Nuovo record di contagi negli Stati Uniti che si preparano a festeggiare il 4 luglio tra polemiche e nuove misure di contenimento. Il presidente Trump crolla nei sondaggi e fa dietrofront sulle mascherine: “mi piacciono, mi fanno sembrare il cavaliere solitario”.
What’s up?
Negli Stati Uniti la pandemia è lontana dall’essere superata. I contagi continuano ad aumentare e oggi, con 53.000 nuovi casi positivi, si è registrato un nuovo record di infezioni. Il bilancio totale dall’inizio dell’epidemia è di più di 2,7 milioni di contagi. I morti nelle ultime 24 ore sono stati 649, mentre il bilancio complessivo è di oltre 128mila decessi. La maggior parte dei nuovi casi si concentra soprattutto in Arizona, California, Florida e Texas ma il tasso dei contagi è in crescita anche in altri stati che per questo stanno ricominciando a chiudere o comunque a reintrodurre restrizioni di vario genere. Se la California ha ripristinato il lockdown sul 75% del territorio, il Texas del governatore repubblicano Greg Abbott, stretto alleato del presidente, ha vietato i raduni con oltre 10 persone e imposto l’ordine di coprirsi il volto negli spazi pubblici nelle contee con 20 o più casi di covid-19.
L’aumento dei contagi preoccupa nonostante le rassicurazioni del presidente Donald Trump, che però questa settimana ha detto di essere “assolutamente favorevole” all’uso della mascherina, e anzi ha precisato di averla indossata in più di un’occasione anche perché gli piace e lo fa assomigliare al “cavaliere solitario”.
Il presidente ha comunque deciso di sfidare il coronavirus, volando questa sera con la first lady Melania al Monte Rushmore, la “‘montagna dei presidenti” da dove darà il via alle celebrazioni per il 4 luglio, festa d’indipendenza, con un discorso davanti a migliaia di persone. La decisione, neanche a dirlo, ha scatenato una ridda di polemiche da parte di chi teme un’impennata dei contagi e il rischio di incendi e danni vari che lo spettacolo pirotecnico potrebbe causare all’ecosistema dell’area, dichiarata zona protetta. Ma soprattutto ha fatto infuriare i nativi delle tribù Sioux del South Dakota impegnate in un’annosa campagna di rivendicazione delle Black Hills, considerate sacre, come loro territorio ancestrale. “I fuochi di artificio di Trump sono un atto di arroganza e dissacrazione – ha dichiarato il presidente della tribù Oglala Sioux, James Bear Runner – È come se cercasse di fare i fuochi di artificio al Vaticano”.
Se non fosse abbastanza ci sono altre cose accadute nel corso della settimana che val la pena segnalare. La prima è che la Repubblica islamica d’Iran ha spiccato un mandato di cattura contro 35 alti ufficiali americani, tra cui il presidente in carica, per l’uccisione a gennaio scorso del generale Qassem Soleimani, comandante dei Guardiani della Rivoluzione. L’accusa per “omicidio e terrorismo” riguarda il raid aereo con cui gli Stati Uniti uccisero Soleimani mentre si trovava a Baghdad, dopo mesi di tensioni tra Teheran e Washington.
Ma posto che difficilmente l’Interpol darà seguito alla richiesta di un mandato di cattura internazionale contro il presidente degli Stati Uniti, non è questa la vicenda della settimana che ha creato più imbarazzo all’inquilino della Casa Bianca.
Secondo il New York Times, Donald Trump avrebbe ricevuto nel mese di febbraio dall'intelligence americana informazioni sulle ‘taglie’ offerte dall’intelligence militare russa ai talebani per uccidere soldati USA e della coalizione in Afghanistan. La domanda che in molti si fanno, in queste ore, è: Cosa sapeva Trump? E perché, avvisato di una cosa così grave, non ha fatto nulla? Nonostante le smentite della Casa Bianca e del Pentagono a difesa del presidente, che sostengono che non c’era certezza sulle informazioni e che per questa ragione non gli era stato riferito niente, diversi interrogativi restano in sospeso.
