I quattro giorni di convention repubblicana sono stati un reality show di Trump e del trumpismo. Nei suoi numerosi interventi, caratterizzati da toni aggressivi e grandiosi, il presidente non ha risparmiato attacchi allo sfidante Joe Biden: “se sarà eletto, distruggerà l'America”.
What’s up?
Il presidente Donald Trump ha ufficialmente accettato la nomination repubblicana per la corsa alla Casa Bianca. Se quattro anni fa, per l’approdo del tycoon in politica si era parlato di una 'convention show’, quest'anno, complice il format più televisivo imposto alla kermesse dall'epidemia di Covid, si è trattato più di una ‘convention reality show’. Non a caso per la regia, Trump ha chiamato due vecchi producer di The Apprentice, il reality che gli ha dato grande popolarità e che è stato il suo trampolino di lancio in politica. Rompendo ogni tradizione, secondo cui il candidato fa un’apparizione la prima sera per poi intervenire solo alla conclusione, per il discorso di accettazione della nomination, Trump ha parlato sempre ed è stato presente tutte e quattro le sere di quella che, nelle sue intenzioni, è la vetrina che lo farà rieleggere. Se non c’era lui sul palco, c’era una moglie o un figlio o comunque un suo fedelissimo che ne tesseva le lodi. Inoltre – secondo il factchecking pubblicato da New York Times e Washington Post – Trump ha incitato la folla con accuse prive di fondamento ai democratici, e lanciando “una vera e propria crociata contro i disordini violenti” che, in qualche caso, hanno accompagnato le manifestazioni di Black Lives Matter.
Ieri sera, ad accompagnarlo sul palco allestito fuori dalla Casa Bianca per il discorso d’accettazione, c’erano la figlia Ivanka e la moglie Melania. Due giorni fa la first lady aveva tenuto un discorso volutamente rassicurante ed empatico, dai toni molto diversi da quelli degli altri speaker, che ha fatto molto parlare di sé e che secondo alcuni puntava a conquistare il voto delle donne, tallone d’Achille del marito, in base ai sondaggi. Nel giardino delle Rose della Casa Bianca, recentemente restaurato dalla First Lady e oggetto anch’esso di polemiche infinite sui social, erano in 1.500: tutti seduti ma senza distanziamento, pochissime le mascherine. D’altronde tutti gli oratori intervenuti hanno parlato del Covid-19 al passato, lasciando intendere che il problema è ormai alle spalle.
Dopo i ringraziamenti di rito, il presidente ha promesso di tagliare le tasse, di creare 10 milioni di posti di lavoro in 10 mesi e di ripristinare la legalità “nelle città sconvolte dalle proteste”. E soprattutto, di ottenere entro l’anno un vaccino anti-covid. Poi Trump ha rivolto affondi infuocati ai dem e allo sfidante: “Biden – ha attaccato – sarà colui che distruggerà la grandezza dell'America. Le prossime elezioni saranno le più importanti della storia del nostro Paese. La scelta – ha ammonito – è fra due opposte visioni del mondo: il sogno americano e l'agenda socialista”.
Intanto, nel paese reale, i contagi da coronavirus hanno raggiunto quasi i 6 milioni, con 180mila morti, mentre l’uragano Laura, spazzate a 240 km orari le coste della Louisiana, si è indebolito spostandosi nell’entroterra. Ma soprattutto, in Wisconsin è arrivata la guardia nazionale inviata dal presidente per ripristinare l’ordine dopo due giorni di scontri in seguito al ferimento di Jacob Blake, un afroamericano di Kenosha, da parte di un agente di polizia. L’uomo ferito da 7 colpi di pistola sparati alla schiena mentre si trovava al volante della propria automobile, rischia seriamente di restare paralizzato. Il video della sparatoria, diventato virale come pochi mesi fa quello della morte di George Floyd, ha ravvivato le fiamme della protesta di Black Lives matter, e provocato lo stop del mondo dello sport americano, a partire dall’Nba, per chiedere la fine degli abusi e riforme a favore della giustizia sociale e razziale.
