La Convention democratica incorona Biden. Che ha scelto Kamala Harris nel ticket per la presidenza. Intanto imperversa la polemica, stavolta sulle poste e sul voto a distanza.
What’s up?
È ufficiale. Joe Biden sarà lo sfidante del presidente uscente Donald Trump alle elezioni di novembre. Martedì alla Convention Democratica la nomina di Biden è stata ufficializzata dal voto dei delegati provenienti dai 50 stati USA; il consueto roll call - il voto per appello - si è tenuto però in formato digitale e i delegati hanno votato collegandosi ciascuno in diretta da un luogo rappresentativo del loro stato, mostrando così l’ampiezza e la diversità degli Stati Uniti e aggiungendo una nota di folklore e diversità a una procedura che in tempi normali sarebbe stata invece piuttosto noiosa.
Dalla Convention è uscito un messaggio compatto: l’America va salvata da Trump. L’opposizione al presidente è diventata quindi il collante che ha unito le varie anime del partito, una questione da cui sembrano dipendere la sopravvivenza stessa del paese e le vite dei suoi cittadini.
Uno degli interventi più attesi della prima serata è stato quello di Michelle Obama, che ha definito Trump un presidente inadatto a ricoprire il proprio ruolo. “It is what it is” ha detto Obama, “le cose stanno così”, rigirando contro Trump le stesse parole che lui aveva usato giorni fa per ridimensionare le proprie responsabilità di fronte all’emergenza sanitaria da coronavirus. La prima serata ha visto anche il discorso dell’altro favorito nella corsa alla nomination democratica, poi sconfitto da Biden: il senatore del Vermont Bernie Sanders. Da leader dell’ala più progressista e di sinistra del partito, Sanders ha invitato i suoi a non vanificare il loro lavoro degli ultimi anni, sostenendo Biden per “salvare la democrazia”. A testimoniare quanto le elezioni di novembre stiano prendendo la forma di un referendum sul presidente uscente, alla convention democratica sono anche intervenuti alcuni esponenti repubblicani anti-Trump, che hanno sottolineato la capacità di Biden - come senatore e vicepresidente - di creare ponti tra i due partiti USA per portare a casa importanti risultati.
La seconda serata ha visto, tra gli altri, il discorso di Jill Biden, la moglie del candidato designato, che ha ricordato la tragica storia familiare del marito e sottolineato come le stesse qualità che servono a risollevare una famiglia siano le stesse che servano a far ripartire una nazione. Voci di protesta si sono invece levate dopo l’intervento di Alexandria Ocasio Cortez, leader della nuova generazione di progressisti dem entrati al Congresso alle midterm del 2018, alla quale sono stati concessi soltanto 90 secondi per parlare.
Mercoledì sera è stato poi il turno della neo nominata vicepresidente Kamala Harris. Harris, prima donna nera a candidarsi a tale incarico per uno dei due grandi partiti USA, ha passato in rassegna le tappe chiave della propria vita di figlia di immigrati e ha attaccato Trump, suggerendo che sia un “predatore” (termine che si applica anche agli autori di violenza sessuale). Altro big della terza serata è stato l’ex presidente Barack Obama, che ha tenuto quello che molti hanno definito uno dei discorsi più duri fatto da un ex presidente a un suo successore.
Infine, come gran finale della quarta e ultima serata della Convention dem c’è stato il discorso di Joe Biden. Accettando la nomina a presidente, Biden ha promesso che chiuderà “questa stagione delle tenebre”. Un discorso acclamato da molti - non solo da sinistra - e definito di gran lunga il più bello dei suoi 50 anni di carriera. Durante tutti i 25 minuti, Biden non ha mai fatto il nome di Trump e si è riferito a lui solo come “il presidente attuale”; quattro anni fa Clinton aveva invece nominato il suo avversario ben 22 volte nel suo discorso alla Convention. Un cambio di stile rispetto al resto delle serate, che mostra il tentativo dell'ex vicepresidente di proiettarsi verso il futuro.
Martedì sera, primo giorno di Convention, i delegati hanno anche votato per la piattaforma del partito, il documento che dovrebbe segnare la rotta di una eventuale presidenza democratica. Documento che però ha suscitato anche qualche polemica: non include infatti il progetto di lavorare per un Medicare for all, come invece avrebbero voluto i democratici più progressisti. Nel complesso però il risultato è stato accettato dalla maggioranza dei rappresentanti, che hanno trovato un terreno comune che unisce le due ali del partito.
