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Weekly Focus n.26

Weekly Focus USA2020: Crepuscolo americano

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
11 settembre 2020

11 settembre 2020: a diciannove anni dall'attentato contro le Torri Gemelle un’ondata di incendi sta devastando California, Oregon e altri stati della West Coast, mentre nel pieno della campagna elettorale i due candidati alla Casa Bianca si contendono gli stati in bilico che decideranno l’esito del voto.

 

What’s up?

“Non volevo scatenare il panico”: così Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti d’America, si è giustificato per aver minimizzato la minaccia del nuovo Coronavirus, pur avendo saputo con settimane di anticipo quanto fosse pericoloso, altamente contagioso e “molto più fatale di una forte influenza”. A procurare nuovi grattacapi all’inquilino della Casa Bianca – mentre gli Stati Uniti superano i sei milioni di contagi e si avvicinano ai 200mila morti – è ‘Rage’ l’ultimo libro pieno di rivelazioni ‘scottanti’ sul presidente, dopo quelli della nipote Mary, del suo avvocato Michael Cohen e dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Il problema è che a firmarlo e Bob Woodward, forse il giornalista più famoso al mondo, autore con Carl Bernstein dell’inchiesta sul Watergate che portò alle dimissioni di Nixon. Nell’ambiente, insomma, una leggenda. E Woodward racconta con dovizia di particolari che in una telefonata (registrata) il presidente gli confessò che la situazione era molto più grave di quella che lui andava descrivendo pubblicamente. Rivelazioni che, come è immaginabile, hanno alzato un polverone e causato a Trump critiche e accuse, come quella del suo sfidante Joe Biden, secondo cui “il presidente ha espressamente mentito agli Americani”.

Intanto il presidente continua a calare nei sondaggi: l’ultima rilevazione Hill-Harris X vede Biden in testa di 10 punti, mentre secondo Cnbc, in 6 stati in bilico (North Carolina, Florida, Arizona, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) il vantaggio dell’ex vice presidente sarebbe in media di 4 punti, al 49% contro il 45% del presidente. Ma nello staff Dem sanno (memori della sconfitta bruciante di Clinton nel 2016) che tutto può succedere e la vittoria non è ancora in tasca. Per questo l’ex vice di Obama batte palmo a palmo alcuni degli Stati dove si decide la campagna: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin (i tre stati che consegnarono la vittoria a Trump nel 2016). E poi ci sono i dibattiti — tre tra i rivali per la presidenza, uno tra i vice Mike Pence e Kamala Harris — e ci potrebbe essere la famosa “October surprise”, un evento che modifica il corso della gara. 

Per ora, l’unica sorpresa è che il Senato a guida democratica ha bocciato il pacchetto di stimoli all'economia da 650 miliardi presentato dai Repubblicani, giudicandolo troppo ridotto. La bocciatura rende più difficile che nuove misure possano essere prese prima delle elezioni di novembre. E la scorsa settimana sono state registrate 884mila richieste di disoccupazione negli Usa, come era accaduto già in quella precedente: un dato che interrompe il trend di discesa nelle domande delle ultime settimane.

Intanto, da giorni, oltre novanta incendi stanno bruciando l’intera costa ovest. Il bilancio al momento è di dieci morti e 16 dispersi mentre tra Oregon, California e Stato di Washington sono andati in fumo quasi 14mila chilometri quadrati e un denso e fumoso color arancione ha avvolto il cielo fino a San Francisco.

Secondo gli esperti, la portata e l’imprevedibilità di questi incendi è dovuta anche al cambiamento climatico, come hanno notato tutti i governatori coinvolti. “Gli incendi della West Coast sono soltanto l’ultimo esempio di come il cambiamento climatico stia impattando in modo reale le nostre comunità”, ha denunciato su Twitter l’ex presidente Barack Obama. Le immagini apocalittiche che arrivano dalla West Coast non lasciano dubbi: anche quello della protezione del pianeta sarà un criterio nella scelta della presidenza. Michelle Obama, nel suo discorso alla convention Dem lo aveva detto: “votate come se la vostra vita dipendesse da quello. Perché è così”.

