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Weekly Focus n.15

Weekly Focus USA2020: La caccia alle statue

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
13 giugno 2020

Oltre due milioni di contagi negli Stati Uniti. Donald Trump crolla nei sondaggi, mentre cresce la fronda interna ai Repubblicani. E in diversi stati prosegue la campagna per 'impacchettare' o rimuovere le statue dei generali confederati e dei monumenti considerati simbolo di razzismo e schiavismo. 

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What’s up?

Venti dollari. È tanto che vale la vita di un uomo nero oggi negli Stati Uniti? A formulare la domanda è stato Philonise Floyd, fratello di George, nella sua audizione al Congresso statunitense, riferendosi al motivo dell'arresto di suo fratello fermato per una sospetta banconota da 20 dollari. Una domanda che ricorre nelle case americane, mentre attivisti e politici, chiedono a gran voce una profonda riforma della polizia, accusata in molte città, di agire con brutalità e discriminare gli afroamericani.

Così, mentre negli Stati Uniti i contagi da coronavirus superano quota 2 milioni, e in una decina di Stati l'epidemia non ha ancora raggiunto il suo picco, il presidente Donald Trump ha deciso di riprendere la campagna elettorale. Il primo comizio, ha annunciato, sarà a Tulsa, in Oklahoma, il prossimo 19 giugno. Una scelta che può non dire molto a chi ci legge ma che negli Stati Uniti è apparsa né più né meno che come una provocazione. Proprio Tulsa, infatti, tra il 31 maggio e il primo giugno del 1921 fu teatro di quella che forse è la peggior strage a sfondo razziale della storia recente degli Stati Uniti. Qui un gruppo di bianchi attaccò e diede alle fiamme le case del distretto nero della città, Greenwood, servendosi persino di aerei per sganciare sul quartiere bombe incendiarie. Negli incendi appiccati a case, negozi e bar, morirono circa 300 persone mentre alcuni cittadini afroamericani sostennero che gli stessi poliziotti si unirono alla folla inferocita. Molti dei sopravvissuti lasciarono Tulsa, mentre chi rimase mantenne il più rigoroso silenzio per decenni sull’accaduto fino a quando una commissione di inchiesta, nel 1996, non cercò di ristabilire almeno la verità storica di quei fatti per cui, comunque, nessun responsabile fu mai individuato. Ecco, in breve, il luogo che Donald Trump ha individuato per la ripresa della sua campagna elettorale a due settimane dalla morte di George Floyd e mentre le strade americane ancora ribollono per le proteste di #blacklivesmatter.

Intanto il Partito Repubblicano ha deciso che la convention di quest’anno, in cui Trump otterrà formalmente la nomination per le elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre – si terrà a Jacksonville, in Florida, e non più a Charlotte, in North Carolina, come previsto. La decisione è stata presa dopo che il governatore dello stato, il Democratico Roy Cooper, non aveva garantito la partecipazione del pubblico (circa 50mila persone) a causa delle misure restrittive imposte per il coronavirus.

Quanto allo sfidante democratico Joe Biden, con le ultime primarie avrebbe raggiunto “il numero magico” di 1.991 delegati necessari per assicurarsi la nomination. E mentre l’ex vicepresidente di Barack Obama vola nei sondaggi estacca Donald Trump di 14 punti, vibra una stoccata all’avversario: in un’intervista al Daily Show con Trevor Noah, Biden ha detto di temere che Trump“cercherà di rubare le elezioni” e che potrebbe rifiutarsi di riconoscere un’eventuale sconfitta, nel qual caso i militari “dovranno scortarlo fuori dalla Casa Bianca”.

Last but not least, uno sguardo all’economia: secondo il National Bureau of Economic Research (NBER), organizzazione privata statunitense che si occupa di studi economici, a febbraio gli Stati Uniti sono entrati in recessione per la prima volta dal 2009. E se la disoccupazione frena, dando un primo timido segnale di ripresa, le borse affondano. La paura è che la fine del lockdown, insieme alle numerose manifestazioni di protesta per la morte di George Floyd, possano portare ad un aumento dei casi, come in parte sta già avvenendo. Uno scenario su cui si è espresso anche il segretario al Tesoro statunitense, Steven Mnuchin, che senza mezzi termini ha precisato: "Non possiamo chiudere un'altra volta l'economia americana".

