Donald Trump crolla nei sondaggi, il coronavirus costringe molti stati a richiudere tutto e i deputati del partito repubblicano tramano per non andare alla Convention di fine agosto. Ma il presidente scende in campo per la "guerra dei fagioli".
What’s up?
A tre mesi e mezzo dal voto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sostituisce il responsabile della sua campagna elettorale Brad Parscale con il vice Bill Stepien. Parscale sconta il flop del comizio a Tulsa, in Oklahoma e il fatto di non essere riuscito ad invertire la tendenza nei sondaggi che danno lo sfidante dem, Joe Biden, avanti di 11 punti rispetto a Trump. Biden inoltre sta riducendo il gap finanziario con la campagna del presidente, grazie ai grandi donatori che stanno facendo quadrato intorno a lui. Se è vero che mancano ancora quasi quattro mesi e tutto resta possibile, il siluramento di Parscale, che resterà nel comitato di Trump come senior advisor per le operazioni digitali, è eloquente.
Intanto nel paese, l’epidemia di coronavirus continua ad apparire fuori controllo in molti stati, soprattutto del sud. Quelli che stavano riaprendo dopo il lockdown, come California, Texas e Florida, sono stati costretti a chiudere di nuovo gran parte delle attività essenziali, mentre ogni giorno segna un nuovo record nel numero di contagi giornalieri. Sono 77.255 nelle ultime 24 ore. Mentre il numero totale dall’inizio dell’epidemia si attesta rispettivamente a 3.576.157 casi e 138.358 morti.
Una parziale buona notizia per Donald Trump è arrivata questa settimana dalle primarie repubblicane dell'Alabama per la corsa al Senato il prossimo novembre: l'ex allenatore di football Tommy Tuberville ha battuto l'ex ministro della Giustizia Jeff Sessions con cui il presidente era in rotta di collisione da quando Sessions si era auto ricusato nelle indagini sul Russiagate. Ma a scandire la settimana appena trascorsa è stata certamente una notizia che ha fatto parlare gli Americani più di Sessions e Tuberville: la decisione di cambiare nome alla squadra di football dei Washington Redskins (i pellerossa) annunciata dalla società dopo espressa richiesta del suo principale sponsor, FedEx. Oltre al nome verrà rimosso anche il simbolo con il volto del nativo americano in uso dal 1937, entrambi ritenuti fuori luogo se non razzisti. La squadra presenterà il nuovo nome e un nuovo logo prima dell’inizio della nuova stagione dell’NFL previsto a metà settembre.
Segno dei tempi che cambiano sembra essere anche la cosiddetta “battaglia del fagioli” che ha fatto irruzione nella campagna elettorale. Tutto è cominciato quando Robert Unanue, amministratore delegato di Goya, azienda leader nella vendita di fagioli e icona alimentare della comunità ispanica, ha elogiato pubblicamente Donald Trump e la sua società è diventata oggetto di una campagna di boicottaggio. Così prima Ivanka, e poi Donald Trump in persona hanno postato immagini di sé con prodotti della marca Goya. Ne è scaturita un’accesa polemica sull’opportunità ed eticità di un tale comportamento da parte di un presidente degli Stati Uniti e sua figlia.
Nel frattempo, Joe Biden ha annunciato un nuovo piano da 2mila miliardi di dollari in quattro anni per l'energia pulita e la lotta al cambiamento climatico. “Donald Trump pensa sia una bufala, io no e credo sia anche un'occasione per creare posti di lavoro, infrastrutture, nuove opportunità economiche” ha spiegato dichiarando che il suo obiettivo è di raggiungere una produzione di energia completamente pulita entro il 2035.
La carta del clima, insomma, per strizzare l’occhio agli elettori della sinistra più radicale e più “green” – quella di Sanders per intenderci – senza perdere la fiducia e l’attenzione degli elettori democratici più tradizionali. Il piano accoglie parecchie delle raccomandazioni appena stilate dalla Biden-Sanders Unity Task Force, il gruppo di esperti che sta provando a fare una sintesi tra le posizioni dei due candidati per puntare alla vittoria su Trump alle prossime elezioni.
Infine, mercoledì notte, si è verificato un attacco informatico considerato il più grande Hack della storia di Twitter: in un colpo solo sono stati hackerati gli account dell'ex presidente Usa Barack Obama, di Joe Biden, del Ceo di Tesla Elon Musk, del patron di Amazon Jeff Bezos e del fondatore di Microsoft, Bill Gates. Ma anche, tra gli altri, di Michael Bloomberg, Apple e Uber. Un’operazione ampia e finalizzata alla truffa: sugli account delle vittime sono comparsi messaggi con l'offerta di raddoppiare i pagamenti inviati ai loro indirizzi Bitcoin. I post sono stati rimossi in poche ore ma l’azienda ha dimostrato di non essere riuscita a difendere profili pubblici seguiti da milioni di utenti con conseguenze potenzialmente disastrose: L’incidente ha sollevato interrogativi inquietanti: che cosa può impedire a un gruppo di hacker di utilizzare account Twitter dei leader del mondo, certificati con bollino blu, per diffondere bugie sulle emergenze nazionali, le guerre o le elezioni di novembre?
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Per la prima volta il tema della sanità supera le questioni economiche nelle priorità dei cittadini americani, e la moralità scavalca la disoccupazione.
Torna ad aumentare la preoccupazione per il Coronavirus (da 79% a 81%), soprattutto tra gli elettori repubblicani presso i quali di registra un balzo di 7 punti (da 66% a 73%) e rimante elevata la distanza tra quanti disapprovano l’operato di Trump (56%) e coloro che lo apprezzano (40%). Aumenta anche il vantaggio di Biden sull’incumbent nelle intenzioni di voto tra gli elettori registrati: oggi si attesta a 10 punti, 47% a 37%.