Mentre il congresso democratico si svolgeva in formato digitale, l’inquilino della Casa Bianca lasciava invece Pennsylvania Avenue per un tour elettorale decisamente più analogico, tenendo comizi in alcuni dei principali stati in bilico (Wisconsin, Minnesota, Arizona e Pennsylvania). Nel tentativo di distogliere l’attenzione dei media dalla convention democratica, Trump ha radunato i suoi sostenitori - molto poco mascherati e tendenzialmente incuranti del distanziamento sociale - rilanciando i cavalli di battaglia che l’hanno portato alla vittoria quattro anni fa: controllo dell’immigrazione e rilancio dell’economia.
Per il resto, questa non è stata una settimana facile per Trump. Lo scorso weekend, il presidente ha perso il fratello Robert, morto a 71 anni dopo mesi di malattia. Martedì il Comitato di Intelligence del Senato ha poi rilasciato il quinto e ultimo rapporto sulle interferenze russe durante l’elezione del 2016, in cui vengono descritti nuovi dettagli dei contatti tra lo staff del presidente e emissari del Cremlino. Giovedì è arrivata infine la notizia dell’arresto di Steve Bannon, l’ex consigliere del presidente considerato l’artefice del successo della sua campagna elettorale del 2016, accusato di essersi appropriato indebitamente di buona parte dei 25 milioni di dollari originariamente raccolti per finanziare la costruzione del muro promesso da Trump al confine con il Messico. E ancora, sempre giovedì, un giudice federale ha ribadito che Trump dovrà presentare al procuratore di Manhattan le proprie dichiarazioni dei redditi, come già aveva stabilito la Corte Suprema.
In our view
Il commento di Giovanni Borgognone, professore Università di Torino
La convention democratica e gli “spregevoli” elettori di Trump
La convention democratica “virtuale” di Milwaukee, nonostante a tratti sia sembrata una versione politica dello spettacolo degli Oscar, ha suscitato giudizi nel complesso molto favorevoli da parte delle più autorevoli testate giornalistiche statunitensi. Con il conforto dei sondaggi che vedono il candidato democratico Joe Biden in vantaggio sul presidente in carica, giornali e televisioni di orientamento democratico hanno generalmente esaltato il significato dell’evento, nel quale i diversi volti del Partito, espressioni delle sue molteplici anime, da Bernie Sanders a Kamala Harris, dai coniugi Clinton agli Obama, si sono uniti in coro contro Donald Trump, evidenziando i suoi fallimenti nella gestione dell’emergenza sanitaria e richiamando gli elettori alla consapevolezza che la democrazia americana è in pericolo di fronte alle inclinazioni autoritarie dell’attuale presidente.
I temi caldi
L’accesissimo scontro politico tra chi sostiene il presidente Trump e chi si schiera con lo sfidante Biden non ha risparmiato nemmeno una istituzione che, a prima vista, non potrebbe apparire più neutrale di così: le poste. Negli ultimi mesi, lo United States Postal Service (USPS), l’agenzia federale che si occupa del servizio postale negli USA, è finita nel mirino del presidente, che ha deciso di riformare il servizio postale per limitare le perdite nel bilancio dell’agenzia. A maggio, Trump ha nominato come Direttore generale Louis DeJoy, un importante donatore del partito repubblicano. Per ridurre le uscite, DeJoy ha vietato gli straordinari, licenziato o riassegnato alcuni alti dirigenti e iniziato a dismettere il 10% dei macchinari che separano la posta, fondamentali per velocizzare il processo di smistamento di lettere e pacchi. Il risultato è stato l’accumulo di molta posta arretrata, un fatto che ha preoccupato molti in vista delle elezioni di novembre.
La questione è fondamentale, dato che le elezioni di quest’anno si terranno con tutta probabilità in un paese ancora sotto la morsa del coronavirus. In molti si attendono dunque un record nell’utilizzo del voto postale, già permesso in molti stati (come spieghiamo sotto). A fine luglio, però, le poste hanno inviato lettere a 46 stati e al District of Columbia spiegando che non potranno garantire che i voti via posta arrivino in tempo per essere contati. Nelle lettere, lo USPS chiede che le scadenze dei vari passaggi del voto via posta siano modificate per adattarsi alla nuova situazione, o che agli elettori sia concesso di iniziare a votare prima.