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

Il sondaggio di questa settimana evidenzia un’inversione di tendenza, dopo la ripresa di consenso registrata da Trump nella precedente rilevazione. Solo un quarto degli americani ritiene che il paese stia andando nella giusta direzione, mentre due su tre sono di parere opposto. Preoccupazioni e dubbi sono presenti anche in una parte minoritaria, ma tutt’altro che trascurabile, di elettori repubblicani (38%).

L’approvazione per l’operato del presidente fa segnare un arretramento: i sostenitori si attestano al 39% contro il 56% di critici. Anche e valutazioni sulla gestione dell’emergenza Coronavirus sono peggiorate, facendo registrare il divario più ampio da marzo in poi tra insoddisfatti (57%) e soddisfatti (38%). Biden consolida il proprio vantaggio sull’incumbent tra gli elettori registrati, portandosi a 8 punti (48% a 40%).

 

In our view

Il commento di Riccardo Perissich, Senior Fellow, School of European Political Economy - LUISS Rome. Former Director General of the European Commission

There is no compelling reason why the 21st century should become “China’s century.” It could however be defined by the “China question”, as large parts of the 19th and the 20th centuries were defined by “the German question” (and to some extent also by the Japanese one); we also know their outcome. Hopefully the China question can avoid their tragic fate, but if it does the center of the conflict will be in Asia, and it will involve both China and the United States. The other certainty is that Europe, even if it tries, will not manage to stay out of it. It is, therefore, high time that we develop a European China policy.

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I temi caldi

Mancano meno di due mesi al 3 novembre, ma da venerdì scorso in alcuni stati si è già iniziato a votare: il North Carolina è stato il primo a inviare la scheda elettorale via posta a chi l’aveva richiesta e da questa settimana anche in Minnesota ci si recare ai seggi in anticipo rispetto all’Election Day (per capire come funziona il voto via posta vedi qui). Il tempo rimasto per conquistare il cuore degli americani stringe e i due contendenti si concentrano sugli stati chiave per arrivare al magico numero di 270 voti al collegio elettorale a novembre (qui un approfondimento).

Mentre alcuni stati sono considerati vere e proprie roccaforti repubblicane o democratiche, agevolando le previsioni sull’esito del voto, capire chi la spunterà in altri stati USA è ben più complicato. E per motivi che non si limitano al fatto che il margine tra i due competitor nei sondaggi è minimo (anche se spesso è così) ma anche per via di variabili come il trend di voto delle ultime elezioni, le tendenze demografiche, il numero di coloro che si sono registrati per votare. Si chiamano “swing states”, stati in bilico tra il rosso repubblicano e il blu democratico, e che alla fine faranno la differenza nel determinare chi vincerà la maggioranza dei grandi elettori. Questi stati non sono sempre gli stessi, anche se nella storia recente ce ne sono alcuni come la Florida o l’Ohio che sono sempre ‘in bilico’. Ma quali sono quelli di quest’anno?

Il primo, per importanza è appunto la Florida: terzo stato USA per numero di grandi elettori (29), dal 1992 chi ha vinto in Florida è sempre anche diventato presidente. Nel 2016 ha vinto Trump con un margine di +1,2%, ma oggi la media dei sondaggi di RealClearPolitics dà in vantaggio Biden, seppur di poco. Dopo la Florida, la Pennsylvania è il secondo stato in bilico per numero di grandi elettori (20). Insieme Wisconsin e Michigan è uno dei tre “blue wall states” della ‘Rust belt’, la cintura ‘arrugginita’ che un tempo costituiva la spina dorsale dell’industria americana: sono gli stati che nel 2016, a sorpresa, consegnarono la vittoria a Trump su Hillary Clinton. Oggi le preferenze danno Biden in vantaggio di 3 o 4 punti percentuali.

L’Arizona conta 11 grandi elettori, e fino a poco tempo fa era una roccaforte repubblicana. Alle ultime elezioni, però, Trump ha vinto con un vantaggio molto ridotto rispetto ai suoi predecessori e oggi i sondaggi vedono in vantaggio Biden (+5,7%). Grazie alla crescita dei voti della popolazione latina e degli elettori bianchi con istruzione universitaria, potrebbe riservare delle sorprese. Chiunque vinca in Georgia ottiene ben 16 voti al collegio elettorale. Anche qui il margine rosso è andato man mano diminuendo e alle elezioni di metà mandato del 2018, la democratica Stacey Abrams ha mancato di poco l’elezione a governatrice. Oggi i sondaggi vedono in live vantaggio Trump (+1,3%).

