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Weekly Focus n.14

Weekly Focus USA2020: Black Lives Matter

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
06 giugno 2020

L’America dà il suo addio commosso a George Floyd. E mentre il presidente Trump getta benzina sul fuoco, definendo i manifestanti “terroristi” il Pentagono gli volta le spalle.

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What’s up?

“Poche persone sanno dire con precisione dove saranno tra due anni. Io lo so: sarò nel grande stato dell’Alaska a fare campagna contro la senatrice Lisa Murkowski”. Così Donald Trump ha risposto alla senatrice repubblicana, in lizza per la rielezione nel 2022, che aveva definito “vere, oneste e necessarie” le parole di Jim Mattis ex segretario alla Difesa e autore di un duro editoriale contro il presidente. Sì, perché se negli Stati Uniti questa settimana è stata segnata dalla lunga coda delle proteste e dei disordini seguiti alla morte di George Floyd, il fatto politico significativo delle ultime ore è un altro. E precisamente lo smarcamento, che nell’editoriale di Mattis sulle colonne di The Atlantic prende la forma di una condanna senza appello di uno dei presidenti più controversi della storia degli Stati Uniti, da parte di pezzi grossi dell’establishment. “Per la prima volta in vita mia assisto ad un presidente che non cerca di unire gli Americani, non fa neanche finta, e anzi cerca di dividerci” scrive Mattis. Contro il presidente, che ha minacciato di usare le forze armate contro i manifestanti, si sono schierati anche l'ex generale John Kelly, suo ex capo di gabinetto ed ex ministro per la Sicurezza nazionale, John Allen, ex comandante delle forze Usa in Afghanistan e presidente di Brookings, e Mike Mullen, ex capo dello stato maggiore congiunto, avvertendo che “mina i valori dell'America”.

Mentre il “comandante in capo” nel giardino delle Rose invocava l'Insurrection Act, la polizia sparava lacrimogeni e proiettili di gomma contro chi protestava davanti alla Casa Bianca, per disperdere la folla e consentire al presidente di sfilare indisturbato verso la vicina chiesa episcopale di St. John e mettersi in posa con la Bibbia in mano. “Non sapevo dove stavamo andando” è stata la disarmante risposta con cui Mark Esper, il capo del Pentagono ha replicato ai giornalisti che gli chiedevano di rendere conto dei fatti di Lafayette Square. “Sapevo che andavamo a St. John, non sapevo della foto e della Bibbia”, ha detto Esper dicendosi contrario a invocare l’Insurrection Act contro le proteste, che la Casa Bianca etichetta come “terrorismo interno”.

 

Intanto, a Minneapolis, si è aperto con un silenzio durato 8 minuti e 46 secondi, la commemorazione funebre in ricordo di George Floyd. Il lasso di tempo in cui l'uomo è stato tenuto bloccato al suolo dal ginocchio dell'agente di polizia Derek Chauvin. Nel santuario della North Central University il legale della famiglia Floyd, Benjamin Crump ha dichiarato: "Non è stata la pandemia di coronavirus ad uccidere George Floyd: voglio che sia chiaro. È stata l'altra pandemia, che in America è fin troppo familiare, la pandemia di razzismo e discriminazione che ha ucciso George Floyd". Durissime anche le parole del reverendo Al Sharpton, religioso e attivista per i diritti civili degli afroamericani: "Per più di 400 anni siamo stati emarginati perché l'America ha tenuto il ginocchio sul nostro collo. Quello che è successo a Floyd accade ogni giorno in questo paese, nell'istruzione, nei servizi sanitari e in ogni ambito della vita. È tempo per noi di alzarci in piedi nel nome di George e dire: toglieteci quel ginocchio dal collo”.

 

I temi caldi

“Ho bisogno che sia fatta giustizia. Non voglio vederlo su una maglietta come gli altri”: al telefono con Joe Biden, Philoise Floyd, fratello di George, ha implorato che i responsabili della morte di suo fratello siano portati alla sbarra. Almeno stavolta. Perché se è vero che nel corso di procedure d’arresto e pattugliamenti per le strade, negli Stati Uniti la polizia uccide circa 1.000 persone all’anno, è altrettanto vero che in termini relativi ad essere uccisi sono molti più afroamericani che cittadini bianchi. Secondo il Washington Post, che raccoglie dati sulle violenze commesse dalle forze dell’ordine dal 2015, circa la metà di chi viene ucciso è bianco, ma considerando che gli afroamericani sono solo il 13% della popolazione statunitense, questo significa che hanno più del doppio della probabilità di essere uccisi rispetto a un bianco. E non solo, è anche più probabile che un afroamericano ucciso non sia armato, rispetto a un bianco. Eppure solo una piccolissima minoranza degli agenti coinvolti in procedure e sparatorie “sospette” viene incriminata: tra il 2013 e il 2019, appena l’1% delle uccisioni ha portato ad un processo, e una percentuale ancora più bassa, prossima allo zero, è finita con una condanna.