Tutto ciò non ha fatto altro che aumentare le preoccupazioni dei democratici, che vedono nelle decisioni della Casa Bianca un tentativo di depotenziare le poste alla vigilia del voto. In effetti Trump si è espresso più volte contro la possibilità di votare via posta, cosa che secondo il presidente finirebbe per provocare una elezione fraudolenta - una tesi che però non trova dati a sostegno. Il presidente è addirittura arrivato a sostenere che potrebbe non riconoscere il risultato di elezioni in cui il voto via posta sia determinante per l’esito. Così è stato lo stesso presidente che giovedì scorso ha spiegato candidamente in un’intervista di stare cercando di bloccare l’arrivo di fondi allo USPS proprio per limitare la possibilità di molti elettori di ricorrere al voto per posta.
Visti gli attacchi di Trump contro il voto postale, i suoi avversari si sono mobilitati alla ricerca di metodi alternativi. Un’ipotesi è quella di ricorrere a “drop boxes”, una sorta di punti di raccolta dove gli elettori possono imbucare le proprie schede elettorali ricevute via posta in attesa che siano ritirate dalle autorità. Oggi il Congresso avrà la prima occasione per chiedere chiarimenti sulla situazione. Davanti a Camera e Senato, DeJoy dovrà infatti rispondere ad alcune domande riguardo i suoi presunti conflitti di interesse in qualità di azionista di un’azienda che riceve appalti dallo USPS, oltre a spiegare come il servizio postale si sta attrezzando per il voto di novembre. Su questo, come da attese, il Congresso è diviso: mentre i repubblicani sostengono che lo USPS abbia fondi sufficienti per lavorare, la maggioranza democratica alla Camera voterà sabato per un finanziamento straordinario di $25 miliardi per garantire il buon funzionamento delle poste e bloccare qualsiasi riforma dello USPS fino al 2021. Intanto, negli ultimi giorni oltre 20 stati rappresentati da procuratori generali dem hanno reso noto il loro piano di denunciare DeJoy e lo USPS per le riforme che hanno fatto ritardare le consegne e rischiano di intralciare la buona riuscita delle elezioni di novembre.
La pressione dei dem sembra aver dato i suoi frutti: martedì, a meno di una settimana dalla conferma di Trump dei tagli allo USPS, DeJoy ha infatti contraddetto il presidente spiegando che non ci saranno riduzioni di budget fino alle elezioni. Una decisione che molto probabilmente verrà vista con favore dai cittadini americani - tanto democratici quanto repubblicani - che per oltre l’80% si dicono favorevoli al servizio postale, a cui si appoggiano non solo per votare in sicurezza durante la pandemia ma anche semplicemente per ritirare pensioni, ricette mediche e scambiarsi lettere e pacchi.
In numeri
Negli Stati Uniti esistono due principali sistemi di voto a distanza: “absentee voting” (voto in assenza), per chi non riesce a recarsi alle urne, e “vote by mail” (voto via posta), aperto a tutti i cittadini. In tutti 50 stati esiste qualche forma di “absentee voting”, seppure con modalità differenti: in alcuni si può votare in assenza senza il bisogno di alcuna giustificazione, in altri invece si può richiedere la scheda elettorale a casa solo se si ha un motivo considerato “valido”. Gli stati che invece tradizionalmente utilizzano un sistema di voto via posta aperto a tutti i cittadini sono solo cinque.
Trump ha fortemente attaccato il voto via posta, ma si è invece espresso a favore del voto in assenza, che lui stessa utilizza, dichiarando che quest’ultima è una procedura meno vulnerabile a possibili frodi. In molti hanno però spiegato che i due sistemi sono molto simili e, soprattutto, che in entrambi i casi le possibilità di corruzione sono minime. Nonostante la guerra senza quartiere del presidente contro il voto via posta, la maggior parte dei governatori - e non solo - preferisce non correre il rischio di creare code e assembramenti ai seggi durante un’emergenza sanitaria. Dall’inizio della pandemia, 20 stati (più il District of Columbia) hanno quindi deciso di estendere la possibilità di accedere al voto via posta in vista di novembre.
