A meno di due settimane dal 3 novembre, i contendenti alla Casa Bianca si affrontano nell’ultimo dibattito della campagna. Ma nel paese hanno già votato quasi 50 milioni di persone.
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Stanotte si è svolto l'ultimo dibattito tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump e Joe Biden, prima delle elezioni del 3 novembre. Si è parlato di argomenti diversi, dalla pandemia al salario minimo, l’assistenza sanitaria e il razzismo, in un incontro caratterizzato da toni meno aggressivi rispetto al precedente, ma ancora con molti attacchi personali. Se non è emerso un chiaro vincitore della serata, il presidente indietro di circa 8 punti nei sondaggi nazionali rispetto allo sfidante, non ha trovato quel ‘qualcosa’ che gli serviva per darsi la spinta, e recuperare negli stati in bilico. E anche se non si è lasciato andare agli eccessi, punto a suo favore, Trump non ha saputo presentare una visione chiara per il futuro ad un paese nel pieno di una crisi nazionale, che conta oltre 220mila morti per covid e in piena emergenza disoccupazione, non riuscendo a spiegare come avrebbe usato un secondo mandato alla presidenza.
Da parte sua, Joe Biden non è sembrato turbato dai colpi sferrati dall’avversario. Lo ha sfidato a rendere pubblica la sua dichiarazione delle tasse, accusandolo di eccessiva morbidezza nei confronti di Mosca. Un argomento più volte sollevato nei confronti del presidente e reso ancor più attuale alla luce dei recenti tentativi da parte di hacker russi, cinesi e iraniani di interferire nella campagna elettorale. Anche con i microfoni silenziati a turno e il distanziamento sociale, il dibattito ha finito per essere un evento politico straordinariamente ordinario in un anno elettorale molto strano.
Intanto, a 12 giorni dal 3 novembre, sono circa 48 milioni gli americani che hanno già votato. Circa otto volte il numero di quelli che lo avevano fatto a questo punto della campagna nel 2016. Un record che si spiega con l’esigenza – sentita da molti – di evitare occasioni di contagio, e che restituisce l’immagine di un paese sempre più polarizzato in cui gli elettorati sono più che mai convinti delle loro scelte.
Lunedì prossimo il Senato voterà la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema dopo che quest’ultima ha incassato l’approvazione della Commissione giustizia nonostante il boicottaggio dei democratici. A meno di grosse sorprese l’elezione è scontata dalla maggioranza repubblicana nella Camera Alta. A poco più di una settimana dal voto per le elezioni presidenziali americane, Barrett – che va a sostituire l'icona liberal, Ruth Bader Ginsberg – diventerà la più giovane giudice a sedere nella Corte Suprema.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
A meno di due settimane dalle elezioni permane elevata (63%) la quota di cittadini americani che ritengono che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Torna ad aumentare la preoccupazione per l’healthcare che si colloca al primo posto nella graduatoria delle issues (22%). A seguire l’economia (19%), l’occupazione (9%) e la moralità (8%). Il consenso per l’operato di Trump rimane stabile (il 41% esprime approvazione, in flessione di 1% rispetto alla settimana precedente), mentre peggiorano i giudizi sulla sua gestione della pandemia: i critici infatti salgono al 57% (+4%).
Le intenzioni di voto fanno registrare un consolidamento del vantaggio di Biden su Trump che si attesta a 12 punti tra gli elettori registrati (50% a 38%) e a 9 punti tra i likely voters (51% a 42%). E anche nei 6 stati Stati più in equilibrio, Biden vede aumentare, sia pure leggermente, il proprio vantaggio”
I temi caldi
Il 3 novembre gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sulla sfida tra il presidente uscente Donald Trump e il suo avversario Joe Biden. Quella però non sarà l’unica battaglia importante della serata. Mentre, come abbiamo visto la settimana scorsa, la maggior parte dei possibili scenari post-elezione danno come vincitore il candidato dem, cardine del successo della prossima amministrazione sarà il sostegno del Congresso. Solo con una Camera e un Senato favorevoli, infatti, il prossimo inquilino della Casa Bianca potrà far passare leggi e riforme senza essere bloccato dall’opposizione. In palio ci sono tutti i seggi della Camera e un terzo di quelli del Senato; se i democratici facessero “en plein”, per Biden si presenterebbe lo stesso scenario ideale che aveva accolto Barack Obama nel 2008 e che gli aveva permesso di far passare leggi rivoluzionarie come la Dodd-Frank e l’Affordable Care Act.
First things first, ricapitoliamo il voto. In base alla legge elettorale, ogni due anni si rinnovano tutti i 435 deputati della Camera (che ciascuno stato elegge in numero proporzionale alla propria popolazione) e, a turno, un terzo dei 100 senatori (che sono invece sempre due per ogni stato). Mentre la Camera è già in mano democratica (233 a 197) e, secondo gli esperti, è molto probabile che rimarrà a maggioranza netta dem anche dopo novembre, la questione si fa più delicata per il Senato. Oggi infatti i senatori americani sono in maggioranza repubblicani (53-47), ma qui la partita è più aperta, con le ultime previsioni che puntano verso una vittoria “azzurra” del partito democratico.