Nella serata del gran finale c’è stato anche l’atteso intervento di Ivanka Trump, First Daugther e fidata consigliera del “presidente del popolo” come lo ha definito. Si è proclamata “figlia orgogliosa” e ha auspicato “uno sforzo bipartisan” per guarire le ferite razziali. “A Washington ho scoperto come fanno i politici a sopravvivere tanto a lungo: lamentandosi invece di agire” ha detto. “Ma Donald Trump è venuto qui per fare l'America grande di nuovo. Per mio padre voi siete l'élite. Washington non ha cambiato mio padre. Mio padre ha cambiato Washington”. Come darle torto.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Con l’avvicinarsi della data delle elezioni il Paese si conferma molto diviso. Le Conventions dei democratici e dei repubblicani hanno radicalizzato gli elettorati, basti pensare al giudizio sull’operato di Trump: tra gli elettori democratici il 90% esprime una disapprovazione (il 78% in misura molto netta), mentre tra i repubblicani l’83% lo approva (il 52% incondizionatamente) e tra gli elettori indipendenti prevalgono i critici sui favorevoli (59% a 34%).
Economia ed occupazione ritornano ad essere il top of mind nelle preoccupazioni dei cittadini (vengono citati dal 30% degli intervistati) e su questi temi prevale, sia pure di poco, il consenso per Trump, laddove sulla gestione della pandemia e sul tema dell’immigrazione continuano a prevalere gli insoddisfatti. Il vantaggio di Biden nelle intenzioni di voto si è leggermente ridotto: tra gli elettori registrati oggi si attesta a 7 punti (47% a 40%).
In our view
Il commento di Raffaella Baritono, professore Università di Bologna
Convention USA 2020: Le due Americhe a confronto
Ci siamo. All’indomani delle convention di partito che hanno ufficializzato i rispettivi ticket elettorali – Biden-Harris per i democratici, Trump-Pence per i repubblicani – ha preso il via la campagna elettorale per l’elezione del prossimo presidente statunitense. ‘Non sono tempi normali’: un’espressione spesso utilizzata per mettere in evidenza le tante crisi entro le quali sta prendendo forma una sfida elettorale fra le più dure e incerte.
I temi caldi
Ogni quattro anni, dietro le quinte della scintillante kermesse delle convention, i delegati eletti alle primarie votano, oltre che per la nomination del candidato presidenziale (il cosiddetto roll call, che in genere costituisce il clou della serata), anche per la nuova piattaforma – che delinea le politiche del partito e le priorità per i quattro anni successivi. Le piattaforme politiche non hanno alcun valore legislativo, non vincolano i candidati a seguirne i contenuti e per questo vengono spesso bollate come programmi puramente simbolici. Lo stesso candidato repubblicano alle presidenziali del 1996, Bob Dole, confessò alla convention che, seppure era probabilmente d’accordo con la piattaforma, non l’aveva nemmeno letta. E anche tra l’elettorato, il documento non ha un grande riscontro: non sono molti infatti gli americani che lo leggono.
Ma attenzione, le piattaforme non sono solo documenti di facciata. Secondo gli esperti, le priorità individuate nel programma spesso riflettono le future politiche del partito e la loro importanza sta anche (e per alcuni in gran parte) nel dibattito che le precede. La piattaforma, infatti, viene scritta da un comitato selezionato che solitamente include voci diverse provenienti dalle varie ‘anime’ del partito; anche se il processo di stesura del programma viene guidato dall’ala politica del candidato ufficiale, non tutto è sotto il suo controllo. La stesura del programma è quindi un’occasione per quei candidati che, come Sanders, non hanno ottenuto la nomination ma hanno comunque raccolto un numero consistente di delegati alle primarie, di orientarlo e provare a includervi loro proposte. Questo spiega anche perché Sanders quest’anno, proprio come nel 2016, non si è ritirato dalle primarie dem appena capito che non avrebbe vinto, ma è rimasto in gara ancora un po’ tentando di raccogliere più delegati possibile.
