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Weekly Focus n.27

Weekly Focus USA2020: Dove va l'America?

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
18 settembre 2020

Per la prima volta da mesi un sondaggio dà Donald Trump in testa nella corsa alla Casa Bianca, mentre sui vaccini Joe Biden avverte: “non mi fido di lui”. Intanto, mancano meno di 7 settimane al voto e la West Coast continua a bruciare.

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What’s up?

Biden gli ha dato del “piromane” e “criminale”. Trump gli ha restituito il complimento dicendo che “se Biden vince, vince la Cina. Se Biden vince, la mafia vince. Se Biden vince, vincono i rivoltosi, gli anarchici, gli incendiari”: a poco meno di sette settimane dal voto, e ormai in pieno rettilineo finale nella corsa per la Casa Bianca tra i due candidati è battaglia aperta, senza esclusione di colpi. Un clima arroventato non solo dalla campagna elettorale, almeno sulla costa ovest dove gli incendi continuano a devastare migliaia di ettari di terreno e dove il giallo ocra del fumo e della fuliggine ha lasciato il posto a scenari surreali di case e strade colorate di rosa del ritardante cosparso per arginare le fiamme.

 

Intanto, un nuovo grattacapo per il presidente arriva dalla ex modella Amy Dorris che lo ha accusato di molestie. L’episodio – seccamente smentito dai legali del presidente - risalirebbe al 1997, durante gli Us Open quando, fuori dal bagno, la donna ha raccontato di esser stata baciata e toccata dal tycoon contro la sua volontà. L’accusa di Dorris arriva in un momento delicato per Trump, assediato su più fronti, soprattutto il coronavirus sul quale è in aperto scontro con i suoi esperti sanitari. Galvanizzato da un sondaggio Rasmussen che lo ha dato per la prima volta in vantaggio su Joe Biden (47% a 46%), Donald Trump si è giocato la carta del vaccino contro il coronavirus, dicendo che “la distribuzione potrà cominciare già da metà ottobre”. Un’affermazione smentita da Robert Redfield, direttore dei Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), l'agenzia federale per la tutela della salute, che in un’audizione al senato ha detto di non aspettarsi un vaccino prima della fine del secondo o terzo trimestre del 2021. A sorpresa, però, stavolta il noto immunologo Anthony Fauci è arrivato in soccorso di Trump dicendosi ancora “pronto a scommettere” che si possa arrivare ad un vaccino sicuro ed efficace entro novembre/dicembre.

Biden intanto ha replicato a distanza con una conferenza stampa in un drive-in a Scranton, Pennsylvania, la sua città natale in uno dei stati più contesi per il voto del 3 novembre. Biden ha denunciato che il fallimento di Trump nella gestione della pandemia lo “squalifica totalmente” per la presidenza. “Mi fido dei vaccini, degli scienziati, ma non di Donald Trump”, ha ammonito. “Questa campagna è Scranton contro Park Avenue – ha insistito - Tutto quello che Trump vede da Park Avenue è Wall Street. Tutto quello a cui pensa è Wall Street, non agli americani”.

 

Rivedi la Tavola Rotonda ISPI

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

Il livello di approvazione complessivo del presidente Trump è stabile ma basso. In prossimità delle elezioni i due elettorati sono molto polarizzati: solo il 12% dei democratici approva Trump a fronte del 13% di repubblicani che lo critica. La grande maggioranza rimane preoccupata per la direzione in cui sta andando il paese. L'economia, il lavoro e l'assistenza sanitaria sono i problemi principali per la maggior parte degli americani. Permane ai massimi livelli l’ampio divario tra coloro che contestano la gestione dell’emergenza Covid (58%) e chi si dichiara soddisfatto (39%).

Biden mantiene 8 punti di vantaggio su Trump tra gli elettori registrati (47% a 39%), che salgono a 9 tra i likely voters. La prossima settimana sarà interessante verificare se il ruolo di mediazione svolto da Trump nella definizione dell’accordo tra Israele, Emirati arabi e Bahrein avrà avuto effetti sul consenso per il Presidente.

 

I temi caldi

C’è foschia in questi giorni a New York City, ma non sono le prime nebbie autunnali: è il fumo degli incendi della West Coast americana, talmente fitto che in questi giorni è arrivato a offuscare anche il cielo della costa orientale, a 4mila chilometri di distanza. Un’immagine che rende idea della gravità della situazione e dell’impatto dei cambiamenti climatici negli Stati Uniti e i suoi abitanti.

È dalla fine di agosto che la costa ovest degli USA – soprattutto California, Oregon e lo stato di Washington – è in fiamme. Un’estate secca e il caldo record hanno fornito più combustibile del solito agli incendi che ogni estate scoppiano nella regione; il forte vento ha allargato le fiamme, rendendo la situazione esplosiva e molto difficile da controllare per i vigili del fuoco. Il bilancio è drammatico: almeno 27 vittime, circa 2.000 case e aziende distrutte e 100.000 sfollati. L’aria nelle aree vicino agli incendi è irrespirabile. Scuole, parchi e spiagge sono stati chiusi, l’elettricità interrotta e la gente è stata invitata a non uscire di casa. Il Centro medico di Seattle ha annunciato un picco di ingressi di pazienti con problemi respiratori.