Per controllare il Senato, i democratici dovrebbero guadagnare solo quattro seggi – ne basterebbero tre se vincesse Biden, dato che in base alla Costituzione il Vicepresidente è anche presidente del Senato e in caso di parità (50 e 50) può esprimere il suo voto. Dei 35 seggi al Senato su cui si voterà, oggi 12 sono in mano ai democratici e ben 23 ai repubblicani. Secondo le ultime previsioni del Cook Political Report, i democratici sono saldamente al comando negli stati che già controllano: solo 2 dei 12 seggi democratici in palio (Alabama e Michigan) sono ‘traballanti’. Per i repubblicani, invece, il quadro è più preoccupante: dei 23 seggi oggi controllati dai rep, per quasi la metà (12) i sondaggi danno una vittoria risicata o un esito incerto.
In molti di questi casi, il denominatore comune vede un senatore uscente repubblicano messo in difficoltà nei sondaggi dall’essersi avvicinato troppo al presidente e, in nome della fedeltà di partito, averlo sostenuto su politiche che non sempre hanno fatto gli interessi dell’elettorato locale. È il caso, ad esempio, di Arizona, Colorado, Maine, North Carolina, Iowa e Texas. Ma la partita più appassionante è indubbiamente quella per il South Carolina, dove il senatore Lindsey Graham, già 25 anni al Congresso, cerca ora un quarto mandato al Senato. In uno stato che con ogni probabilità voterà per Trump alle presidenziali, lo sfidante democratico Jaime Harrison ha infatti raccolto la cifra record di 86 milioni di dollari - più di qualsiasi altro senatore nella storia americana. Come i suoi colleghi dem in altri stati, Harrison sta tallonando lo sfidante puntando biasimandolo proprio per la sua subalternità nei confronti del presidente, di cui è diventato sostenitore acritico dopo un aspro antagonismo.
Tra le fila dei repubblicani c’è nervosismo per il timore, come ha spiegato il senatore repubblicano del Nebraska Ben Sasse: “che se il presidente perderà, affonderà insieme a lui anche il Senato”.
Il personaggio
Sta facendo di tutto per scoraggiare l’adozione di nuovi incentivi di spesa per supportare gli americani che fanno i conti con la crisi economica da Sars-Cov-2. Mitch McConnell, capogruppo dei Repubblicani al Senato, il Darth Vader della politica americana (così come si auto-definì nel marzo 2001), è in prima linea per evitare che il Partito repubblicano si divida sull’economia e un nuovo pacchetto di stimoli, arrivando frammentato alla nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema.
Nato nel 1942, Addison Mitchell McConnell Jr. cresce tra l’Alabama e la Georgia, seguendo il lavoro del padre, impiegato civile per l’esercito americano. Sbarca in Kentucky appena quattordicenne e vi rimane per circa dodici anni. Nel 1963, mentre è ancora studente di Scienze Politiche all’Università di Louiseville, partecipa alla “Marcia per il lavoro e i diritti” a Washington DC, dove ascolta in prima persona Martin Luther King pronunciare il famosissimo discorso “I Have a Dream”. Dopo uno stage con John Sherman Cooper, senatore repubblicano per il Kentucky, che ispirerà tutta la sua carriera politica, frequenta con successo la facoltà di giurisprudenza dell’Università del Kentucky e, due giorni dopo l’esame di abilitazione all’avvocatura, entra come soldato semplice tra le forze di riserva dell’esercito americano. Vi trascorrerà poco più di un mese, salvo poi essere giudicato inadatto al servizio attivo e congedato con onore a causa di una neurite ottica. La brevità della sua permanenza nell’esercito negli anni drammatici del conflitto in Vietnam, sarà motivo di numerosi attacchi da parte dei suoi avversari politici.
In seguito a una lunga gavetta in varie posizioni più o meno istituzionali a cavallo tra Washington e il Kentucky, approda al Senato nel 1985. Come scrive Alec MacGillis nel suo lavoro biografico ‘The Cynic’, il senatore, in partenza una delle voci repubblicane più moderate (sostenitore, per esempio, del diritto all’aborto), si è lentamente trasformato “nell’incarnazione dell’ostruzionismo partigiano e dell’ortodossia conservatrice”. A detta dei suoi colleghi di partito McConnell ha infatti un talento particolare per allungare le discussioni sui disegni di legge anti-repubblicani, tanto da ritardarne o addirittura bloccarne l’approvazione: negli Stati Uniti, i senatori non hanno limiti di tempo per discutere di una proposta a meno che 60 senatori non votino a favore della chiusura del dibattito. Questa tattica è stata identificata da diversi politologi come hardball costituzionale, ossia un vero e proprio utilizzo improprio di strumenti procedurali che vanno a minare i valori della democrazia statunitense.
E anche sul tanto discusso stimolo economico pre-elettorale McConnell potrebbe avvalersi di quegli strumenti di stallo che l’hanno reso tanto famoso, in modo da garantire, se Trump fosse rieletto, l’inizio di un secondo mandato all’insegna di nuovi incentivi per tutti i cittadini americani.
Per saperne di più
The Republican Identity Crisis After Trump
Nicholas Lemann
Biden Seizes Trump’s Populist Mantle
David A. Graham, The Atlantic
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