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

Il divario tra chi approva e chi disapprova l’operato di Donald Trump raggiunge il punto più elevato degli ultimi mesi: 18%. Mentre il 39% degli americani approva l’azione del presidente, il 57% è di parere opposto. Il presidente sembra pagare l’onda lunga dei fatti di Minneapolis e delle proteste che hanno infiammato gli USA: oggi, solo il 38% degli americani pensa che il presidente sia in grado di tenere unito il paese, contro il 57% che teme che il presidente non sia in grado di farlo.

Dall’altro lato Trump recupera terreno rispetto alla gestione dell’emergenza sanitaria: approvano la sua azione il 43% dei cittadini, contro il 40% della scorsa settimana, mentre cala la quota di chi dà un giudizio negativo all’operato del governo su quel fronte (il 52% dei cittadini, contro il 54% di sette giorni fa). Complice è anche il fatto che stia calando la percentuale di americani preoccupati per il coronavirus (73%, in flessione di 6 punti percentuali rispetto alla scorsa settimana). 

 

I temi caldi

Travolti dalla pandemia e da un’ondata di proteste che denunciano l’esistenza di un intero sistema razzista e discriminatorio, gli Stati Uniti guardano ormai all’election day di novembre come al momento che deciderà il futuro del paese. In molti ritengono che il voto sarà un referendum su Trump, il suo operato e la sua visione dell’America e del mondo. Un po’ in sordina ma continuano quindi le primarie, presidenziali ma anche per i candidati al Senato e alla Camera: martedì si è votato in Georgia, Nevada, North Dakota, South Carolina e West Virginia. Votare non è stato sempre semplice: in particolare in Georgia ci sono state lunghe code ai seggi, che hanno addirittura costretto molti cittadini a rinunciare. A causare i rallentamenti, in alcuni casi di cinque o sei ore, sono stati vari problemi: i nuovi dispositivi per lo spoglio non hanno funzionato bene, non c'erano schede elettorali a sufficienza e il numero complessivo di seggi era troppo basso a causa della riduzione di personale dovuta al Covid. Problemi che si sono verificati soprattutto nelle contee con più elettori afroamericani. Una coincidenza? Può darsi, ma è bastato a riaprire il dibattito su un tema spinoso: quello sulla “voter suppression”, il fenomeno per cui alcune categorie di cittadini, soprattutto tra le minoranze, lamentano una limitazione del diritto al voto.

Compiere 18 anni negli Stati Uniti non significa infatti poter votare automaticamente. Ciascuno stato richiede ai cittadini procedure diverse per potersi iscrivere al registro elettorale, e dato che negli USA non esiste un unico documento di identità valido a livello federale, anche i documenti considerati ammissibili per presentarsi ai seggi variano da stato a stato. Il documento più comune è la patente, ma in altri casi vengono accettate anche tessere universitarie, tesserini da insegnante, certificati di nascita o persino il porto d’armi. Documenti che però non sono automaticamente rilasciati a tutti i cittadini e che, in pratica, sono meno diffusi tra le minoranze. Questo è solo uno dei molti altri fattori che hanno storicamente contribuito a una distorsione del diritto di voto negli USA, e che viene esercitato soprattutto tra i cittadini neri e quelli ispanici. Altri fattori che contribuiscono alla “voter suppression”, sono la limitazione del voto via posta (come abbiamo già spiegato) e il cosiddetto il gerrymandering, ovvero la pratica di ridisegnare in modo strategico i confini dei collegi elettorali.

La questione risale al passato schiavista degli Stati Uniti. Dopo la guerra civile e l’abolizione della schiavitù, infatti, gli stati del sud approvarono una serie di leggi discriminatorie – note come le leggi Jim Crow – che miravano a mantenere in atto la segregazione razziale in tutti i luoghi pubblici, dalle scuole ai bar e mezzi di locomozione. Alcune di queste leggi si applicavano anche al voto: al sud, ma anche in alcuni stati del nord, venivano richiesti test di alfabetizzazione, verifiche di comprensione, certificati di residenza o anche il pagamento di un'imposta per votare. Strumenti che miravano precisamente a escludere dal voto gli afroamericani.