I dati parlano chiaro e tratteggiano un contesto di impunità pressoché generalizzato. La storia delle proteste contro la violenza della polizia nei confronti degli afroamericani è lunga. A fare scalpore, anche all’estero, per la loro drammaticità furono quelle dell’aprile 1992 a Los Angeles, i cosiddetti “riots” durati sei giorni e in cui morirono 60 persone. Anche in quel caso a provocare la sommossa fu un evidente abuso di potere da parte della polizia cittadina: le rivolte scoppiarono il giorno dell’assoluzione di un gruppo di poliziotti che avevano pestato a sangue Rodney King, un tassista nero. Incredibilmente il suo arresto era stato ripreso in un video che mostrava gli agenti, tutti poliziotti bianchi, che bastonavano King con i manganelli mentre l’uomo era a terra. Le immagini fecero scalpore e quello di King diventò un caso mediatico: era il simbolo dei soprusi e del razzismo della polizia di Los Angeles sugli afroamericani. Dopo mesi di processi, gli agenti – che avevano alle spalle uno dei dipartimenti più violenti e razzisti degli Stati Uniti – furono assolti da una giuria in cui non era presente neanche un afroamericano. La rivolta cominciò poche ore dopo il verdetto e proseguì per quasi una settimana – sfociando poi in saccheggi e aggressioni – evidenziando le storture della società americana: discriminazione giudiziaria, brutalità delle forze dell’ordine e segregazione.

Negli ultimi anni, la tecnologia e l’uso dei social hanno aiutato molto a stigmatizzare, denunciare e chiedere a gran voce giustizia. Vent’anni dopo i fatti di Los Angeles, l’hashtag #blacklivesmatter fu utilizzato per la prima volta da tre attiviste afroamericane, quando George Zimmerman venne assolto per l’omicidio del 17enne Trayvon Martin. L’anno prima, era il 2012, Zimmerman, volontario della ronda di quartiere, aveva sparato e ucciso Martin mentre tornava a casa dopo aver comprato tè freddo e caramelle.

Da allora sono state approvate diverse riforme nel sistema di polizia e molti più poliziotti oggi indossano telecamere che documentano il loro comportamento in servizio. Sotto l’amministrazione Obama, poi, il Dipartimento di Giustizia ha esteso la sorveglianza sulle pratiche dei dipartimenti di polizia del paese nei confronti dei cittadini afroamericani. Negli ultimi anni, infine, la vendita di equipaggiamento militare alle forze dell’ordine è stato fortemente limitato. Con l’amministrazione Trump, però, molte di queste pratiche sono state ridimensionate o bloccate e, in generale, le discriminazioni e la violenza nei confronti dei cittadini afroamericani da parte delle forze dell’ordine sono ancora all’ordine del giorno.

Il caso di George Floyd, in questo senso è emblematico: Derek Chauvin, l’agente che ha ucciso Floyd premendogli il ginocchio sul collo, aveva raccolto almeno 17 reclami per cattiva condotta nei suoi 19 anni di carriera, era stato coinvolto in tre sparatorie, ed era stato citato in giudizio per un uso eccessivo della violenza. Ciò nonostante, contro di lui erano partite semplicemente due lettere di rimprovero.

Ciò che Black Lives Matter denuncia è l’esistenza di un intero sistema che fa sì che i crimini commessi dagli agenti siano sistematicamente coperti e che, comunque non riescano a tradursi in condanne concrete. A Minneapolis, ad esempio, dal 2012, a fronte di 2.600 lamentele per cattiva condotta contro gli agenti, soltanto 12 sono state perseguite; la pena più severa è stata una sospensione di 40 ore.

