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Weekly Focus n.28

Weekly Focus USA2020: Complotto contro l'America?

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
25 settembre 2020

Donald Trump prevede che il voto finirà “alla Corte Suprema” e non garantisce il suo impegno per una transizione pacifica dei poteri in caso di sconfitta. Martedì il primo dibattito tv con lo sfidante Joe Biden.

 

What’s up? 

Avere nove giudici in carica e non otto, sarà importante perché “di sicuro il voto finirà davanti alla Corte Suprema”. Le parole di Donald Trump non lasciano dubbi: come più volte ipotizzato, lasciato intendere, pronunciato a mezza bocca nei suoi discorsi, il presidente non intende riconoscere un esito del voto che lo dovesse vedere sconfitto e si prepara a dare battaglia. E non è tutto: a chi gli chiedeva di garantire una transizione pacifica dei poteri in caso di sconfitta, Trump ha risposto con un laconico “vedremo”.

Come al solito le parole del presidente hanno scatenato una marea di reazioni, critiche, prese di distanza anche da parte di alcuni repubblicani e polemiche. La transizione pacifica del potere “è fondamentale per la democrazia”, ha scritto in un tweet il senatore Mitt Romney, che ha però assicurato il suo appoggio per la nomina della nuova giudice. “Senza, è la Bielorussia”.

Ma perché in tanti si sono convinti, o comunque temono che Trump non riconosca il risultato elettorale? Intanto perché lo ha detto, “l’unico modo in cui possono farci perdere quest’elezione è truccarla” e poi perché lo ha già fatto. Nel 2016 ha più volte contestato il fatto di aver perso il voto popolare contro Hillary Clinton e di aver vinto ‘solo’ grazie al voto del collegio elettorale, un sistema distorto che sovrarappresenta gli stati rurali e conservatori, a danno delle città e delle minoranze etniche. Inoltre, sono settimane che il presidente agita lo spettro di elezioni truccate, scagliandosi soprattutto contro il voto per posta, che quest’anno l’emergenza Covid renderà più che mai indispensabile in un paese che ha superato i 7 milioni di contagi e le 202mila vittime. 

Ma c’è dell’altro. Man mano che si avvicina la data del voto, sembra sempre più chiaro che il rischio imminente non è che un Trump sconfitto si rifiuti di lasciare la Casa Bianca. In quel caso, come aveva rassicurato Joe Biden, “i militari lo scorteranno fuori”. Il rischio è che Trump usi i suoi poteri presidenziali per ‘avvelenare i pozzi’ dell’interregno che separa il giorno del voto (3 novembre) da quello dell’insediamento (20 gennaio) insinuando che il risultato delle elezioni non è attendibile. Abbiamo già analizzato lo scenario in cui – come ipotizza una società tecnologica vicino ai dem – la notte dell’elezione si verifichi il cosiddetto ‘miraggio rosso’. In quel caso Donald Trump potrebbe approfittare dell’iniziale vantaggio per proclamare la sua vittoria e, successivamente, rifiutarsi di riconoscere un risultato definitivo di segno opposto.

Non è uno scenario così assurdo. Come accadde nel 2000, nelle elezioni Bush-Al Gore inizierebbe una battaglia legale infinita e senza esclusione di colpi in cui l’orientamento politico dei giudici in tribunale (e alla Corte Suprema!) diventerebbe determinante. A differenza delle elezioni del 2000, inoltre – come spiega Barton Gellmann su The Atlantic – gli avvocati della parte repubblicana saprebbero con un minimo margine di errore di quali voti chiedere la conferma e per quali chiedere l’annullamento. I voti postali! Secondo i sondaggi infatti i continui riferimenti di Trump ai possibili brogli del voto per posta, spingeranno in buona parte gli elettori repubblicani a votare di persona. La stragrande maggioranza dei voti postali sarà quindi a favore dei dem.