Osservando i dati degli ultimi anni, era chiaro che un disastro fosse imminente. Tra il 2005 e oggi le temperature hanno raggiunto picchi mai registrati e il 2020 rischia di battere ogni record; ad agosto nella Death Valley, in California, si sono sfiorati i 54 gradi, probabilmente la temperatura più alta mai osservata dall’uomo. Con l’ondata di calore, 900 incendi sono divampati in California, bruciando in due settimane una superficie sei volte più grande di quella carbonizzata nei roghi del 2019.

Come se non bastasse, il 2020 rischia anche di essere anche un anno record per numero di uragani: in questi giorni l’uragano “Sally” si sta intensificando nel Golfo Messico, mandando in allarme gli stati costieri di Florida, Alabama e Mississippi per il rischio di fortissime piogge e inondazioni. All’inizio della settimana, nell’Atlantico i meteorologi osservavano ben sette tempeste tropicali in formazione allo stesso tempo, il numero più alto dal 1971.

A questo quadro drammatico fanno eco le previsioni degli esperti sull’impatto dei cambiamenti climatici e dei disastri naturali sugli Stati Uniti. Secondo le analisi, un americano su 12 potrebbe dover lasciare la propria abitazione nei prossimi 45 anni a causa del cambiamento climatico; i “megafires”, incendi enormi come quelli osservati in queste settimane in California, potrebbero colpire aree abitate da 28 milioni di americani entro il 2070; se il livello del mare continuerà a salire, aree costiere in prossimità di metropoli come Miami, New York e Boston saranno sommerse; entro il 2060 il midwest americano rischia di vivere stagioni talmente calde e umide da rendere complicato per i residenti lasciare la propria abitazione. Le stime del danno economico, sociale e umano di questi fenomeni sono incerte, ma puntano tutte in una direzione preoccupante.

Dopo settimane di silenzio, lunedì Trump è finalmente volato in California per visitare le aree colpite dagli incendi. Il presidente ha puntato il dito contro il cattivo stato di manutenzione delle aree boschive e ha minimizzato gli effetti del cambiamento climatico: “Tra un po’ - ha detto – dovrebbe rinfrescare” aggiungendo di non credere che “la scienza sappia realmente cosa stia succedendo”. I cambiamenti climatici, invece, sono stati additati dallo sfidante Biden come la causa principale del disastro, trasformando il clima e i wildfires in un altro tema di dibattito in una campagna anch’essa rovente. Per capire se gli incendi avranno un effetto sulla corsa alla Casa Bianca bisognerà osservarne lo sviluppo nei prossimi giorni. Per ora, il fuoco ha colpito soprattutto aree a maggioranza democratica, che già sono consapevoli dei rischi legati al cambiamento climatico. Se però i fuochi dovessero allargarsi al Mid-West, un’area chiave per vincere a novembre, il presidente potrebbe vedersi costretto ad affrontare il tema più spesso nei suoi comizi. Quel che è certo è che l’importanza del clima agli occhi degli americani è andata crescendo negli ultimi anni: quest’anno, il 52% ha indicato nella lotta ai cambiamenti climatici una delle priorità per il presidente e il Congresso – una percentuale in crescita di ben 20 punti rispetto a otto anni fa.

 

Il personaggio

In un momento delicatissimo per le relazioni tra USA e Cina, l’ambasciatore americano in Cina, Terry Branstad, ha rassegnato le dimissioni. Nominato da Trump nel 2017 per un incarico evidentemente delicatissimo, Branstad non è, come si potrebbe supporre, un diplomatico di lungo corso ma un politico: per l’esattezza, il governatore più longevo dello stato dell’Iowa. Nel lasciare l’ambasciata di Pechino, non ha spiegato le ragioni del suo addio limitandosi a dire che si dedicherà alla campagna elettorale del presidente uscente - come volontario, specifica – come già sta facendo il figlio.

Classe 1946 e originario dell’Iowa, dopo gli studi in giurisprudenza il giovane Branstad si arruola nell’esercito e viene trasferito nella base di Fort Bragg, in North Carolina. Della sua breve esperienza militare, uno degli episodi salienti risulta essere l’arresto di Jane Fonda, la due volte premio Oscar attivista per la pace, che dopo aver viaggiato in Vietnam aveva posato per una foto in una trincea nordvietnamita. Nel 1973 Branstad entra in politica nella Camera dei rappresentanti dell’Iowa. Dieci anni dopo viene eletto più giovane governatore della storia dello stato; inizia così una carriera che durerà ben 22 anni, contando sei rielezioni, dal 1983 al 1999 e dal 2011 al 2017, e lo renderà il governatore in carica più longevo nella storia degli Stati Uniti.