Le leggi Jim Crow rimasero in vigore fino al Civil Right Acts del 1964 e al Voting Rights Act del 1965, che vieta norme di voto discriminatorie, come per esempio i test di alfabetizzazione e impedisce a governi statali e locali di cambiare le norme di voto senza aver prima ottenuto consenso a livello federale. Quest’ultimo aspetto è successivamente stato rimosso nel 2013 con una controversa sentenza della Corte Suprema secondo cui la norma non era più “al passo con i tempi”. Il pronunciamento ha così ridato campo libero ai governi di molti stati per reintrodurre leggi più stringenti sul diritto di voto, denunciate come discriminatorie.

Il dibattito sulla “voter suppression” non è una novità, né il voto di martedì è stato la prima occasione di forti polemiche in Georgia: già due anni fa le operazioni di voto per l’elezione del governatore erano finite nell’occhio del ciclone e limitazioni, ritardi e discriminazioni erano state indicate da alcuni come la vera causa della sconfitta della candidata democratica Stacey Abrams (ne avevamo in parte parlato ripercorrendo la storia). Quanto accaduto alle primarie in Georgia non sembra dunque di buon auspicio per le elezioni di novembre in uno stato che è storicamente una roccaforte repubblicana ma che quest’anno è in bilico e potrebbe diventare determinante per ottenere la maggioranza al Senato.

 

In numeri

Pochi giorni fa il sindaco di New York ha promesso di tagliare i fondi alla polizia. Lo stesso ha fatto quello di Los Angeles. La città di Minneapolis, invece, ha addirittura deciso di sciogliere e riformare completamente il proprio dipartimento di polizia. Dopo l’uccisione di George Floyd e le proteste che ne sono seguite, qualcosa si sta muovendo nell’opinione pubblica americana: il numero di persone che appoggiano Black Lives Matter – il movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico (vedi cosa abbiamo scritto la settimana scorsa) – è salito nelle ultime due settimane quasi quanto aveva fatto negli ultimi due anni, e politici e amministratori hanno preso atto del cambiamento in corso.

Al centro del dibattito di questi giorni c’è uno slogan che può suonare radicale: “defund the police”, cioè tagliare i fondi alla polizia. L’idea è quella di reindirizzare parte dei fondi attualmente assegnati alla polizia verso altri programmi pubblici: welfare, istruzione, sostegno alle fragilità psichiche, inserimento lavorativo. Programmi che, si auspica, possano prevenire o comunque ridurre significativamente criminalità e violenza. Come spiega Kamala Harris, senatrice della California il cui nome circola sempre di più come possibile vicepresidente per Joe Biden, “defund the police” significa ripensare la sicurezza pubblica così da prevenire i problemi invece che curarli.

Fino agli anni ’80, i governi (federale, statali, locali) stanziavano più o meno la stessa cifra per la giustizia penale (polizia, prigioni e tribunali) di quanto veniva speso in sussidi ai cittadini (assistenza per le famiglie bisognose, food stamps, assistenza per anziani e disabili). Dall’inizio degli anni ’90 però, la spesa per polizia, giustizia e carceri ha iniziato ad aumentare, trainata dalla “guerra alla droga” e raggiungendo un picco nel 2010. In parallelo, i tagli alla spesa facevano rapidamente calare i sussidi monetari.

Se negli ultimi 40 anni, i fondi per la polizia sono rimasti abbastanza costanti, intorno al 3,7% del Pil, in termini assoluti invece, sono quasi triplicati: da $42 miliardi di dollari nel 1977 sono passati a $115 nel 2017. Per fare un paragone, il Centre for Disease Control (che sta coordinando oggi la lotta al coronavirus) ha un budget di $11 miliardi, e l’Agenzia di Protezione dell’Ambiente ha un budget di $9 miliardi. La sola città di Los Angeles – dove la settimana scorsa il sindaco Eric Garcetti ha dichiarato di voler tagliare 150 milioni di dollari alla polizia – spende per la polizia 1,8 miliardi e in alcune città quasi la metà del bilancio municipale è assorbito dalle forze dell’ordine nonostante il numero di crimini violenti sia calato significativamente negli ultimi 30 anni. Quello che gli attivisti di “defund the police” chiedono è che una parte dei fondi stanziati per la polizia venga girato invece alle comunità locali per sostenere l’istruzione e le attività sociali che – soprattutto in certi quartieri – possono contrastare le attività criminali, formando e fornendo alternative ai giovani.