Gellmann porta più di un episodio a sostegno della sua teoria e ricorda che nelle elezioni di mid-term del 2018, dopo un serrato testa a testa, i candidati repubblicani in Florida avevano visto ridurre l’iniziale vantaggio nei conteggi, di diverse migliaia di voti. Al sesto giorno dal voto Trump twittò: “Le elezioni in Florida dovrebbero essere chiamate a favore di Rick Scott e Ron DeSantis in quanto un gran numero di nuove schede sono spuntate dal nulla, e molte schede sono mancanti o contraffatte. Un conteggio dei voti onesto non è più possibile”. Quella che nel 2018 fu una reazione istintiva, potrebbe diventare la sua strategia per le presidenziali. Soprattutto se si tiene conto del fatto che la notte delle elezioni c’è grande aspettativa per conoscere i nomi di chi ha vinto e chi ha perso.

Ce n’è abbastanza per farsi venire i brividi, senza considerare in quale contesto tutto ciò potrebbe verificarsi: nelle strade americane si è tornato a manifestare dopo che un gran giurì ha deciso di non incriminare nessun agente per la morte di Breonna Taylor, la 26enne afroamericana uccisa durante un raid della polizia nel suo appartamento lo scorso marzo. L’unica accusa formulata – a carico un agente già sospeso dal servizio – è quella di condotta pericolosa. A Louisville, in Kentucky, scontri con la polizia hanno portato al ferimento di due agenti e diversi arresti. 

Intanto, è atteso per martedì 29 settembre il primo duello televisivo tra i due candidati alla presidenza. Inizia la stagione del panico per i democratici, e quasi tutti sono nervosi. Temono che Biden combini pasticci, si incarti, tiri fuori delle espressioni buffe delle sue che la propaganda repubblicana rimanderebbe in loop sui social over and over again… E se l’ex vice di Obama deve stare attento a non incespicare nelle parole e a tenersi stretto alcuni stati chiave come la Florida e l'Arizona, per Trump suona il campanello d'allarme in Texas, Georgia e Iowa. Secondo l'ultimo sondaggio condotto dal Siena College per il New York Times, in Texas e Iowa il presidente americano è in vantaggio di soli tre punti. In Georgia è un vero e proprio testa a testa, con entrambi i candidati al 45%. 

 

I temi caldi 

In poche ore, la campagna elettorale USA ha preso l’ennesima svolta. Dopo la morte il 18 settembre di Ruth Bader Ginsburg, è iniziata la corsa per sostituire il suo posto alla Corte Suprema. Trump ha annunciato che comunicherà la sua nomina domani: in pole ci sono Amy Coney Barrett, madre di sette figli cattolica integralista, pro-vita e anti-aborto, e Barbara Lagoa, giudice della Florida e figlia di esuli cubani che potrebbe dare a Trump la spinta decisiva nel duello elettorale che si profila nello stato e che – secondo i sondaggi – si deciderà sul filo di lana.

Fino alla morte di Bader Ginsburg, la Corte Suprema vedeva 5 giudici di nomina repubblicana, 4 di nomina democratica. Ora siamo 5 a 3, con la possibilità per Trump di nominare un sesto giudice conservatore e portare l’orientamento generale della Corte molto più a destra e per molto tempo. Da sempre, il potere del presidente di nominare i giudici federali e del Senato di confermarli è uno dei temi elettorali che più sta a cuore ai cittadini americani. Trump ne è ben consapevole. Nel 2016, molti conservatori avevano votato per lui, seppur non convinti solo perché speravano in una Corte conservatrice. Per qualcuno il ragionamento si ripeterà alle presidenziali di quest’anno. Inoltre, per il presidente, desideroso di spostare l’attenzione degli elettori da coronavirus, proteste, incendi e disoccupazione, il posto vacante nel massimo organismo giudiziario americano è l’occasione giusta. La nomina sembra anche aver ricompattato il partito repubblicano: solo due senatori rep finora hanno detto che si opporrebbero a confermare un giudice supremo così a ridosso delle elezioni (Mitt Romney, che aveva votato a favore dell’impeachment di Trump a febbraio, si è invece detto favorevole). 

