Donald Trump e la first lady Melania positivi al coronavirus: il presidente USA ricoverato all'ospedale con febbre e sintomi. “La campagna così come la conoscevamo è finita” sentenziano gli strateghi di Washington. Un ennesimo colpo di scena scuote l’opinione pubblica americana e mancano 32 giorni alle elezioni.
What’s up?
Eravamo in attesa della ‘October surprise’ ed eccola qua. Donald Trump e Melania positivi al Coronavirus: lei in quarantena, lui ricoverato al Walter Reed National Military Medical Center con la febbre. A quattro settimane e mezzo dal voto per le elezioni presidenziali americane e con altri due dibattiti da affrontare (il prossimo è fissato per il 15 ottobre) è arrivato l’ultimo colpo di scena di una campagna che era già talmente incredibile da far impallidire le trame delle migliori serie Hbo. Ma andiamo con ordine. Donald Trump e la first lady sono positivi al test. Il vicepresidente Mike Pence è attualmente negativo ma in attesa di ulteriori accertamenti. E i medici suggeriscono che la speaker della Camera, Nancy Pelosi, 80 anni, si isoli per evitare contagi perché in caso di complicazioni per i primi due, sarebbe chiamata a subentrare come terza in linea di successione per il comando. Una precauzione eccessiva per una evenienza troppo remota? Quello che abbiamo visto finora suggerisce di non sottovalutare più nulla e comunque che il presidente della prima economia al mondo, a 32 giorni dalle elezioni e con circa 2 milioni di voti già espressi, contragga un virus potenzialmente letale non è cosa che accada tutti i giorni. Le implicazioni, se lui o lo sfidante – il 77enne democratico Joe Biden sul palco con lui tre giorni fa a Cleveland – dovessero ritirarsi o non essere in grado di continuare la campagna, sarebbero enormi quanto imprevedibili. Oltretutto, come la stampa e i network Usa stanno sottolineando in queste ore concitate, il presidente ha 74 anni, è leggermente obeso e rientra nelle categorie “a rischio complicazioni”. A tradirlo saranno stati tutti quei mesi passati a minimizzare, ad incontrare persone e tenere comizi, dicendo che in fondo “non è niente di più che una banale influenza”? Probabile. Di sicuro non si è risparmiato una battuta sarcastica neanche al dibattito tv di due giorni fa, il primo di tre contro Joe Biden, che dovrebbero tenersi entro il 3 novembre.
“Penso che le maschere vadano bene ... Voglio dire, ho una maschera proprio qui. Mi metto una maschera quando penso di averne bisogno ", ha detto Trump, e riferendosi a Biden: “Non indosso la maschera come lui. Ogni volta che lo vedi, ha una maschera”.
Sul dibattito di martedì sera, notte fonda in Italia, c’è poco da aggiungere a quello che è stato già detto. È stato un confronto caotico, in cui non si è riuscito ad approfondire – a causa delle continue interruzioni, soprattutto di Trump nei confronti dell’avversario – i temi che stanno più a cuore agli elettori: Corte Suprema, sanità, rilancio dell’economia e dell’occupazione, proteste sociali e violenza per le strade. Il moderatore Chris Wallace, anchor di Fox ma non particolarmente gradito a Trump, non è riuscito a condurre il dibattito né a contenere un presidente strabordante. Biden, dopo mesi di battute e insinuazioni sul suo stato mentale, è riuscito a dimostrare di avere presenza e il piglio necessario per non soccombere davanti ad un animale da palcoscenico come Trump. Ma la sua performance è stata spenta, a tratti titubante e comunque non paragonabile al sé stesso di qualche anno fa. A quattro giorni dal confronto, e per quello che vale (Hillary Clinton a suo tempo li aveva ‘vinti’ tutti) secondo i sondaggi è lui, Joe Biden il vincitore del primo dibattito presidenziale. E anche nelle intenzioni di voto lo sfidante rimane in testa, dando fino a 13 punti di distacco al presidente in carica.
E dire che la settimana già non era cominciata nel migliore dei modi per il tycoon. Con un tempismo infallibile, il New York Times ha pubblicato il primo articolo di un’inchiesta che rivela come Trump nei primi due anni di presidenza abbia pagato 750 dollari di tasse federali e che, negli ultimi 15 anni, non abbia praticamente versato imposte sul reddito.
È impossibile prevedere quanto tutto questo, e in particolare la notizia della positività di Trump, modificherà il corso di queste ultime settimane di campagna elettorale. Molto dipenderà dal decorso della malattia. Per ora i medici riferiscono che il presidente sta bene e “mostra sintomi lievi”. Ma di certo un primo cambio di programma c’è già stato: il presidente e il suo staff hanno cancellato il viaggio in Florida previsto nelle prossime ore e annullato tutti gli impegni in agenda per i prossimi giorni. "La campagna come la conoscevamo è finita", ha detto a Politico Andrew Feldman, stratega democratico a Washington. “Questo è il peggior incubo che si materializza per il presidente che aveva fatto tutto il possibile per spostare il fulcro dell’attenzione dalla pandemia”. Nei sondaggi la gestione del Covid è uno dei punti più controversi della presidenza Trump e il fatto che egli stesso si sia ammalato avrà certamente un forte impatto sull’opinione pubblica americana e l’elettorato. Gli Stati Uniti sono stati di gran lunga il paese più colpito del mondo, con oltre 7 milioni di casi accertati e 208mila morti. Più di un quinto delle vittime globali è americano.