La proposta di “defund the police” rimane comunque molto impopolare, e non solo per Trump e per il mondo repubblicano. Questa settimana anche Joe Biden si è detto contrario alla possibilità di tagliare fondi alla polizia. Il candidato Dem sa bene che esprimersi a sostegno della proposta lo esporrebbe alle accuse dei repubblicani di cedere agli “estremisti” e che questo potrebbe costargli molti voti tra i moderati. Per questo, anche la proposta democratica presentata da Kamala Harris e Cory Booker alla Camera, definita il più importante sforzo della storia recente per riformare la polizia, si concentra soprattutto sulla responsabilizzazione degli agenti in caso di comportamento violento o inappropriato. Tra le sue misure più importanti, oltre a vietare la presa al collo durante gli arresti e la creazione di un registro nazionale di cattiva condotta dei poliziotti, infatti, la proposta vuole porre fine alla politica della “qualified immunity”, che proteggi gli agenti dalle denunce. Non si parla invece di tagli ai fondi. Anche in questo formato “soft”, però, non è affatto scontato che l’iniziativa otterrà il sostegno del Senato a guida repubblicana.

 

In our view

Il commento di Giovanni Borgognone, professore Università di Torino

La fronda e la silent majority

Negli ultimi giorni, alcuni dei più autorevoli media statunitensi, dal New York Times a CNN, hanno segnalato il formarsi di una possibile “fronda” all’interno del Partito repubblicano. Le reazioni incendiarie e divisive (come sempre) di Donald Trump alle manifestazioni di protesta divampate negli Stati Uniti contro il razzismo hanno infatti spinto alcuni esponenti “storici” del Grand Old Party a prendere esplicitamente le distanze da lui. Si tratta in particolare dell’ex presidente George W. Bush (di recente quasi “riabilitato” dai media in funzione anti-Trump), del senatore dell’Utah e candidato presidenziale del 2012 Mitt Romney e dell’ex segretario di Stato Colin Powell.

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Dal campo repubblicano

Sono settimane difficili per il presidente, sotto tutti i punti di vista: coronavirus, proteste, recessione, sondaggi in discesa. E se in un momento di difficoltà anche gli amici ti voltano le spalle, la situazione si fa ancora più cupa: negli ultimi giorni, sono diversi i repubblicani di spicco nel partito che si stanno smarcando da Donald Trump. Non è una novità: era già successo nel 2016, ma allora in molti pensavano che il tycoon non sarebbe stato eletto. Dopo la vittoria inattesa contro Hillary Clinton, il trumpismo aveva letteralmente espugnato il Grand Old Party. Oggi invece, smarcarsi dalla corsa di Trump per la rielezione a novembre significa erodere la base che sostiene il candidato repubblicano. Ciononostante la fronda di dissidenti è ampia:

Colin Powell, l’ex generale e Segretario di Stato sotto George W. Bush, ha dichiarato lo scorso weekend che voterà per Biden alle elezioni presidenziali. Non è la prima volta che Powell vota per il partito democratico (nel 2012 aveva votato per la rielezione di Obama). Il suo nome si aggiunge a una lunga lista di generali e alti ranghi dell’esercito americano contrariati dalle ultime mosse del presidente e che in questi giorni si sono opposti alla possibilità di ricorrere all’esercito contro le proteste. Anche il capo di stato maggiore congiunto, il generale Mark Milley, si è scusato per aver preso parte alla passerella di Trump davanti alla chiesa episcopale di St. John per scattare una foto in cui reggeva una Bibbia in mano. Poco prima, anche i predecessori di Milley, Mike Mullen e Martin Dempsey avevano condannato l’uso della forza contro i manifestanti.

George W. Bush, 43esimo presidente degli Stati Uniti. Secondo il New York Times, l’ex presidente non voterà per Trump alle elezioni di novembre. Il suo portavoce ha smentito la notizia, ma tra Bush e Trump già non correva buon sangue. Già a maggio il presidente aveva accusato il suo predecessore di non averlo sostenuto durante il processo di impeachment. La distanza è perfino aumentata dopo che i due hanno dato risposte molto differenti alle proteste.