Saranno in tutto 44 stati, insieme a Washington DC, a permettere ai cittadini di votare via posta a novembre. Tra questi, in nove stati e nel District of Columbia la scheda elettorale sarà recapitata automaticamente a casa degli elettori. Nove stati invieranno invece a domicilio il modulo per richiedere il voto postale. In altri 26 stati saranno invece i cittadini stessi a dover inoltrare una richiesta specifica per poter votare via posta, in alcuni casi senza bisogno di dare una giustificazione per non recarsi ai seggi, in altri indicando il coronavirus come motivo della richiesta. Rimangono fuori ancora sei stati (alcuni dei quali molto popolosi, come il Texas) in cui il coronavirus non viene considerato un motivo sufficiente perché gli elettori non si presentino di persona ai seggi. La situazione, però, è ancora in evoluzione ed è probabile che altri stati si aggiungano alla lista di chi ha messo in campo misure straordinarie per facilitare il voto via posta o in assenza.
Nel complesso, il prossimo 3 novembre ad avere la possibilità di votare via posta saranno oltre 190 milioni di americani, più di quattro quinti degli elettori registrati (l’83%). Secondo le previsioni degli esperti, saranno 80 milioni di persone quelle che alla fine ricorreranno al voto postale, più del doppio di quanti hanno usato le poste per votare nel 2016 (33 milioni): un record con però alle spalle una tendenza ormai chiara da anni, che vede sempre più elettori preferire il voto postale a quello al seggio e sempre più stati concedere ai propri cittadini tale possibilità.
Secondo la US Election Assistance Commission, infatti, il numero di elettori che ogni quattro anni si reca ai seggi per votare è andato calando negli ultimi anni, mentre quelli che hanno fatto ricorso al voto via posta o al voto “in assenza” è aumentato decisamente: dai 14,7 milioni di elettori alle presidenziali del 2004 fino ai 33,1 milioni delle presidenziali del 2016. Sommando questi numeri a quelli di chi ha votato tramite “voto anticipato”, che permette di votare prima dell’Election Day (erano 10,2 milioni nel 2004, diventati 24,1 milioni nel 2016), le schede elettorali di chi ha votato via posta, in assenza o per voto anticipato rappresentano ormai circa due quinti dei voti totali. Vista anche la crescente preferenza mostrata negli ultimi anni dagli elettori verso il voto per posta, non è da escludere che le nuove politiche introdotte per far fronte al coronavirus possano poi rimanere in vigore anche in futuro.
Il candidato
Da mercoledì, Kamala Harris è ufficialmente la candidata democratica per la carica di vicepresidente USA. La settimana scorsa, Joe Biden aveva fatto sapere che il suo team aveva individuato in Harris, senatrice 55enne, il suo “running mate”. Una scelta storica da un lato, ma anche molto convenzionale (e infatti prevista da molti). Storica perchè Harris, figlia di padre giamaicano e madre indiana, è la prima donna nera a essere candidata come vicepresidente da uno dei due principali partiti americani (la prima donna nera candidata alla vicepresidenza era stata Charlotta Bass nel 1952 per il Progressive Party, 12 anni prima delle leggi per i diritti civili) e la prima asiatica a correre per tale carica. Non a caso, il nome in codice che Harris ha scelto dopo essere stata messa sotto protezione dei servizi segreti la settimana scorsa è “Pioneer”, pioniera.
Dall’altro lato, però, la nomina di Harris è stata una scelta poco sorprendente. Proprio durante l’ondata di proteste per la morte di George Floyd, la pressione era aumentata su Biden - 77enne bianco e moderato - affinché scegliesse come vicepresidente una donna non bianca; in questo senso, Harris sembrava ben rappresentare molti gruppi minoritari. La scelta di Harris è stata convenzionale anche rispetto al suo profilo di vicepresidente: forte di una lunga esperienza di procuratrice (che le ha affinato le doti oratorie) e di una elezione al Senato, Harris si presenta come una candidata più giovane di Biden ma comunque esperta, già testata sulla scena pubblica e in ruoli di responsabilità e, ultimo ma non meno importante, sulla quale non ci si attende escano allo scoperto segreti imbarazzanti.