Alla coppia presidenziale sono arrivati gli auguri di una pronta guarigione da parte di Joe Biden e di sua moglie che, anche loro, si sottoporranno al test e da tutti i leader del mondo, dal primo ministro dell'India Narendra Modi al presidente russo Vladimir Putin, e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, al britannico Boris Johnson. Sola voce fuori dal coro arriva da Pechino, con il quotidiano cinese Global Times afferma che Trump sta pagando il prezzo del suo “azzardo nel minimizzare” il pericolo di contagio del coronavirus. Secondo il direttore del giornale, Hu Xijin, “la notizia mostra la gravità della situazione della pandemia negli Usa e avrà un impatto negativo sull'immagine di Trump e degli Stati Uniti e potrebbe avere anche un effetto negativo sulla sua rielezione”. Non è chiaro se sia una previsione o un auspicio.
I temi caldi
A due giorni dal primo confronto tv tra Donald Trump e Joe Biden, il New York Times ha sfornato una spiacevole sorpresa per il presidente pubblicando uno scoop esclusivo sulla situazione finanziaria e fiscale del presidente. Dall’inchiesta emerge come Trump non abbia pagato alcuna tassa sul proprio reddito per dieci dei quindici anni tra il 2000 e il 2015, mentre nel 2016 e 2017 – il suo primo anno alla Casa Bianca – ha versato allo stato soltanto 750 dollari l’anno. Le rivelazioni del quotidiano, che ora pubblicherà una serie di inchieste più approfondite sulle finanze di Trump, gettano più di un dubbio sulla credibilità dell’immagine da imprenditore di successo con cui si è sempre presentato e sottolineano i molti punti in cui i suoi doveri da presidente e i suoi interessi privati entrano in conflitto.
Che Trump possa pagare meno tasse sul reddito di un insegnante di scuola elementare è un fatto che difficilmente si concilia con la sua fama di miliardario. L’inchiesta spiega come ciò sia possibile: la realtà è che molte delle attività gestite dalla Trump Organization, dai campi da golf agli hotel di lusso, sono dei buchi neri che generano ogni anno decine di milioni di dollari di perdite nelle casse del presidente; perdite che però Trump usa per ottenere sconti sulle tasse sul reddito che dovrebbe pagare, come permesso dalle leggi statunitensi. Quella di contabilizzare le perdite delle proprie attività per ridurre la propria base imponibile è una tecnica sfruttata da molti “super ricchi”, spiegano gli esperti. Trump stesso ha spiegato più volte negli anni di fare di tutto per poter pagare meno tasse, “come qualsiasi imprenditore nel mio settore”.
L’entità delle perdite che le attività del presidente generano ogni anno, però, sono tali da far sorgere spontanea una domanda: quanto sono solide in realtà le fondamenta dell’impero di Donald Trump? Stando ai documenti del Times, non molto. Le enormi passività generate dalle attività della Trump Organization tra gli anni ‘90 e i primi 2000 – e che hanno permesso al presidente di non pagare tasse per un decennio – sono state compensate in gran parte solo dal successo di The Apprentice, il reality show condotto da Trump per quattordici stagioni. Quando non sono bastati gli introiti legati alla sua fama televisiva, Trump avrebbe però dovuto sottoscrivere prestiti milionari garantiti personalmente: secondo il quotidiano, una mannaia da più di 300 milioni di dollari che Trump dovrà restituire nei prossimi quattro anni.
Stando alle rivelazioni, il presidente e la sua famiglia avrebbero potuto mantenere il proprio lussuoso stile di vita inserendo spese personali tra le passività delle proprie aziende: dai compensi per non meglio specificate consulenze esterne che la Trump Organization sembrerebbe aver pagato a Ivanka, la figlia del presidente, ai 70.000 dollari spesi in un anno da Trump per il suo parrucchiere. Nella sua inchiesta, il Times si chiede anche quanto l’elezione a presidente abbia contribuito a rilanciare il valore commerciale dell’immagine di Trump: dal boom di iscrizioni al suo club privato di Mar-a-Lago, in Florida, dopo la vittoria del 2016 alle numerose licenze concesse in questi quattro anni dalla Trump Organization a imprenditori stranieri per utilizzare il nome del presidente su hotel e complessi commerciali.
Un’illusione di successo costruita sul nulla, quindi? È presto per dirlo. Saranno le prossime pubblicazioni del Times a chiarirlo, unitamente alle dichiarazioni dei redditi che la Corte Suprema ha ordinato a Trump di consegnare ai procuratori di New York, che stanno indagando sull’uso di fondi elettorali per comprare il silenzio di due donne che avrebbero avuto rapporti sessuali con il presidente dietro compenso. Rivelazioni derubricate da Trump ad “ennesima fake news” spacciata da media ostili. Resta il fatto che Trump è il primo presidente da oltre 40 anni a non aver reso pubbliche volontariamente le proprie dichiarazioni dei redditi. Incalzato dal moderatore Chris Wallace durante il dibattito di martedì, Trump ha assicurato che tutto sarà chiarito non appena mostrerà al pubblico i propri documenti. Una promessa fatta già quattro anni fa in campagna elettorale, alla quale né lo sfidante Biden né molti americani sembrano ormai più credere.