Mitt Romney, senatore dello Utah e candidato presidenziale contro Obama nel 2012, è stato l’unico membro del GOP a votare contro Trump nel processo di impeachment. Trump lo ha definito uno “stupido” e un “candidato alla presidenza fallito”. Questa settimana, Romney ha partecipato alle proteste di Black Lives Matter, anche se ha detto che per ora non si vuole esprimere sul voto di novembre.

Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska. Settimana scorsa, Murkowski ha commentato positivamente le parole dell’ex Segretario della Difesa James Mattis contro Trump e ha ammesso di essere indecisa su chi votare a novembre. Trump ha risposto promettendo che sosterrà chiunque si candiderà contro di lei nel 2022. Anche il deputato repubblicano della Florida Francis Rooney ha ammesso che sta considerando di votare per Biden a novembre, perché Trump starebbe “facendo impazzire” i repubblicani e la sua gestione del coronavirus avrebbe provocato molte morti evitabili.

La lista continua e include anche ex deputati come l’ex senatore repubblicano Jeff Flake e l’ex rappresentante rep Mark Sanford. Insomma, Trump è sempre più in difficoltà e i suoi senatori ne sono consapevoli. Per questo, chi si gioca la rielezione per la Camera o il Senato a novembre sta cercando di prendere le distanze dal presidente, per esempio non menzionandolo nelle proprie pubblicità elettorali. Una strategia ben nota in politica ma che con Trump risulta di difficile attuazione: il presidente in carica, infatti, non è disposto farsi mettere da parte.

 

Politics on the rocks

Una settimana fa, Ralph Northam, governatore democratico della Virginia, ha annunciato che la statua del generale confederato Robert E. Lee nella capitale dello stato sarebbe stata rimossa. Anche se la decisione è stata bloccata dal tribunale, misure simili sono state prese in molte altre città degli Stati Uniti.

Con le proteste, si è riacceso infatti un dibattito che non si era mai veramente spento: se rimuovere o meno i monumenti e le statue di protagonisti della storia americana in vario modo legati al passato schiavista e coloniale degli USA. Le polemiche hanno coinvolto anche l’esercito USA, che si è detto pronto a cambiare il nome di 10 basi militari intitolate a generali confederati, prima che Trump bloccasse l’iniziativa.

La questione era tornata alla ribalta nel 2015, dopo che il suprematista bianco Dylann Roof aveva fatto irruzione in una chiesa di Charleston, South Carolina, uccidendo 9 persone. Su internet erano poi comparse foto di Roof in posa con la bandiera confederata e altri simboli del suprematismo bianco. Dieci giorni dopo l’attentato, l’attivista Bree Newsome aveva scalato il pennone di fronte al parlamento statale e aveva rimosso la bandiera confederata. Da allora è iniziata un’intensa campagna per la rimozione di tutti i simboli legati ai confederati che i suprematisti bianchi – nostalgici della segregazione razziale – hanno adottato come simbolo, compresi le centinaia di monumenti e statue. Nell’agosto 2017 la campagna aveva portato anche a scontri con la destra estrema, finito con un morto e dozzine di feriti in Virginia.

La morte di George Floyd ha riacceso la contestazione, con l’abbattimento di altre statue e monumenti negli USA. Un’ondata censoria si è abbattuta persino sui film: ha fatto scalpore la notizia che HBO aveva rimossa dal proprio catalogo “Via col Vento”, la pellicola di Victor Fleming diventata un cult del cinema hollywoodiano, che mette in scena una versione edulcorata della schiavitù negli stati del Sud ai tempi della guerra civile. Sul tema, l'opinione pubblica si è divisa. Tralasciando i nostalgici e i suprematisti bianchi, da un lato c’è chi sostiene che monumenti e prodotti culturali, piacciano o meno, facciano parte del bagaglio storico della nazione e vadano dunque lasciati al loro posto. Dall’altro lato, invece, le voci sempre più numerose di chi chiede che il valore storico e il significato di molti monumenti vengano ridiscussi e che la storia, anche se non cancellata, venga almeno messa in un museo.

Il dibattito ha oltrepassato i confini nazionali e anche l’Europa in questi giorni ha dovuto fare i conti con il proprio passato razzista e colonialista.

 

Per saperne di più

History Will Judge the Complicit

Anne Applebaum, The Atlantic

America’s Original Sin

Annette Gordon-Reed, Foreign Affairs

 

What’s next

- 66 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)

- 73 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)

- 144 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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Paolo Magri
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ISPI Research Assistant

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