A ostacolare una riforma profonda dei corpi di polizia sono in parte gli stessi sindacati degli agenti, vere e proprie corporazioni, potenti e spesso di estrema destra anche nelle città più progressiste. Dal loro punto di vista, legare eccessivamente le mani agli agenti li esporrebbe a troppi pericoli in una società come quella americana, con tassi di violenza e diffusione di armi tra la popolazione ben superiori ad altri paesi democratici ed economicamente avanzati. Gli agenti vedono se stessi come “the thin blue line”, la “sottile linea blu” che difende i cittadini americani da criminali e violenti. Una linea che è andata assottigliandosi negli anni, con tagli al personale, turni più lunghi e paghe basse e ha contribuito all’emergere di un sentimento diffuso tra gli agenti: quello di essere sotto assedio. Un problema oggettivo, ma che troppo spesso viene strumentalizzato per giustificare la totale impunità e l’uso disinvolto della violenza.

 

In our view

Il commento di Massimo Teodori, Professore di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, autore del libro “Il Genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale” Rubbettino, 2020

Trump Presidente degli Stati Divisi d’America

La diffusione in tutta l’America della protesta per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd con l’intrusione di saccheggi e incendi di bande criminali, ha evidenziato più ancora del passato l’anomalia della presidenza Trump. L’ambigua gestione della pandemia e il collasso economico-occupazionale con la riduzione del consenso per il presidente hanno ulteriormente radicalizzato la sua politica tesa a consolidare l’immagine dell’uomo forte capace di dominare il caos. 

Continua a leggere

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

Settimana difficile per il presidente Trump, non solo per la morte di George Floyd e per le reazioni che ha suscitato a Minneapolis e in tutti gli Stati Uniti, ma anche per le crescenti preoccupazioni per la situazione economica. Due americani su tre (65%) sono convinti che il Paese stia andando nella direzione sbagliata mentre meno di uno su quattro (23%) è di parere opposto. Gli ottimisti sono diminuiti di otto punti da aprile ad oggi.

Pertanto è in calo il consenso per l’operato del presidente che oggi si attesta al 39%, mentre i detrattori raggiungono il 56%. Biden porta a sette punti il suo vantaggio su Trump (42% a 35%) che salgono a dieci punti tra gli elettori registrati (47% a 37%).

 

In numeri

Quando è nato il movimento Black Lives Matter, l’inquilino della Casa Bianca era Barack Obama, il primo presidente afroamericano, e al Congresso sedevano più afroamericani di quanti ce ne fossero mai stati prima. Eppure, il razzismo contro i neri non è scomparso. Da anni infatti il problema viene descritto come parte di una questione più ampia: il cosiddetto “razzismo sistemico” della società statunitense.

Per cominciare, ad esempio, i bianchi hanno una aspettativa di vitadi 78,8 anni, contro i 75,3 degli afroamericani. Le donne afroamericane, poi, hanno il triplo delle probabilità di morire per parto rispetto alle donne bianche. Inoltre, pur costituendo solo il 13% della società americana, gli afroamericani sono il 33% della popolazione carceraria. E non perché delinquano più dei bianchi. Ma perché hanno più probabilità di essere arrestati e di ottenere condanne più severe in sede di giudizio. E questo perché per come funziona il sistema giudiziario americano avere accesso a un buon avvocato (e non a un difensore d’ufficio, spesso alle prime armi) in molti casi è determinante per essere assolti. E poiché in molti Stati in caso di condanna ad oltre un anno di carcere si perde il diritto al voto, circa 1 afroamericano su 13 (oltre il 7,4%) non gode del diritto di voto contro una media di un cittadino su 40 della popolazione non afro.

Persino il coronavirus, che come ogni pandemia, colpisce indifferentemente le persone, ha avuto effetti più drammatici sulle comunità nere d’America: tra gli afroamericani, infatti, i morti sono tre volte quelli dei bianchi (ne abbiamo già parlato qui), perché soffrono più spesso di altre patologie e hanno minore accesso a diagnosi e trattamento. Persino quando riescono a consultare un medico, secondo le statistiche, i cittadini afroamericani hanno una probabilità maggiore che il loro quadro clinico venga sottostimato.

La diseguaglianza, ovviamente, tocca anche la sfera economica. Gli ultimi dati sulla crisi sono in linea con i dati degli ultimi anni, in cui il tasso di disoccupazione dei neri è mediamente il doppio di quello dei bianchi. Gli afroamericani, inoltre, sono concentrati nei settori di impiego a basso reddito e anche a parità di mansione sono pagati in media meno dei bianchi. Così, se il reddito medio di una famiglia bianca si aggira attorno ai 70mila dollari, quello di una famiglia nera si ferma a 40mila e la ricchezza netta delle famiglie afroamericane è in media dieci volte più bassa di quella di una famiglia bianca. E ancora, solo 4 neri su 10 sono proprietari della propria abitazione, contro i 7 bianchi su 10, e 1 nero su 5 è sotto la soglia di povertà, contro meno di 1 bianco su 10.