La settimana scorsa, alla convention i dem hanno adottato il nuovo programma politico, ma non sono mancate polemiche. Ben 1.069 delegati hanno infatti votato contro il documento a fronte di 3.562 favorevoli e 87 astenuti. Il voto riflette la divisione tra i delegati più moderati, sostenitori di Biden, e quelli più progressisti che appoggiano Sanders, una spaccatura che durante la convention il partito ha cercato di ridimensionare. I delegati di Sanders non sono però rimasti soddisfatti del nuovo programma, che non include una proposta su cui loro avevano puntato molto: Medicare for all, il piano di Sanders per una riforma sanitaria che abolirebbe le assicurazioni private per sostituirle con un sistema di sanità pubblica. Nel loro voto contrario, i supporters di Sanders sono stati persino più intransigenti del loro stesso candidato, che invece ha votato a favore del programma per unire il partito in previsione della sfida a Trump. Dal canto suo, il senatore del Vermont è infatti stato attento a non distanziarsi troppo dalla base moderata, come invece aveva fatto quattro anni fa, dimostrandosi sin da subito aperto a lavorare insieme e formando una task force congiunta con Biden poco dopo il suo ritiro dalla corsa che ha collaborato alla stesura del programma.
Così, anche se le 92 pagine che compongono il programma non contengono cavalli di battaglia dei progressisti come Medicare for all o il Green new deal, il documento lascia intendere che il partito ha cercato di trovare un compromesso. Tra le tante proposte raccolte in 10 sezioni tematiche, i democratici propongono una riforma sanitaria mirata ad estendere l’assicurazione pubblica e rendere gratuiti i test, le cure e un potenziale vaccino per il coronavirus. Inoltre, la piattaforma prevede: salario minimo federale a 15 dollari l’ora; istruzione universitaria gratuita per le famiglie che guadagnano meno di 125mila dollari; spesa per il welfare protetta da qualsiasi taglio; riforma del sistema giudiziario, ma senza il taglio dei fondi alla polizia (il “defund the police” chiesto da Black Lives Matter); decriminalizzazione del consumo di marijuana (ma non la sua legalizzazione come chiedevano molti dell'ala progressista); eliminazione dell’inquinamento da combustibili fossili per le centrali elettriche entro il 2035 e investimenti in energia pulita; creazione di una nuova procedura per l’ottenimento della cittadinanza per i migranti irregolari; fine delle “forever wars”, l’estenuante impegno estero dei soldati USA, mantenendo solo una piccola presenza in Iraq per combattere l’Isis; ripristino dell’accordo sul nucleare con l’Iran; stop al sostegno all’Arabia Saudita nella guerra in Yemen; proposta di una soluzione a due stati per Israele e Palestina (senza critiche troppo esplicite a Israele come invece avrebbero voluto alcuni dei dem più progressisti).
Sul fronte repubblicano, invece, il dibattito è stato molto più debole, se non del tutto assente. La piattaforma politica del partito è rimasta infatti la stessa del 2016, complice anche la sostanziale assenza di qualsiasi rivale alla ricandidatura del presidente uscente. È la prima volta che accade, nonostante a giugno Jared Kushner, il genero di Trump, avesse tentato senza successo di proporre una propria nuova piattaforma. Niente da fare: l’obiettivo repubblicano alle presidenziali USA 2020 sembra esaurirsi nel tentativo di far rieleggere Trump, usando anche l’emergenza coronavirus come argomento per evitare di aprire un dibattito che potrebbe dividere il partito e i suoi elettori. Meglio quindi concentrarsi su ciò che unisce gli esponenti del partito dell’elefante: lotta alla “minaccia socialista”, stretta sull’immigrazione e una stretta stretta su ‘legge e ordine’ nelle città americane dopo le manifestazioni di Black Lives Matter.