“Non è chiaro se il presidente Trump non fosse a conoscenza delle presunte taglie russe in Afghanistan, o se lo sapesse ma decise di ignorarle. Nessuna delle due ipotesi sembra buona – osserva il deputato Dem Adam Shiff sul New York Times – Questo è il genere di cose che dovresti sapere se decidi di invitare la Russia a tornare nel G-8”.
Sempre sul NYT, Susan Rice, già Consigliere per la Sicurezza nazionale e ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, firma un editoriale durissimo in cui afferma: “Nella migliore delle ipotesi, il nostro comandante in capo non adempie ai suoi doveri, presiedendo un processo di sicurezza nazionale pericolosamente disfunzionale che sta mettendo a rischio il nostro paese e coloro che indossano l'uniforme. Nel peggiore dei casi, la Casa Bianca è gestita da bugiardi e idioti che si rivolgono a un presidente tirannico che favorisce i nefasti interessi del nostro avversario”. Un editoriale talmente potente da aver fatto schizzare il suo nome – donna, afroamericana, ex consigliere per la sicurezza e democratica – in cima alla lista delle possibili vicepresidenti per Joe Biden.
Insomma, per Trump quella che sta per concludersi sembra essere un’altra settimana da dimenticare. La cattiva gestione dell'emergenza sanitaria, le polemiche sul razzismo, l’economia che – sebbene in ripresa – porterà ancora a lungo i segni del crollo causato dalla pandemia, contribuiscono ad affossare la sua popolarità. Secondo l'Economist, Donald Trump non avrebbe oggi più del 10% di possibilità di vincere le elezioni contro Joe Biden. I repubblicani temono una sconfitta clamorosa e qualcuno avanza un’ipotesi choc: la possibilità che il presidente decida di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Negli ultimi giorni si sono rincorse le voci di un possibile ritiro di Donald Trump dalle elezioni presidenziali. I sondaggi lo danno stabilmente in svantaggio su Biden – lo sfidante prevale sul presidente 46% a 38% tra gli elettori registrati – ma l’analisi di alcune centinaia di elezioni (presidenziali, congresso, senato, governatore) mostra che in presenza di un consenso per l’operato dell’incumbent pari al 40%, questi ha il 50% di probabilità di essere rieletto: oggi il 39% approva l’operato di Trump (41% tra gli elettori registrati).
Dunque, sulla base della serie storica dei dati la partita non può essere considerata chiusa, ma molto dipenderà dall’evolversi della pandemia (la preoccupazione per il Coronavirus questa settimana fa segnare un aumento di 4 punti attestandosi all’81%) e dal suo impatto sull’economia e sull’indice di fiducia dei consumatori americani.
I temi caldi
Nelle ultime settimane, nel dibattito politico negli Stati Uniti hanno fatto irruzione una serie di sentenze pronunciate dalla Corte Suprema che hanno messo in seria difficoltà il presidente Trump e sconvolto l’elettorato conservatore. Da giudici in maggioranza vicini a posizioni conservatrici e alla sensibilità repubblicana, infatti, non ci si aspettava certo pronunciamenti in difesa dei diritti lgbtq, dei figli di migranti irregolari o del diritto all’aborto. Qual è allora il motivo dietro le sentenze “progressiste” delle ultime settimane? I giudici supremi stanno lanciando un messaggio al presidente?