La questione diventa ancora più rilevante se si considera che, negli ultimi mesi, ci sono stati diversi casi in cui alcuni giudici conservatori, tra cui il Chief Justice John Roberts, avevano votato insieme ai colleghi di area liberal in decisioni indigeste per i conservatori: ad esempio il rilascio delle dichiarazioni dei redditi di Trump al procuratori di Manhattan e l’estensione della protezione contro le discriminazioni di genere sul lavoro alle persone LGBTQ+. Nominare ora un giudice fortemente conservatore renderebbe meno probabile che situazioni simili si ripetano in futuro. Uno dei temi chiave su cui si esprimerebbe la nuova corte, inoltre, sarà l’aborto e i democratici temono che possa venire annullata la sentenza Roe vs Wade del 1973 che garantisce questo diritto.

Dal canto loro, i democratici cercano ovviamente di evitare che Trump possa nominare un nuovo giudice supremo. Citano le ultime volontà di Bader Ginsburg (“il mio più ardente desiderio è di non essere sostituita prima che ci sia un nuovo presidente”) e accusano i repubblicani di ipocrisia: fanno riferimento al 2016, quando Obama tentò (fallendo) di rimpiazzare un giudice supremo poco prima delle elezioni e i repubblicani si opposero dicendo che non è opportuno nominare giudici alla Corte Suprema in un anno elettorale. Per questo tra i Democratici è tornata improvvisamente in voga l’espressione ‘Packing the Court’ : nell’ipotesi in cui vincessero presidenza e Senato, aggiungerebbero nuovi giudici alla Corte, un atto permesso dalla Costituzione ma mai accaduto di recente e che non convince molti degli stessi dem che temono per l’indipendenza della Corte. 

La partita è aperta. Se venisse confermato un sostituto prima di novembre, sarebbe la nomina più vicina alle elezioni di sempre. Il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, non ha ancora chiarito se il partito punti a confermare il giudice prima o dopo le elezioni. Un voto prima di novembre blinderebbe la nomina; confermarla dopo le elezioni, invece, darebbe agli elettori conservatori un incentivo per votare repubblicano. A rendere possibile questo secondo scenario, dando al presidente un’opzione in più, è il fatto che il Senato attuale resta in carica fino al 3 gennaio. Così, se anche i repubblicani dovessero perdere la maggioranza alla Camera alta nelle elezioni di novembre, il presidente e il suo partito avrebbero ancora due mesi di tempo per provare a chiudere la partita.

 

Il personaggio

Cosa ci fai qui, a occupare il posto di un uomo? È questa la domanda, rivoltale dal preside della Harvard Law School al primo anno di corso, che perseguiterà Ruth Bader Ginsburg per tutta la vita. Una domanda a cui lei ha risposto con i fatti: da attivista per l’uguaglianza di genere prima e da giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti poi, Bader Ginsburg ha dimostrato, come amava ripetere, che “il posto delle donne è là dove si prendono le decisioni”. La sua morte a 87 anni il 18 settembre 2020, poche settimane prima delle presidenziali USA, apre ora una battaglia tra il presidente Donald Trump e i democratici per la nomina di un suo successore al più alto tribunale degli Stati Uniti.

Figlia della “Grande Mela” Ruth Bader Ginsburg nasce a Brooklyn nel 1933 da genitori ebrei immigrati negli Stati Uniti da Ucraina e Polonia. La madre Celia era stata un’ottima studente al liceo, ma non aveva potuto continuare gli studi perché i genitori avevano deciso di investire sull’istruzione universitaria del fratello. Determinata a garantire un futuro diverso alla figlia, Celia spinge così Ruth a studiare e la sostiene fino alla fine: morirà di cancro il giorno prima che la figlia si diplomi. La sua scomparsa però diventa un ulteriore sprone per Ruth a continuare gli studi, che proseguono alla Cornell University dove si laurea in scienze politiche nel 1954. Nel campus dell’ateneo, nel frattempo, Ruth conosce Martin Ginsburg, che sposa un mese dopo la laurea. Diventata così Bader Ginsburg, segue il marito in Oklahoma per il suo servizio militare e trova impiego nella pubblica amministrazione dello stato. È qui che rimasta incinta della prima figlia, il suo ufficio la rimuove dalla posizione, demansionandola.