In numeri
L’ultima persona, in ordine di tempo, ad aver abbandonato la nave di Donald Trump è stata Kellyanne Conway, consigliere personale del presidente. Negli ultimi mesi la famiglia Conway era diventata l’emblema delle divisioni che spaccano gli americani (e in particolare gli elettori repubblicani) riguardo Trump: mentre Kellyanne è vicinissima al presidente, il marito è tra i fondatori delLincoln Project, un comitato di azione politica che riunisce i repubblicani anti-Trump e fa campagna contro la sua rielezione. Forse non la più serena delle situazioni familiari, che ha infatti portato i coniugi Conway a dimettersi dai rispettivi incarichi per dedicarsi ai figli. Solo pochi mesi fa, Brookings aveva indicato Conway come una degli ultimi “sopravvissuti” nella cerchia dei consiglieri più stretti del tycoon. Le sue dimissioni riaprono però il dibattito su un fenomeno evidente nella squadra presidenziale: il continuo ricambio dello staff.
Dal 2016 a oggi tra dimissioni spontanee, licenziamenti e cambi di incarico, sono pochi i consiglieri della cerchia più prossima al presidente che ricoprono ancora il ruolo per il quale erano stati nominati a inizio mandato: dei 65 consiglieri individuati da Brookings come parte dell’inner circle del presidente, soltanto sei sono ancora al loro posto. Tra questi, senza grandi sorprese, c’è la figlia del presidente Ivanka e suo marito Jared Kushner. Secondo Brookings, il ‘cerchio magico’ di Trump ha un turnover del 91%, il dato più alto osservato nel primo mandato degli ultimi sei presidenti americani. Il calcolo conta solo la prima volta che un incarico cambia responsabile, non le eventuali sostituzioni successive; i dati mostrano però che tra gli incarichi che hanno visto un passaggio di testimone, quasi due su cinque ne hanno visto poi almeno un altro. La tendenza è ancora più chiara per quanto riguarda il turnover tra i membri del gabinetto: finora 10 segretari hanno lasciato il proprio posto o sono stati incoraggiati a farlo, mentre durante il primo mandato di Obama se ne erano andati solo in tre.
A differenza dei presidenti che lo hanno preceduto, la maggior parte delle sostituzioni tra i consiglieri di Trump è avvenuta subito, durante il primo anno di mandato, ed è andata diminuendo con il passare del tempo. Il dato non sembra casuale: è ben nota infatti la fissazione del presidente sulla lealtà dei propri collaboratori; per questo diversi osservatori ipotizzano che la raffica di licenziamenti e dimissioni del 2017 sia dovuta in buona parte al tentativo di Trump di circondarsi di collaboratori sulla cui fedeltà non aveva dubbi. Una strategia che a volte si è rivelata un boomerang per la Casa Bianca, dal momento in cui alcuni collaboratori, dopo essere stati allontanati, hanno raccontato in numerosi libri e articoli il clima generale di “fuoco e furia” che domina la White House di Trump, creando non pochi imbarazzi all’attuale amministrazione.
Il personaggio
A spezzare la routine di una delle Convention a tratti monotona e a tratti aggressiva, in cui il presidente Trump ha parlato ogni sera, è stata Nikki Haley, ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite. Nel suo discorso per la rielezione del presidente, Haley ha parlato delle sue origini indiane dichiarando al contempo che gli Stati Uniti “non sono un paese razzista”. Un discorso che sembra fare da controcanto a quello di Kamala Harris, candidata vice presidente per il partito democratico, con la quale Haley condivide le origini indiane. Le origini familiari non sono però l’unico elemento che unisce le due donne: come Harris per i democratici, sono non pochi gli insider del partito repubblicano che guardano a Haley come possibile candidata alla Casa Bianca nel 2024. Anche questo, oltre alla grinta e all’ambizione, ne ha decretato il soprannome di ‘anti-Kamala’.