All’elenco si potrebbero aggiungere altri stati, come North Carolina, Ohio, Minnesota, New Hampshire e Iowa. Anche il Texas, storicamente bastione repubblicano (nessun democratico ha mai vinto qui dai tempi di Jimmy Carter), potrebbe diventare terreno di scontro. I sondaggi danno Trump in vantaggio ma negli ultimi anni la popolazione dello stato si è modificata, con l’arrivo di giovani con un buon grado di istruzione attratti dalle opportunità lavorative e la crescita della minoranza ispanica (40% della popolazione): entrambe categorie che ro rispondere bene agli appelli dei dem. Il Texas mette in palio ben 38 grandi elettori, il bottino più grande dopo la California: abbastanza per decidere il risultato delle presidenziali.

 

In our view

Il commento di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

La Storia si fonda sui fatti accaduti, non sulle ipotesi. Ma se alla fine del 2000, lo scrutinio de voti alla Dade County fosse andato diversamente, il presidente eletto sarebbe stato Al Gore, non George W. Bush. E molte altre cose avrebbero preso un verso differente. Allo spoglio finale il candidato repubblicano aveva 271 voti elettorali, il democratico 266. Mancavano i 25 della Florida, diventati determinanti. A chi dovessero andare lo avrebbero deciso i voti contestati della contea di Dade, praticamente il centro di Miami. Quel pugno di schede, solo 1.784, avrebbe stabilito chi doveva diventare presidente degli Stati Uniti.

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Il personaggio

È un’appassionata e convinta sostenitrice del presidente, e lo difende a spada tratta nelle conferenze stampa e in tv: Kayleigh McEnany, 32 anni, è il più giovane capo della comunicazione che la Casa Bianca abbia mai avuto.

Classe 1988, originaria della Florida è la quarta addetta stampa di Trump. Chi l’ha preceduta è durato poco e spesso è rimasto nell’ombra del presidente e delle sue ‘variopinte’ esternazioni. Lei sembra essere fatta di un’altra pasta. Figlia di un’agiata famiglia repubblicana di Tampa, Kayleigh si è laureata in legge ad Harvard e ha lavorato come corrispondente per la Cnn. Conosce il linguaggio della tv e si vede. Nel 2017 è diventata portavoce del comitato nazionale repubblicano. È sposata con un giocatore di baseball della squadra di Tampa da cui ha avuto una figlia, Blake, nell’aprile scorso. Cristiana devota, porta spesso una croce al collo. Nel 2018 ha scritto un libro: ‘La nuova rivoluzione americana: nascita di un movimento populista’, una raccolta di storie sull’elettorato di Trump.

“Bravissima a non dire niente” ha scritto di lei il Guardian, ma sarebbe scorretto derubricarla a un’altra bionda nello staff del presidente. McEnany è “tough”, come ama dire di lei Trump, “una tosta” che lo difende contro tutto e tutti. Soprattutto dagli “attacchi della stampa” che “fraintendono le sue reali intenzioni e il suo messaggio” come ha avuto più volte a dire. Alla Convention repubblicana il suo intervento ha fatto furore: ha raccontato il presidente, sguardo fisso in camera, messa in piega perfetta e croce al collo, umanizzandolo con parole che neanche i figli avevano usato.

Ex stagista presso la White House durante l’amministrazione Bush, vanta nel suo curriculum anche una collaborazione con il governatore dell'Arkansas Mike Huckabee e l'arruolamento nella campagna elettorale Bush-Cheney 2004. Nei pochi mesi passati alla West Wing (è stata nominata ad aprile) McEnany ha fatto propri i toni emotivi spesso usati da Trump. Ai giornalisti, nel suo primo briefing con la stampa disse: “non vi mentirò mai”. Una bella sfida.

