzione al problema, il governo è il problema”.
Oggi, però, la situazione è cambiata: già da prima dell’emergenza, Donald Trump aveva iniziato a invertire la rotta del partito repubblicano, abbandonando l’ideologia libertaria che l’aveva contraddistinto fino ad allora in favore di politiche populiste più aperte a usare i poteri del governo a vantaggio della “working class”, la stessa classe operaia che nel 2016 l’ha aiutato a vincere in molti collegi elettorali tradizionalmente democratici. Con il coronavirus, Trump ha messo il piede sull'acceleratore. Oltre a quella del partito, sembra parzialmente cambiata anche l’ideologia dell’elettorato repubblicano: nel 2009, solo il 28% dei repubblicani era a favore del pacchetto di stimoli proposto da Obama, rispetto al 79% dei democratici. Alle misure varate oggi, invece, sono favorevoli quasi nove repubblicani su dieci e una stessa proporzione tra i democratici, nonostante le condizioni economiche vengano considerate migliori di allora.
Ma gli aiuti ‘a pioggia’ stanziati finora vanno a cittadini e imprese, non ai singoli stati che faticano a sostenere le spese dell’emergenza coronavirus senza fondi federali. In un tweet, il presidente s’è chiesto “perché i contribuenti americani dovrebbero salvare Stati e città governati male, e in tutti i casi governati e gestiti dai democratici, quando la maggior parte degli altri Stati non sta cercando aiuto per un salvataggio?”. Trump ha così rilanciato l’ipotesi del leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell: far andare in bancarotta gli Stati che non riescono a sostenere l’emergenza coronavirus senza fondi federali. McConnell aveva espresso il suo commento durante un programma radiofonico. "Sarei sicuramente favorevole a consentire agli stati di utilizzare la bancarotta fallimentare", aveva detto McConnell. "Ha già salvato alcune città e non ci sono buoni motivi per non utilizzarla".
Come spiega bene The Atlantic infatti, un processo per bancarotta dei singoli stati consentirebbe al partito repubblicano di utilizzare il suo ascendente federale per orientare e imporre le priorità sui bilanci degli stati più ricchi.
In our view
Il commento di Elena Molinari, corrispondente USA Avvenire
Gli Stati Uniti stanno affrontando uno dei periodi più bui della loro storia. Più di un milione di americani è o è stato ammalato, oltre 62.000 sono morti e almeno 30 milioni hanno perso il lavoro. Sullo sfondo di queste enormi sofferenze e di una drammatica incertezza per il futuro, fra sei mesi i cittadini statunitensi saranno chiamati a scegliere il loro nuovo presidente, prendendo una decisione politica dalle profonde conseguenze.
In numeri
Negli Stati Uniti, la città più colpita dal coronavirus è anche quella più iconica degli States: New York, la Grande Mela. Le foto delle sue strade vuote, incorniciate dai grattacieli sono diventati virali sui social mostrando come, a causa della pandemia, anche “la città che non dorme mai” si è dovuta fermare. Da inizio marzo, New York ha registrato oltre 4mila morti in più a settimana rispetto alla media. Dall’inizio dell’emergenza a oggi, la città conta oltre 27.000 morti, contro una media dello stesso periodo che, secondo il New York Times, si aggira intorno ai 6mila decessi. Di questi 27mila, però, solo 17.000 sono classificati ufficialmente come vittime o probabili vittime del coronavirus. Il resto (oltre 4mila) sono morti “in eccesso”.
Ma cosa ha causato queste morti “in eccesso”? La differenza nelle statistiche sui decessi non è attribuibile direttamente al coronavirus. È probabile che alcuni di questi morti lo siano, ma altri potrebbero invece essere vittime “collaterali” causate dagli effetti indiretti dell’emergenza: per esempio, persone che non sono andate in ospedale per paura di contagiarsi o che non hanno potuto ricevere le cure necessarie negli ospedali sovraffollati. Le vittime reali (dirette e indirette) da coronavirus a New York potrebbero dunque essere il 25% in più di quanto si sia stimato finora. Un fenomeno simile a quello che sta emergendo in altri stati americani e in diversi paesi europei, dove si ritiene che le morti legate al coronavirus possano essere sottostimate di circa il 30%.
Il candidato
Proprio quando la sfida per la presidenza sembrava ormai aver preso la forma di un duello a due tra Trump e Biden, ecco irrompere sulla scena un terzo contendente che potrebbe potenzialmente complicare il quadro. Il suo nome è Justin Amash, rappresentante indipendente del Michigan alla Camera. Martedì 28 aprile, Amash ha lanciato il suo sito web “Amash per l’America” e annunciato la creazione di un comitato esplorativo per il suo ingresso nella corsa come candidato presidenziale del Partito libertario.
Per quanto non se ne parli spesso, negli Stati Uniti esistono altri partiti oltre a quello democratico e repubblicano. Il più grande è il Partito libertario, che cerca di raccogliere i voti di chi si sente vicino alla destra sui temi economici e alla sinistra su diritti civili e libertà individuali. Per diventare un candidato a tutti gli effetti, Amash avrà comunque bisogno di essere nominato alla Convention del partito che, salvo complicazioni legate all’emergenza coronavirus, si dovrebbe tenere a fine maggio in Texas. Le primarie del partito sono già in corso, ma Amash può comunque sperare nella nomination dato che i delegati libertari alla convention tendono, molto più dei loro omologhi democratici e repubblicani, a votare indipendentemente dal mandato ricevuto dagli elettori.