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Politics on the rocks

Ci vorrebbero più candidati verdi in questa campagna elettorale. Un sogno dei più progressisti? In realtà è un desiderio dei repubblicani. Secondo l’inchiesta del New York Times, persone vicine al partito repubblicano avrebbero aiutato il candidato verde Howie Hawkins a tentare di registrare il proprio nome sulle schede elettorali di alcuni stati chiave come Wisconsin, Pennsylvania e Montana.

Quella del partito repubblicano non è un’inversione di orientamento dell’ultimo minuto, ma piuttosto una strategia elettorale pensata con cura. Anche se le presidenziali americane si giocano quasi sempre tra i candidati dei due principali partiti, anche candidati di altri schieramenti, come quello libertario e quello verde, possono essere votati. Inoltre, si può diventare un candidato presidenziale anche correndo come indipendenti o come candidato “write-in”, eleggibile se si scrive il suo nome sulla scheda elettorale. Se difficilmente questi candidati arriveranno alla vittoria, possono però erodere voti ai due contendenti favoriti.

È quello che è accaduto nel 2016: nei tre stati che consegnarono la vittoria a Trump, Wisconsin, Pennsylvania e Michigan, i voti ottenuti dalla candidata verde Jill Stein erano più della differenza di voti tra il presidente e Hillary Clinton. E non di poco: in Michigan, Trump ha battuto Clinton per meno di 11mila voti, mentre Stein ne ha ottenuti 51mila e il libertario Gary Johnson ben 172mila. Nel 2000, anno della sfida strettissima tra Bush e Al Gore e del dibattuto riconteggio in Florida, il primo vinse proprio nello Golden State con un margine di soli 600 voti sul democratico, mentre i verdi ottennero ben 97mila voti. È proprio per aumentare il numero di “disturbatori” di Biden, dunque, che i repubblicani hanno tentato di aiutare Hawkins a lanciare la sua candidatura in alcuni swing states determinanti per l’esito di novembre.

Ma la strategia, già utilizzata diverse volte in passato, quest’anno, non risulta altrettanto efficace. Nonostante gli sforzi repubblicani, infatti, il nome Hawkins non sarà presente né sulle schede del Wisconsin, né su quelle della Pennsylvania, a causa di alcuni vizi procedurali. Se quindi nel 2016 la candidata verde compariva sulle schede elettorali di 44 stati, in queste elezioni i verdi compariranno solo in 28. Anche Kanye West, candidato indipendente (anche se grande fan di Trump) la cui elezione i dem accusano sia un modo per prendere voti a Biden, sarà presente sulle schede elettorali di solo 11 stati.

Infine, ci sono altre due ultime differenze tra le elezioni di quest’anno e quelle del 2016 che non vanno sottovalutate. Quattro anni fa, né Hillary Clinton né Donald Trump convincevano al 100% l’elettorato del proprio partito. Quest’anno, invece, Biden sembra piacere a più democratici, complice il fatto che quattro anni fa una presidenza Trump era solo un’ipotesi, mentre ora è una realtà. I progressisti vorranno rischiare con un voto di protesta per un candidato che si sa non riceverà la maggioranza? Come ormai sono in molti a sostenere, è più probabile che l’elezione del 2020 diventi invece un referendum su Trump.

 

Per saperne di più

Can Democrats Stop the Nomination?

Molly Reynolds e Benjamin Wittes, The Atlantic

The Legal Fight Awaiting Us After the Election

Jeffrey Toobin, The New Yorker

 

What’s next

- 4 giorni al primo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden (29 settembre 2020)

- 12 giorni al dibattito tra Mike Pence e Kamala Harris (7 ottobre)

- 37 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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