C’è comunque grande dibattito intorno alla collocazione politica di Harris. Per alcuni la senatrice ha un profilo relativamente moderato, per altri è invece una voce decisamente progressista. Certo è che la candidata vicepresidente si colloca più a sinistra di Biden - come fatto notare dallo stesso Trump, il quale ha ricordato che nel 2019 la senatrice era stata indicata come la più progressista dell’anno in base alle dichiarazioni di voto. Allargando lo sguardo agli ultimi anni, però, la posizione di Harris si riavvicina al centro dello spettro politico. L’immagine da ultra-progressista di Harris viene anche ridimensionata guardando ad alcuni capitoli della sua vita da procuratrice: nel 2015 si oppose a una indagine indipendente contro dei poliziotti accusati di omicidio, così come alla proposta che fossero obbligati a indossare una telecamera. L’anno precedente si era espressa contro la sentenza di un giudice secondo cui la pena di morte era incostituzionale. Molte di queste posizioni sono poi cambiate negli anni (è stata Harris a presentare la proposta di legge per la riforma della polizia dopo le proteste Black Lives Matter), ma il quadro resta comunque sfumato. Ultimo esempio è la proposta di Medicare for All: inizialmente Harris si era detta a favore del progetto, ma nel suo programma presidenziale ha poi presentato una proposta di riforma sanitaria che mantiene un ruolo - seppur minimo - per le assicurazioni private.
Per quanto, alla fine, il programma elettorale sarà quello del presidente, la candidatura di Harris rappresenta comunque un ponte tra i rappresentanti più anziani e tendenzialmente moderati dei democratici e la nuova generazione, più progressista e attenta a equità sociale e inclusione. Considerando che Biden, vista l’età, difficilmente si candiderà per un eventuale secondo mandato nel 2024, Harris sembra ben posizionata per raccoglierne il testimone alla guida di un partito democratico dalla nuova sensibilità.
Politics on the rocks
Come accade per tutti i principali candidati presidenti e vicepresidenti, la settimana scorsa Kamala Harris è stata messa sotto la protezione dello United States Secret Service. Contrariamente a quanto suggerisce il nome, il Secret Service non è una agenzia di intelligence, bensì il corpo incaricato di garantire la sicurezza del presidente, di altre figure istituzionali e dei loro familiari. Insieme a Harris e Biden sono così protetti dai servizi segreti anche il presidente Trump, il vicepresidente Pence e le loro famiglie, gli ex presidenti e i capi di stato in visita alla Casa Bianca.
Consuetudine vuole che chi viene messo sotto protezione possa scegliere il nome in codice che il Secret Service userà per identificarlo da una lista di nomi approvata dall'Agenzia di comunicazione della Casa Bianca. Seppure i nomi siano in codice e dovrebbero quindi essere segreti, oggigiorno i nomi vengono quasi subito fatti trapelare al pubblico - cosa che comunque, grazie alle nuove tecnologie, non pone particolari problemi al Secret Service. Il nome scelto spesso rimanda all’identità, le passioni o le aspirazioni del politico in questione. Kamala Harris ha scelto per se stessa il nome “Pioneer” (pioniera) che sembra riferirsi alle tante “prime volte” che la sua candidatura rappresenta: prima candidata vicepresidente nera per uno dei due grandi partiti USA e prima asiatica in corsa per la vicepresidenza in assoluto, oltre che essere stata prima procuratrice donna e nera di San Francisco e successivamente della California.
In quanto ex vicepresidente, Biden ha invece già un proprio nome in codice: “Celtic”, in riferimento alle sue origini irlandesi. La moglie Jill, di ascendenza italo-americana, è invece “Capri”, secondo un’altra regola del Secret Service per cui tutti i famigliari devono utilizzare nomi in codice che iniziano con la stessa lettera. Così, la famiglia Obama aveva scelto la “r”: il presidente Barack era “Renegade”, (rinnegato), la moglie Michelle era “Renaissance” (rinascimento), le figlie Sasha e Malia erano “Rosebud” e “Radiance” (bocciolo di rosa e splendore). Per gli attuali inquilini della Casa Bianca, invece, la lettera è stata la “m”: Melania è “Muse” (musa), la figlia Ivanka è “Marvel” (prodigio) e il presidente Donald è, forse poco fantasiosamente, “Mogul” (magnate).
Per saperne di più
Susan B. Glasser, The New Yorker
5 Myths About the Postal Crisis
Kevin R. Kosar, Politico
What’s next
- 3 giorni alla Convention repubblicana (24 agosto 2020)
- 74 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)