Anche tra i banchi di scuola, gli studenti neri tendono a ottenere risultati più bassi di quelli di altre etnie. In parte questo è a causa dei pregiudizi (consapevoli o meno) degli insegnanti e, mentre il 35% dei giovani bianchi ha almeno una laurea triennale, tra i neri la percentuale si ferma al 21%. Anche con una laurea, però, per un giovane nero è più difficile trovare lavoro, poiché secondo diversi studi, candidati con un nome tipicamente afroamericano hanno meno chance di essere chiamati per un colloquio.

Secondo l’ex presidente Obama, le proteste di questi giorni hanno messo evidenza l’esistenza di “sfide e problemi strutturali” nella società americana, contro i quali ha auspicato riforme a livello locale. Anche il candidato democratico in pectore Joe Biden ha dichiarato che è tempo che gli Usa facciano i conti con il proprio razzismo sistemico, facendo eco a dichiarazioni simili fatte da tutti e quattro gli ex presidenti ancora in vita. Chi non è intervenuto sull’argomento invece, è Donald Trump, che nei suoi discorsi e tweet di questi giorni si è concentrato invece sulla necessità di fermare le violenze e “i teppisti” che accompagnano le proteste. Il presidente ha minacciato anche di fare ricorso all’esercito, invocando l’Insurrection Act del 1807 - la legge che consente di impiegare le forze armate contro disordini e insurrezioni e che fu usata l'ultima volta proprio nel 1992 nei “riots” di Los Angeles.

 

Il personaggio

Alcune delle critiche più dure alla reazione di Trump alle proteste vengono proprio da qualcuno che, fino a due anni fa, ha fatto parte della sua amministrazione: il generale James Mattis, detto Jim, ex Segretario alla Difesa. In un editoriale per The Atlantic, Mattis ha rotto il silenzio che si era autoimposto dopo le dimissioni e ha scritto: “Donald Trump è il primo presidente nella mia vita che non prova a unire gli Americani – non fa nemmeno finta. Prova invece a dividerci”. Mattis arriva a ipotizzare che se Trump ordinasse alle truppe di schierarsi contro i cittadini, commetterebbe una violazione del giuramento alla Costituzione. Parole che pesano come macigni, quelle di Mattis e che rispecchiano quelle di altri generali e alti ranghi dell’esercito americano (tra cui l’attuale Segretario della Difesa Mark Esper), che si oppongono al ricorso dei militari contro le proteste che da una settimana infiammano l’America.

Classe 1950, Mattis cresce a Richland, Washington. Sua madre era stata una cifrista per l’esercito durante la Seconda Guerra Mondiale e suo padre ha prima lavorato nella marina mercantile e poi come ingegnere nucleare per una centrale del Manhattan Project. Subito dopo la laurea nel ‘72 Mattis si arruola nel corpo dei marines, seguendo le orme del fratello, reduce del Vietnam. Qualche anno dopo, Mattis chiede alla sua fidanzata Alice Gillis di sposarlo; la ragazza inizialmente accetta, a patto che Mattis lasci i marines, e Mattis sembra pronto a farlo. Quando i commilitoni di Mattis lo vengono a sapere, però, cercano di persuadere Alice a cambiare idea e la giovane alla fine decide di fare un passo indietro per non intralciare la carriera militare di Mattis. Per il resto della sua vita, Mattis non riuscirà a trovare un partner con cui immaginare una vita compatibile con il suo impegno militare. Questa vicenda, insieme ai suoi continui studi e letture su strategia e storia militare, unitamente ad una rigida disciplina e una limitata vita sociale contribuirà a procurargli uno dei suoi soprannomi più noti: “Warrior monk”, monaco guerriero.

E in effetti Mattis combatte: nella prima Guerra del Golfo, in Afghanistan e in Iraq, dove svolge un ruolo chiave nella battaglia di Falluja, uno degli episodi più sanguinosi del conflitto. Nel 2007 assume la guida del Joint Forces Command e del Comando supremo alleato della NATO e tre anni dopo viene promosso a capo dello US Central Command (Centcom), dal cui coordinamento dipendono tutte le operazioni militari statunitensi in Medio Oriente. Mattis si ritira dall’esercito nel 2013, diventando fellow della Hoover Institution ed entrando nel board di varie grandi aziende. Scrive anche due libri, l’ultimo dei quali è una autobiografia in cui Mattis traccia la sua visione di una politica estera USA incentrata sul multilateralismo e la collaborazione con gli alleati.