Per quanto possa essere una tesi affascinante, non ci sono prove che i giudici della Corte Suprema stiano facendo in qualche modo “opposizione al presidente”. Intanto val la pena chiarire subito che i numerosi pronunciamenti di questi giorni non sono casuali: con l’avvicinarsi della conclusione del semestre di lavoro, la Corte deve finire di giudicare i casi che ha seguito da ottobre. Nonostante qualcuno avanzi l’ipotesi che il Chief Justice John Roberts – che in tutte e tre le sentenze ha votato in linea con i giudici più progressisti – si stia dissociando da Trump, la spiegazione più verosimile, per la quale uno o più giudici conservatori si sono schierati a fianco dei colleghi più progressisti è un’altra. Non è politica, ma ha piuttosto a che fare con la filosofia del diritto – e quindi l’interpretazione della legge – che ciascuno dei membri della Corte ritiene essere corretta. Per spiegare le recenti sentenze progressiste e capire se davvero la Corte Suprema USA è diventata improvvisamente “di sinistra”, allora, è bene andare a leggere la spiegazione che i vari giudici hanno dato del proprio voto.
Partiamo dalla sentenza del 15 giugno che ha stabilito che le discriminazioni contro persone lgbtq sul luogo di lavoro sono illegittime. Dietro al voto favorevole dei due giudici conservatori Roberts e Gorsuch non c’è nessuna conversione politica o ideologica. Anzi, i giudici sono giunti alla loro conclusione adottando un approccio popolare tra i giudici conservatori, quello “testualista”, ovvero quello di interpretare alla lettera il testo della legge, al contrario di chi sostiene che le leggi vadano invece interpretate in base al contesto attuale. Secondo la loro interpretazione della legge, in tutti e tre i casi le vittime gay e transgender di discriminazione sul lavoro non avrebbero perso il loro posto di lavoro se fossero state del sesso opposto. Hanno quindi concluso che “è impossibile discriminare una persona per essere omosessuale o transgender senza discriminare quell’individuo per il suo sesso”; le discriminazioni su base sessuale sono vietate dal Civil Rights Act. Ecco allora spiegato il voto dei giudici conservatori: una sentenza che non dice nulla, di per sé, sulla loro opinione personale verso le persone lgbtq.
Anche la sentenza del 18 giugno che ha protetto dal rischio di espulsione i “dreamers”, i giovani arrivati minorenni negli USA in modo irregolare, non lascia ipotizzare un cambio di opinione dei giudici conservatori. Come spiega Roberts nella sua motivazione firmata anche dai quattro giudici liberal, l’ordine esecutivo di Trump è stato invalidato dalla Corte solamente a causa di un vizio procedurale e la sentenza non si esprime sul merito del DACA, il programma che ha concesso la cittadinanza ai “dreamers”. Una questione puramente amministrativa, dunque, che non garantisce che il Chief Justice esprimerà pareri progressisti, in futuro, in materia di immigrazione.
Allo stesso modo, la sentenza del 29 giugno che ha protetto il diritto delle donne in Louisiana ad avere accesso a cliniche in cui si praticano aborti non può definirsi una “svolta femminista” dei giudici, tanto più che Roberts ha chiarito la ragione del proprio voto in un giudizio separato da quello dei suoi quattro colleghi liberal. Per Roberts la ragione del voto si chiama stare decisis (in latino: “Restare su ciò che è stato deciso”): è il principio secondo cui, nei sistemi di legge basati su common law come Regno Unito e USA, le corti devono tenere conto delle sentenze precedenti sull’argomento che sono chiamati a giudicare. Nell’esempio specifico dell’aborto in Louisiana, le parti in causa facevano riferimento a una legge del Texas su cui la Corte Suprema si era già espressa nel 2016. I giudici hanno quindi rispettato lo stare decisis, confermando la sentenza emessa quattro anni fa (su cui, peraltro, lo stesso Roberts si era espresso contrariamente).
Risultano quindi prive di fondamento le accuse mosse da Donald Trump ai giudici, accusandoli di aver pronunciato sentenze politicizzate, al solo scopo di danneggiarlo in campagna elettorale. Ciascun membro della Corte ha ovviamente le proprie opinioni sui temi che considera, ma agli occhi dei giudici supremi sembra esserci una cosa più importante del favorire la parte politica che si preferisce: difendere l’indipendenza e la legittimità della massima autorità costituzionale e della magistratura degli Stati Uniti.