 

In numeri

“Whatever it takes”: stavolta a voler ricorrere al ‘bazooka’, non è l’ex governatore della BCE Mario Draghi ma Donald Trump. Secondo un’analisi del New York Times infatti, la sua campagna avrebbe non pochi problemi economici; da inizio 2019 a luglio 2020 avrebbe già speso 800 milioni di oltre un miliardo raccolto in quell’arco di tempo. E sempre secondo il Times, non sarebbero mancate spese “pazze” o quantomeno bizzarre. Anche secondo i dati più recenti sul fundraising, Trump starebbe perdendo terreno rispetto al suo sfidante: nel mese di agosto Trump ha raccolto 210 milioni contro i 364 di Biden – quest’ultima, secondo alcuni, la quota più alta mai guadagnata in un solo mese da un candidato alle presidenziali.

Anche se spendere più dei propri sfidanti non è garanzia di successo (Hillary Clinton nel 2016 spese 370 milioni di dollari più di Trump), una campagna elettorale efficace richiede certamente un grosso impegno economico. Per le presidenziali 2020 siamo ormai allo sprint finale e il presidente ha rassicurato i suoi che la campagna non è in alcuna difficoltà economica, anzi, ma ha messo le mani avanti: è pronto a spendere di tasca propria tutto quel che serve, se necessario: “Whatever it takes”, appunto.

Anche in questo campo, quindi, diventano determinanti gli swing states. Nell’ultima settimana, Biden ha speso 17 milioni di dollari in nove stati in bilico, mentre Trump ne ha spesi solo 4 (e nemmeno negli stati in cui lo scontro è più acceso). Durante l’estate ha invece scelto di spendere molto in pubblicità su Fox News, mirando così alla base elettorale su cui già può contare. La campagna repubblicana ha inoltre speso – e continua a spendere molto – per pubblicità a Washington D.C. dove però le chance di vittoria sono minime: il destinatario di questi spot, paradossalmente, sembra essere il presidente stesso, che il suo team si aspetta guardi gli spot dalla tv della Casa Bianca.

 

Politics on the rocks

Di certo, non tutte le pubblicità elettorali hanno lo stesso appeal comunicativo. Gli spot del Lincoln Project però meritano una menzione speciale. Nato a fine 2019 per mano di otto ex strateghi politici repubblicani anti-trumpiani, il Lincoln Project è un comitato politico che punta a convincere i conservatori delusi da Trump (soprattutto negli swing states) a non votare per lui a novembre.

Con oltre 2,2 milioni di follower su Twitter, i cinguettii del Lincoln Project funzionano non soltanto perché sono una voce repubblicana che critica un’amministrazione repubblicana, ma anche perché parlano al presidente usando un po’ il suo stesso linguaggio: i loro brevi video sono pieni di citazioni e foto poco lusinghiere di Trump, e messaggi indiscreti e diretti, scritti a grandi lettere maiuscole, come alcuni dei suoi tweet. Tra i tanti, ha fatto molto parlare di sé “GOP Cribs”, un video che insinua che Brad Parscale, direttore della campagna elettorale di Trump, lo stesse usando per arricchirsi (Parscale è stato sostituito poco dopo). Non mancano nemmeno le prese in giro esplicite: in “Shrinking”, una voce di sottofondo ripete che il pubblico è “meno di quanto ci si aspettasse”, mentre scorrono le immagini di una platea semivuota al comizio flop di Trump a Tulsa; uno degli ultimi usciti, “Un-American” si definisce appunto non-americano un presidente che – come riportato da un articolo dell’Atlantic – avrebbe definito “perdenti” e “sfigati” i militari Usa morti in battaglia.

A differenza degli avversari democratici di Trump, i repubblicani del Lincoln Project non devono rendere conto a nessuno, né a una base elettorale né ad un partito. Inoltre, il loro progetto di ‘guerrilla communication’ ha come spettatore ideale proprio l’inquilino della Casa Bianca, di cui hanno spesso provocato l’irritazione e la reazione scomposta a colpi di tweet inferociti.

 

Per saperne di più

Is Trump a Turning Point in World Politics?

Joseph S. Nye, Project Syndicate

Why is California burning?

The Economist

 

What’s next

- 18 giorni al primo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden (29 settembre 2020)

- 26 giorni al dibattito tra Mike Pence e Kamala Harris (7 ottobre)

- 53 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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AUTORI

Paolo Magri
ISPI Executive Vice President
Alessia De Luca
ISPI Advisor for Online Publications
ISPI Research Assistant

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