Classe 1980, Justin Amash nasce in Michigan in una famiglia di arabi cristiani: il padre è un rifugiato palestinese, arrivato negli Stati Uniti a 16 anni, e sua madre un’immigrata siriana. Lavora come consulente legale e nell'azienda di famiglia prima di essere eletto nel 2008 al parlamento del Michigan e, due anni dopo, entrare al Congresso di Washington tra le fila dei repubblicani. Amash però è un battitore libero e finisce per far parlare di sé quando dichiara di voler votare a favore di un possibile processo di impeachment contro Trump. Poco dopo, in contrasto con quella che definisce una “deriva populista” del Grand Old Party sotto la direzione di Donald Trump, Amash abbandona i repubblicani e si registra come indipendente. Nemmeno come libertario, comunque, Amash è facilmente inquadrabile: nonostante le posizioni tradizionalmente associate al movimento, Amash è infatti un deputato fortemente anti-abortista e conservatore su molte questioni sociali.
Sebbene le sue possibilità di salire alla Casa Bianca siano minime Amash rischia di trasformarsi in una mina vagante per i due competitor Trump e Biden, ai quali potrebbe rubare voti preziosi: ai repubblicani potrebbe sottrarre i voti di chi vede di buon occhio un’alternativa a Trump e ai democratici, quelli degli elettori conservatori che avrebbero votato Biden pur di non rieleggere Trump ma senza convinzione. Per adesso, il partito libertario sarà presente solo sulle schede elettorali di 35 stati, ma già in passato si è dimostrato determinante per il risultato del voto in alcuni stati chiave. Nel 2016 il libertario Gary Johnson raccolse quasi 4,5 milioni di voti, soltanto il 3,3% delle preferenze totali, ma spesso in collegi in bilico tra democratici e repubblicani. Oggi, quattro anni dopo, la corsa alla presidenza si riduce a un semplice interrogativo: pro o contro Trump? Per un candidato indipendente e senza concrete possibilità di vittoria, ritagliarsi un ruolo terzo tra i due grandi sfidanti sarà complicato.
In our view
Il commento di Giovanni Borgognone, professore Università di Torino
La guida della società non dovrebbe essere affidata agli “stregoni”, che credono in ricette magiche per superare un’infezione, bensì ai “chirurghi”, che si basano sulla scienza per “guarire” la società. Così scriveva Stuart Chase, in un volume del 1932 dal titolo A New Deal. La politica americana al tempo della pandemia ripropone, per molti versi, uno scenario simile a quello dell’epocale scontro elettorale in piena Grande Depressione tra il presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, e lo sfidante democratico Franklin Delano Roosevelt. Di fronte al devastante “contagio” della crisi iniziata tre anni prima a Wall Street, Hoover, il quale inizialmente aveva negato che essa fosse davvero grave ma poi, dopo il 1931, si era dovuto arrendere all’evidenza che non era affatto transitoria, volle individuare un colpevole “esterno”. Sostenne che la Grande Depressione fosse frutto di una “infezione europea”: a suo giudizio, l’America, se si fosse liberata dalle maligne influenze del Vecchio Continente, avrebbe dimostrato di possedere tutti gli anticorpi necessari per superare la crisi nel sano individualismo economico che costituiva la sua quintessenza.
Politics on the rocks
A causa delle misure restrittive contro il coronavirus, in pochi a Los Angeles possono raggiungere il lungomare in questi giorni; chi ci riesce, però potrà vedere ben 27 petroliere ancorate al largo del Golfo della California. Le gigantesche navi dovranno probabilmente attendere ancora un po’ prima di trovare un porto statunitense dove ormeggiarsi. La scorsa settimana è stata infatti una delle più buie nella storia del mercato dell’oro nero negli USA. Con il crollo di domanda seguito al lockdown e i depositi di greggio ormai al limite, il paese sembra aver esaurito lo spazio per stoccare altro greggio. Così, lunedì 20 aprile, i prezzi del West Texas Intermediate (Wti), il greggio che fa da riferimento ai prezzi del petrolio estratto in territorio USA, sono precipitati per la prima volta sotto zero. Un simile crollo, anche se meno severo, si è ripetuto anche questo lunedì, quando i prezzi Wti sono nuovamente crollati di oltre il 20%.
Anche in Texas sono in arrivo 20 “superpetroliere” – navi con una capacità di circa 2 milioni di barili ciascuna – cariche di greggio proveniente dall’Arabia Saudita. Da terra, però, il messaggio è chiaro e lo ha twittato il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz: “Fate fare dietrofront alle petroliere”.
Le petroliere in arrivo dal Medio Oriente bussano infatti alla porta di un mercato già saturo, e in cui i produttori locali rischiano il fallimento. Il petrolio americano, ottenuto con la tecnica del fracking, ha costi di estrazione molto alti e conviene solo se il prezzo oscilla tra i 40 e i 50 dollari al barile. Il rischio, in un momento già complicato per l’economia Usa, è di un tracollo delle società estrattive statunitensi, alle quali Trump ha promesso che non saranno abbandonate. E sono in molti in queste ore, a chiedere al presidente di far valere le sue doti di negoziatore e i suoi legami privilegiati con la famiglia regnante saudita per convincere il principe ereditario Mohammed bin Salman a ridirigere la flottiglia petrolifera verso altri porti.
Per saperne di più
Coronavirus Means the Era of Big Government Is…Back
Gerald F. Seib e John McCormick, The Wall Street Journal
Why 2020 Could Be Another False Equivalence Election
Charlotte Alter, Time
What’s next
- 33 giorni alle primarie in 8 stati e Washington D.C. (2 giugno 2020)
- 109 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 187 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)