Classe 1972, Nikki Haley nasce con il nome Nimrata Randhawa nella piccola cittadina di Bamberg, South Carolina. Figlia di immigrati indiani sikh, da ragazza si converte però al cristianesimo. Inizia a lavorare già da teenager, facendo la contabile per il negozio di vestiti della famiglia - un campo che la seguirà anche durante gli anni universitari, fino alla laurea proprio in contabilità. Dopo aver preso il cognome del marito sposato nel 1996, Haley si avvicina alla politica e a 32 anni, nel 2004, vi entra a pieno titolo, come rappresentante alla Camera del South Carolina. Una vittoria inaspettata, quella di Haley, che strappa il seggio a un avversario più esperto, e che viene riconfermata poi anche nel 2006 e nel 2008. Due anni dopo, Haley tenta un’altra sfida difficile: quella per il posto di governatrice del South Carolina. Anche stavolta Haley riesce nel suo intento, diventando la prima governatrice donna dello Stato e la prima appartenente a una minoranza etnica, grazie anche al sostegno del Tea Party, una frangia molto conservatrice del partito repubblicano che godeva di ampio sostegno all’inizio degli anni 2010. Sarà riconfermata governatrice anche nel 2014, mentre l’anno seguente si guadagnerà l’attenzione dei media ottenendo la rimozione della bandiera confederata dalla Camera del South Carolina, pochi giorni dopo la strage di Charleston. Quattro anni dopo, Haley verrà però criticata per aver dichiarato in un’intervista che le foto che ritraevano l’omicida con in mano la bandiera confederata aveva profanato il significato di “servizio, sacrificio e eredità” di quel simbolo.
A inizio 2016, Haley viene scelta come voce rep in risposta al discorso del presidente Barack Obama sullo stato dell’Unione: un’occasione che in genere viene riservata agli astri nascenti del partito. Un discorso in cui non mancano alcune velate critiche al candidato di punta del partito repubblicano per le elezioni: Donald Trump. Quel discorso diventa così un’anticipazione dell’ambiguo rapporto che da sempre lega Haley a Trump. Alle primarie repubblicane del 2016, infatti, Haley sostiene prima Marco Rubio e poi Ted Cruz, descrivendo Trump come “tutto quello che un governatore non vuole da un presidente”. Si guadagna così prontamente le critiche di Trump, alle quali risponde unendosi al coro di chi chiedeva al candidato presidente di rilasciare le proprie dichiarazioni dei redditi. Immigrata di seconda generazione, Haley si pronuncia duramente anche contro la proposta di Trump di vietare l’ingresso negli USA a tutte le persone di fede musulmana.
Al momento di scegliere tra Trump e la democratica Hillary Clinton, Haley però si allinea al partito e vota per il tycoon. Le presidenziali 2016 sembrano segnare un giro di boa nella relazione con il presidente che, poche settimane dopo l’elezione, la nomina ambasciatrice americana alle Nazioni Unite. Nel Palazzo di Vetro, Haley convince Cina e Russia a imporre sanzioni alla Corea del Nord e si distingue per la posizione dura contro l’Iran e in difesa di Israele, sostenendo la decisione della Casa Bianca di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato ebraico. Critica delle dinamiche interne di organizzazioni multilaterali come l’ONU, Haley negozia per il ridimensionamento del budget dell’organizzazione. Durante il suo mandato, gli USA si ritirano anche dall’Accordo di Parigi e dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Due anni dopo la nomina, nell’ottobre 2018, Haley annuncia però le dimissioni. A differenza di altri funzionari allontanati dalla Casa Bianca, Haley rimane in buoni rapporti con il presidente, di cui ha spesso echeggiato la retorica. Lo fa anche alla convention repubblicana del 2020 dove mette in guardia i cittadini americani contro “l’avanzata del socialismo”. Non è un caso che il suo nome sia già girato in ambienti repubblicani come possibile sostituta di Mike Pence: con un curriculum perfetto, che unisce esperienza amministrativa e diplomatica, Haley sembra incarnare agli occhi di molti la candidata perfetta per le presidenziali 2024. Tutti gli elementi sembrano allinearsi a tracciare il percorso che porta a Pennsylvania Avenue, in modo forse troppo esatto perché non sia calcolato.