In our view
Intervista a Paolo Magri, Vicepresidente esecutivo ISPI
Uno spettacolo triste il primo dibattito fra il presidente Donald Trump e il candidato democratico Joe Biden, consumatosi fra caos e insulti. Una brutta immagine, persino imbarazzante, quella dei due anziani leader che litigano senza risparmiarsi, più che confrontarsi. I principali giornali americani parlano del “livello più basso mai toccato”, che equivale a una sconfitta del dibattito democratico. Lo scontro in vista delle elezioni del 3 novembre è avvenuto all’indomani delle rivelazioni che indicano come l’attuale inquilino della Casa Bianca, nei primi due anni di presidenza, abbia pagato appena 750 dollari di tasse e della nomina-lampo (che dovrà essere confermata dal Senato) della giudice Amy Coney Barrett, cattolica e conservatrice, alla Corte suprema. E mentre è arrivato in Italia il segretario di Stato americano, Mike Pompeo. L’intervista al Vicepresidente esecutivo dell’ISPI Paolo Magri.
Il personaggio
A un mese e mezzo dalle elezioni presidenziali americane, la morte della giudice e icona progressista Ruth Bader Ginsburg apre un durissimo scontro tra democratici e repubblicani per decidere chi ne occuperà il posto vacante alla Corte Suprema. La scelta del presidente Donald Trump è caduta su Amy Coney Barrett, accademica e giudice federale 48enne, madre di sette figli, allieva di Antonin Scalia e docente in prestigiose università del paese. Per i progressisti la sua nomina – che dovrà essere approvata dal Senato - darebbe una forte spinta a destra nell’orientamento della Corte Suprema e potrebbe mettere a repentaglio importanti traguardi raggiunti in decenni di battaglie liberal. Per i conservatori, Coney Barrett è una giurista competente e acuta pronta a difendere la Costituzione.
Politics on the rocks
Su questo primo dibattito presidenziale sono piovute critiche e condanne bipartisan e ci si è chiesti se la dialettica politica USA abbia toccato il fondo del barile. Senza voler fare paragaoni, in passato non erano comunque mancati – al netto dei toni più aggressivi – confronti che fossero una lotta senza esclusioni di colpi.
Partiamo dall’inchiesta del Nyt, pubblicata a poche ore dal dibattito. Un siluro per qualsiasi candidato, si direbbe. Eppure, un precedente storico mostra che le conseguenze di un’intervista problematica non siano necessariamente fatali. Nel 1976, in piena campagna elettorale, il mensile erotico Playboy pubblica alcuni estratti di un’intervista a Jimmy Carter in cui il candidato, cristiano battista molto devoto, racconta della propria visione della politica, delle relazioni e del tradimento. Il presidente uscente, il repubblicano Gerald Ford, coglie la palla al balzo e usa l’intervista per mettere in dubbio la fede e la moralità di Carter, cercando di recuperare i voti dell’elettorato cristiano più tradizionalista. La tattica sembra pagare e Ford recupera parte dello svantaggio nei sondaggi; alla fine però sarà Carter a conquistare la Casa Bianca.>
Nemmeno le frecciatine di Trump sull’età e le capacità mentali di Biden sono una tecnica nuova. Nel 1980 anche il presidente uscente Carter provò ad usarle contro lo sfidante Ronald Reagan, che con i suoi 69 anni era lo sfidante più vecchio mai candidatosi fino ad allora. La strategia però non funzionò contro l’ex attore di film western e Reagan chiuse il proprio intervento con una frase che entrò nella storia dei dibattiti politici. Guardando in camera, si rivolse ai telespettatori con una semplice domanda: “State meglio ora rispetto a quattro anni fa?”. Per gli americani, che uscivano da anni di inflazione alle stelle e bassa crescita economica, la risposta era scontata e l’anziano Reagan si portò a casa dibattito, voti e mandato presidenziale.
Certo, un’intervista a Playboy non può essere paragonata a un’inchiesta del New York Times, né si può dire che le continue interrruzioni di Trump e i toni aggressivi nei confronti dello sfidante non abbiano giustamente attirato critiche veementi. Quello che ci preme sottolineare è che però la storia dei dibattiti insegna però che non ci sono battute d'arresto da cui un candidato non possa rialzarsi e che la partita per la Casa Bianca resta aperta fino all’ultimo giorno.
Per saperne di più
‘This is the worst nightmare for the Trump campaign’
David Siders e Charlie Mahtesian, Politico
The Economist
What’s next
- 5 giorni al dibattito tra Mike Pence e Kamala Harris (7 ottobre)
- 13 giorni al secondo dibattito tra Donald Trump e Joe Biden (15 ottobre 2020)
- 32 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)