Il personaggio
Ago della bilancia in tutte e tre le sentenze che nelle ultime settimane hanno sorpreso in negativo il presidente è stato proprio il Chief Justice – il presidente della Corte Suprema – John Roberts. Per questo, negli ultimi giorni, Roberts è stato travolto da un’ondata di critiche da parte dei sostenitori di Trump, che lo accusano di aver politicizzato le sue decisioni e abbandonato la linea conservatrice.
Classe 1955, Roberts nasce a Buffalo, New York, e cresce in Indiana, dove suo padre è manager di un’acciaieria mentre la madre è una casalinga. Roberts studia in una scuola cattolica privata dove sin da subito si dimostra un alunno brillante in vari campi: primo della classe, ma anche capitano della squadra di calcio e rappresentante degli studenti per il discorso di commiato. Laureato in Storia ad Harvard, Roberts sogna inizialmente di diventare un professore di storia, ma iscrivendosi alla Harvard Law School, scopre una vera passione per il diritto. Le sue posizioni conservatrici emergono fin dagli anni universitari, ma il giovane giurista è rispettato anche dai tanti studenti liberal del campus per il suo carattere onesto e corretto. Finiti gli studi, lavora prima come assistente in una Corte di appello a New York ma la vera svolta nella sua carriera avviene quando, dopo qualche anno, si sposta alla Corte Suprema a Washington per lavorare come assistente del giudice William H. Rehnquist, nominato da Ronald Reagan. Qui Roberts si fa notare dagli altri conservatori e viene identificato come una ‘nuova leva’ su cui puntare.
Nel 1981, Roberts entra a far parte dell’amministrazione Reagan, assunto prima come assistente del procuratore generale WIlliam French Smith e poi come consigliere legale dell’amministrazione. Nel 1986, si sposta nel settore privato, dove resterà tre anni prima di tornare a lavorare per la Casa Bianca per richiesta di George W. H. Bush, che lo nomina prima vice procuratore e poi giudice d’appello. Il Senato a maggioranza democratica, però, non conferma la sua nomina e, con l’elezione del presidente democratico Bill Clinton, Roberts torna a lavorare nel suo vecchio studio legale. In questi anni, si sposa e adotta due bambini. La nomina alla Corte di appello arriva poi nel 2000 con Bush figlio, che come il padre apprezza la figura brillante e sicura di Roberts. Passerano cinque anni prima del salto di qualità definitivo, quando viene nominato per sostituire il suo vecchio capo Rehnquist come presidente della Corte Suprema. A 50 anni, Roberts diventa il più giovane Chief Justice degli ultimi 210 anni della storia statunitense.
Se le sue sentenze su temi come le discriminazioni, le libertà religiose, l’accesso all’aborto e le norme elettorali, sono rimaste negli anni di orientamento chiaramente conservatore, Roberts ha disatteso le aspettative votando due volte per l’Affordable Care Act (o “Obamacare”) e rifiutando di aggiungere una domanda sulla cittadinanza voluta dall'amministrazione Trump nel censimento di quest’anno. Con le dimissioni dalla Corte Suprema del giudice Anthony M. Kennedy nel 2018 e la nomina di Kavanaugh, il Chief Justice si è trovato in qualche modo a fare da vero e proprio ago della bilancia tra i membri della Corte. I suoi voti sono diventati sempre più decisivi negli scontri più serrati, quelli in cui la corte era spaccata a metà. Inoltre, il suo ruolo di presidente gli garantisce una libertà di azione che Roberts ha più volte ribadito, sottolineando l’indipendenza dei tribunali dalla politica, e che non sempre è stata ben accolta in ambienti repubblicani. Lo scontro più evidente è stato nel 2018 quando Trump ha chiamato un giudice federale “giudice di Obama” dopo una sentenza che non lo favoriva. Il Chief Justice ha risposto spiegando che non esistono “giudici di Obama” o “di Trump” ma piuttosto “una magistratura indipendente per la quale tutti dovrebbero essere grati”. È considerato uno dei giudici della corte suprema più potenti degli ultimi decenni e – secondo autorevoli commentatori – un esempio di repubblicano “che potrebbe salvare il Gop da sé stesso” e dalla sua deriva trumpiana.