Politics on the rocks
Cambio di programma dell’ultimo minuto alla convention repubblicana: poco prima di iniziare la seconda serata, Mary Ann Mendoza, sostenitrice di Trump e voce critica sull’immigrazione, è stata cancellata dalla lista dei relatori. Il motivo? Poche ore prima, Mendoza aveva ritwittato un post antisemita collegato alla teoria del complotto di Qanon. Il comitato nazionale repubblicano ha quindi voluto evitare qualsiasi imbarazzo o critica. Soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente di pochi giorni fa riguardo la teoria stessa e i suoi sostenitori. Ma facciamo un passo indietro: che cos’è la teoria di complotto di Qanon, che in queste settimane sta facendo sempre più notizia? Secondo seguaci di Qanon, un gruppo di politici dem e star di Hollywood sarebbe coinvolto in un giro di pedofilia e traffico di esseri umani a livello mondiale; il presidente Trump starebbe lottando contro questo gruppo e i loro collaboratori nel “deep state”, le alte sfere dell’amministrazione federale.
Il movimento Qanon nasce da vecchie teorie del complotto antisemite e dal “Pizzagate”, non un’ inchiesta su come viene preparata la pizza negli Stati Uniti, ma un'altra teoria complottista secondo la quale le mail rubate al campaign manager di Clinton, John Podesta, nel 2016 contenevano messaggi in codice riguardo un giro di traffico di minori gestito da alcuni democratici il cui luogo di ritrovo era una pizzeria in Washington D.C. Il gruppo circola online da ottobre 2017, e grazie anche all'anonimato che nasconde i suoi sostenitori, si è sviluppato come un movimento decentralizzato, ma con uno slogan diventato famoso: “Where we go one we go all” (dove va uno di noi andiamo tutti quanti). Rimasti per anni ai margini delle comunità di destra online, negli ultimi mesi – mentre si diffondevano disordini sociali e l’insicurezza dovuta alla pandemia – i sostenitori di questa teoria del complotto hanno trovato molta visibilità e lo stesso presidente li ha definiti “persone che amano il nostro paese”.
In molti hanno preso provvedimenti per limitare lo spargersi delle teorie false e secondo alcuni pericolose del movimento. Qanon è stato infatti collegato a vari atti di violenza e per questo, nel 2019, l’Fbi l’ha classificato come potenziale fonte di terrorismo domestico. Anche le piattaforme social si sono dovute attrezzare per frenare il movimento: Facebook, Twitter e TikTok hanno rimosso o bloccato migliaia di contenuti e account di sostenitori di Qanon. Ma la popolarità del movimento ha continuato ad aumentare, spingendo i democratici e repubblicani alla Camera a introdurre questa settimana una risoluzione che condanna ufficialmente il gruppo complottista.
Torniamo quindi al presidente USA, che dieci giorni fa non ha voluto prendere le distanze dal gruppo quando, e durante un briefing alla Casa Bianca ha risposto alle domande di una giornalista: “Non so praticamente niente di loro tranne che gli piaccio”. E riferendosi poi al ruolo che il presidente avrebbe per i seguaci della teoria, ha aggiunto: “Se posso salvare il mondo dai problemi, sono disposto a farlo”. Il presidente non è però l’unica figura politica a non aver preso le distanze da Qanon: ben 19 tra i candidati repubblicani usciti vincitori dalle ultime primarie hanno affermato di sostenere la teoria o non se ne sono distanziati. I loro nomi compariranno sulle schede elettorali di novembre e per diversi tra loro l’elezione al Congresso sembra tutt’altro che improbabile.
Per saperne di più
‘It’s playing into Trump’s hands’: Dems fear swing-state damage from Kenosha unrest
Natasha Korecki, Politico
The Platform the GOP Is Too Scared to Publish
David Frum, The Atlantic
What’s next
- 32 giorni al primo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden (29 settembre 2020)
- 40 giorni al dibattito tra Mike Pence e Kamala Harris (7 ottobre)
- 67 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)