L’esperienza amministrativa si interrompe nel 2017, quando Trump lo nomina ambasciatore in Cina. La nomina non è casuale e sembra essere una mossa ‘conciliatoria’ verso Pechino: da governatore, Branstad ha promosso le relazioni tra l’Iowa, grosso produttore di soya e carne di maiale, e la Cina incontrando ufficiali cinesi e Xi Jinping, che definisce “un mio vecchio amico” più volte. Nella nuova veste di ambasciatore, però, Branstad si trova in una posizione via via più difficile, nel mezzo dello scontro tra le due superpotenze.

Le sue dimissioni, oggi, riaccendono le polemiche che accompagnarono la sua nomina: è normale che si nomini ambasciatore in uno dei paesi più importanti per la politica estera americana, una persona che non è un diplomatico di carriera? Negli Stati Uniti, come in altri paesi, si può diventare ambasciatori anche per nomina politica. Ultimamamente però, quest’ultimo caso è molto frequente e sono in molti a sostenere che Branstad abbia ottenuto l’incarico a Pechino in cambio del sostegno alla candidatura di Trump in Iowa, nel 2016 uno ‘swing state’. Vicende simili sono quelle di Gordon Sondland, proprietario di una catena di hotel e finanziatore di Trump, nominato ambasciatore all’Unione europea; Lana Marks, designer di moda e attualmente rappresentante di Washington in Sud Africa o Douglas Macgregor, colonnello in pensione dell’esercito Usa e ospite fisso su Fox News, diventato ambasciatore a Berlino. L’abitudine non è comunque esclusiva di Trump: anche Barack Obama, ad esempio, aveva ricevuto critiche per alcune sue nomine politiche.

Nel suo mandato, Trump ha finora nominato 189 ambasciatori, meno della media dei presidenti che l’hanno preceduto. Molte delle nomine si erano arenate per l’opposizione del Senato, che deve confermare le proposte del presidente, tanto che nel 2018, a metà mandato, 25 paesi erano ancora in attesa di un ambasciatore americano. Tra le scelte di Trump confermate dal Senato, però, la quota di nomine politiche ha toccato la percentuale record del 44%, contro una media storica che si attestava attorno al 30%. Bisogna tornare ai tempi di Ronald Reagan per trovare proporzioni simili. Rimane comunque una differenza cruciale rispetto all’era Reagan: gli ambasciatori di nomina politica durante la presidenza Trump sono in media meno esperti e competenti.

 

Politics on the rocks

Con l’avvicinarsi delle elezioni, cresce l’attesa per ‘the day after’ il 3 novembre. E non solo riguardo chi sarà il vincitore, ma anche se lo sconfitto accetterà l’esito del voto. Per tutta l’estate, infatti, Donald Trump ha lasciato intendere che potrebbe non accettare il risultato delle elezioni, che secondo lui saranno preda di brogli e frodi. Non ci sono prove a sostegno delle accuse del presidente di corruzione del voto postale, ma la sola ipotesi che, in un’America così polarizzata uno dei due contendenti possa rifiutare l’esito del voto ha fatto suonare campanelli d’allarme. Così, il team elettorale di Biden ha radunato centinaia di avvocati sparsi per tutta la nazione, in quello che hanno definito “il più grande programma di protezione elettorale della storia americana”.

Il rischio è che gli sfidanti non accettino il risultato del voto in uno o più stati. Se così fosse, gli stati avrebbero tempo fino all’8 dicembre, la scadenza del “safe harbor” (porto sicuro) entro la quale gli stati devono certificare il loro voto, per risolvere qualsiasi disputa. Il Collegio elettorale si riunisce poi il 14 dicembre per votare e il nuovo Congresso conteggia i voti del Collegio il 6 gennaio.

Nel caso in cui non si raggiungesse un accordo sul risultato, il mandato presidenziale dovrà comunque concludersi entro il 20 gennaio, giorno in cui la Costituzione ne stabilisce la fine. Se per allora repubblicani e democratici non fossero d’accordo sul vincitore, la palla passerebbe allo Speaker del Camera, Nancy Pelosi, se manterrà la sua posizione nel nuovo Congresso. Perché questo accada, però, serve comunque che i due partiti siano d’accordo. La buona volontà e la fiducia reciproca restano insomma fondamentali. Va da sé che questo scenario non si è mai verificato nella storia degli Stati Uniti, neanche nella disputa legale tra George W. Bush e Al Gore alle presidenziali del 2000, e la sentenza della Corte Suprema sul contestatissimo riconteggio del voto in Florida. Perciò tutto quello che ne conseguirebbe è senza precedenti.

 

Per saperne di più

How Climate Migration Will Reshape America

Abrahm Lustgarten, The New York Times

The Deadline That Could Hand Trump the Election

Edward-Isaac Dovere, The Atlantic

 

What’s next

- 11 giorni al primo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden (29 settembre 2020)

- 19 giorni al dibattito tra Mike Pence e Kamala Harris (7 ottobre)

- 45 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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