In our view
Il commento di Mario Del Pero, professore SciencesPo
Corsa per la Casa Bianca: siamo ad una svolta?
Che si sia davvero a una svolta? I sondaggi che danno oggi Joe Biden in crescita e nettamente avanti su scala nazionale e nei principali swing states di novembre c’indicano che vi è stata un’effettiva rottura? Che una soglia di resistenza (o di supporto a Trump) è stata finalmente abbattuta?
Politics on the rocks
C’è un video che fatto il giro di social e notiziari della sera questa settimana negli USA. Non si tratta, stavolta, del video di un omicidio ai danni di un afroamericano ma non ha mancato di suscitare scalpore e testimoniare il clima incandescente di queste settimane. È girato a St Louis, nel Missouri, dove centinaia di manifestanti hanno marciato per chiedere le dimissioni della sindaca, la democratica Lyda Krewson, poiché aveva letto e risposto live su Facebook alle lettere di alcuni cittadini che avevano chiesto una riforma del dipartimento di polizia, rendendo però noti anche i loro dati personali. Durante la marcia, alcuni dei manifestanti sono entrati in una via privata e hanno raggiunto il giardino di una villa. Ad attenderli sul patio hanno trovato i padroni di casa, una coppia di avvocati con pistola e fucile d’assalto alla mano, che hanno intimato alla folla di andarsene. Le immagini hanno ovviamente fatto notizia e il video è stato condiviso dallo stesso presidente Trump, che anziché cercare di calmare gli animi, continua a gettare benzina sul fuoco.
Nonostante sia stato rimosso poco dopo, il video della coppia di St Louis ha attirato critiche feroci contro la Casa Bianca. Pochi giorni prima, Trump aveva condiviso un altro video, che mostra alcuni suoi sostenitori in una comunità di pensionati in Florida, The Villages, e in cui ad un certo punto un uomo grida: “White power”, uno slogan associato ai movimenti suprematisti bianchi. Dopo aver rimosso il tweet, la Casa Bianca si è affrettata a chiarire che il presidente non aveva sentito il grido razzista, precisando però che il suo era un messaggio di incoraggiamento ai suoi sostenitori troppo spesso demonizzati dai media: “Il presidente è comunque vicino agli uomini e alle donne di The Villages” ha spiegato un’addetta stampa del governo alla Fox.
Una situazione che rimane dunque molto tesa nonostante in molti chiedano un cambio di rotta generale e un abbassamento dei toni rispetto alle agitazioni delle ultime settimane. Ma da quell’orecchio Trump non ci sente e ha liquidato le critiche ad alcune sue uscite – come il tweet in cui minacciava di far aprire il fuoco contro i saccheggiatori – come tentativi di censura da parte di paladini del politically correct. Stretto tra la crisi economica, un’epidemia che rischia di sfuggire totalmente al controllo e i sondaggi in caduta libera, il presidente si è arroccato su posizioni difensive e nei suoi messaggi sembra più interessato a incitare la sua base elettorale che a cercare di ricucire gli strappi della società americana.
Per saperne di più
Why June Was Such a Terrible Month for Trump
Maggie Haberman, Jonathan Martin e Alexander Burns, The New York Times
Trump’s Mount Rushmore fireworks shed light on his history with Native Americans
Anita Kumar, Politico
What’s next
- 45 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 52 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)
- 124 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)