Agli occhi di Trump, Mattis è un uomo solido e affidabile (è un “generale dei generali”, dirà Trump) e per questo nel 2017 lo nomina Segretario alla Difesa. La nomina passa al senato con 98 voti a favore o solo 1 contrario a dimostrazione della stima di cui vanta anche tra i democratici che vedono in lui un uomo preparato e capace di tenere testa al “commander in chief” (il presidente). Ipotesi che si dimostra esatta quando, nel 2018, Mattis si dimette dopo la decisione di Trump di ritirare le truppe Usa dalla Siria.

Con la sua presa di posizione, “cane pazzo” – un altro famoso soprannome di Mattis – è subito stato definito dal presidente ”il generale più sopravvalutato del mondo”. Trump sa bene che le parole del generale Mattis rischiano di diventare un boomerang, non solo tra i militari: ieri, la senatrice repubblicana Lisa Murkowski ha ringraziato Mattis per le sue parole “vere, oneste, necessarie e dovute”, ammettendo di essere in seria difficoltà nel decidere se sostenere o meno Trump a novembre. Per i leader militari, tradizionalmente non schierati e tendenzialmente repubblicani, schierando le forze armate contro i manifestanti per la sua contestatissima passerella a Lafayette Square, lunedì, scorso il tycoon ha superato la linea rossa. I generali non sono disposti a pagare il conto della sua spregiudicata strategia elettorale, finalizzata ad assicurargli la rielezione alla Casa Bianca in novembre.

 

Politics on the rocks

Politici, artisti del mondo dello spettacolo e perfino poliziotti: in molti negli Stati Uniti sono stati ripresi negli ultimi giorni inginocchiati, in un gesto che è diventato un simbolo potente della lotta al razzismo e alle discriminazioni. Ma non tutti forse, sanno che quel gesto è nato su un campo da football americano e che il primo a farlo è stato un noto quarterback dei San Francisco 49ers di nome Colin Kaepernick.

Era il 2016 e Kaepernick prese ad inginocchiarsi prima delle partite, durante l'esecuzione dell'inno americano. Quel gesto fu notato e ai giornalisti, che gliene chiesero il significato, rispose: "Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera diun paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall'altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca". Più tardi avrebbe spiegato che il motivo della sua protesta fu ispirato dall'uccisione, nel dicembre del 2015, di un 26enne afroamericano, Mario Woods, a San Francisco, per mano della polizia: il giovane si rifiutò di gettare un piccolo coltello a serramanico, gli agenti gli spararono oltre 20 colpi di pistola.

La solitaria protesta di Kaepernick – che aveva portato la sua squadra al Super Bowl nel 2013 – ebbe delle conseguenze. La società rescisse il suo contratto e da allora lui non ha più trovato una squadra disposta ad ingaggiarlo. Nel febbraio 2019 ha raggiunto un accordo extra-giudiziale con la NFL, che il giocatore ha accusato più volte di averlo messo in una “lista nera” e di avergli impedito di trovare una squadra per via della sua protesta. 

L’azione di Kaepernick si è diffusa nel mondo del football e in generale dello sport americano, dopo che Trump nel 2017 ha criticato la NFL per non obbligare i giocatori a stare in piedi durante l’inno nazionale. La protesta ha anche convinto diversi artisti, del calibro di Rihanna, a rifiutare di cantare l’inno nazionale al Super Bowl in solidarietà con Kaepernick. 

Come ha scritto questa settimana Michael Rosenberg su Sports Illustrated: “Ad un certo punto l'America bianca e mainstream rivaluterà Kaepernick, così come ha rivalutato Muhammad Ali anni dopo il suo rifiuto di andare in Vietnam. Il progresso arriva a singhiozzo e questo paese tende a punire coloro che lo sollecitano ad accelerare il passo. Il riconoscimento di Kaepernick è iniziato. Oggi, sicuramente, ci sono ancora milioni di americani a cui lui non piace, o non gli piace quello che ha detto, cosa ha fatto o come appare. Ma ci sono sicuramente anche milioni di persone a cui lui non piaceva quattro anni fa e che oggi colgono le sue ragioni o, almeno, capiscono che Kaepernick e gli atleti che si sono inginocchiati con lui non vivevano su un’isola”.

 

Per saperne di più

If This Is Like 1968, Then Trump Is in Big Trouble

Joshua Zeitz, Politico

Becoming a Parent in the Age of Black Lives Matter

Clint Smith, The Atlantic

 

What’s next

- 73 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)

- 151 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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Paolo Magri
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