I temi caldi
Due casi, stesso tema, due sentenze opposte: Trump dovrà esibire la propria dichiarazione dei redditi ai procuratori di New York, ma non al Congresso. Ha stabilito così la Corte Suprema, in due voti approvati a maggioranza – 7 contro 2 – in cui al voto dei giudici “democratici” si sono uniti il Chief Justice John Roberts e i due giudici supremi nominati da Trump, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch. Trump ha subito criticato i pronunciamenti definendoli atti di “persecuzione politica”, un’accusa che il presidente ha lanciato spesso di recente contro la Corte Suprema, dopo una serie di sentenze a lui sgradite. Ma sull’esito della battaglia per costringere il presidente a rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi ci sono letture contrastanti. Quella che per alcuni è una vittoria, da altri viene definita una sconfitta. Come stanno davvero le cose? E che seguito avranno le sentenze?
Nel caso Trump v. Vance, il procuratore di Manhattan Cyrus R. Vance Jr ha richiesto alla società dei commercialisti di Trump, Mazars USA, di produrre le dichiarazioni dei redditi del presidente, così da poter indagare su presunti pagamenti irregolari durante la campagna elettorale del 2016. L’indagine di Vance vuole verificare se Trump o la Trump Organization abbiano falsificato i propri registri contabili per nascondere pagamenti fatti a due donne per evitare che rivelassero di avere avuto rapporti sessuali con Trump. Michael Cohen, l’ex avvocato e galoppino del presidente che sta scontando una sentenza di tre anni per frode fiscale, si è effettivamente dichiarato colpevole di aver pagato le due donne con soldi della campagna e di averlo fatto per conto di Trump. Chiedendo accesso ai dati fiscali di Trump, il procuratore di New York cerca quindi le prove della violazione delle leggi sulla Campagna elettorale.
Trump e i suoi avvocati si sono opposti, argomentando che il presidente è immune da incriminazioni penali fatte da tribunali locali: se qualsiasi tribunale e procuratore potesse chiamare in giudizio il presidente, questo verrebbe eccessivamente distratto dalle proprie funzioni. Una linea difensiva che però non ha convinto la Corte: tutti e nove i giudici hanno sottolineato che il presidente non può essere considerato immune da responsabilità legali durante il mandato, nemmeno di fronte a corti locali.
Il secondo caso, Trump v. Mazars USA, si è aperto dopo la testimonianza di Michael Cohen alla Camera, in cui l’ex avvocato ha confessato vari fatti a dir poco scomodi per il presidente. Oltre a staccare assegni irregolari per conto di Trump per zittire donne che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo durante la campagna, l’avvocato lo avrebbe aiutato a coprire i suoi rapporti con alcuni investitori russi nel negoziato per la costruzione di una Trump Tower a Mosca; avrebbe collaborato con lui per frodare il fisco e alcuni istituti di credito, dichiarando il falso sullo stato patrimoniale del presidente. Per cercare di chiarire quanto accaduto durante la campagna presidenziale del 2016, tre commissioni della Camera – a maggioranza democratica – hanno quindi chiesto a Mazars USA, Deutsche Bank e Capital One di ottenere le dichiarazioni dei redditi e altri dati fiscali del presidente. Per bloccare l’invio dei documenti Trump ha quindi fatto causa ai propri commercialisti.
Il caso è il primo del suo genere: negli ultimi 40 anni, da quando per la prima volta Nixon rese pubblica la propria dichiarazione dei redditi, il presidente degli Stati Uniti ha sempre presentato volontariamente i propri dati fiscali. Unica eccezione fu il presidente Gerald Ford, che rilasciò soltanto documenti di sintesi. In questo caso, però, la Corte Suprema ha dato parzialmente ragione al presidente: i giudici hanno spiegato che la Camera non ha il diritto di ottenere dal presidente documenti che non le servano per il proprio lavoro di organo legislativo – se potesse farlo, la separazione dei poteri verrebbe messa in pericolo. Il caso è stato così rimandato alla corte d’appello, la quale dovrà stabilire se la richiesta delle commissioni rientra tra le prerogative della Camera, se i documenti richiesti siano effettivamente pertinenti ai lavori dell’assemblea e se l’iniziativa non sia il risultato di politiche “di partito”.
Nonostante il presidente sia uscito non del tutto indenne dalle due cause, Trump è però riuscito a sfuggire al rischio più immediato: dover presentare agli elettori americani poco prima delle elezioni, i suoi bilanci che secondo alcune inchieste nasconderebbero centinaia di milioni di dollari di perdite e di tasse non pagate. I tempi del processo portato avanti dal procuratore di New York, infatti, saranno ancora lunghi e probabilmente andranno oltre il fatidico 4 novembre. La Camera, al contrario, avrebbe potuto muoversi molto più in fretta, ma dovrà ora attendere la nuova decisione della corte d’appello. Insomma, il presidente ha vinto una battaglia, ma la guerra è ancora lunga.
In numeri
L’ha scampata per il rotto della cuffia Roger Stone, l’ex consulente politico di Trump condannato a 40 mesi di carcere per intralcio alla giustizia e corruzione di testimoni in un processo sulle presunte interferenze russe nelle elezioni del 2016. Il presidente infatti non si scorda degli amici, specialmente se vittime della “bufala sulla Russia”, e così venerdì scorso ha commutato la sentenza di Stone, che non dovrà più scontare la pena. Come il Presidente della repubblica in Italia, il presidente degli Stati Uniti ha il potere di graziare o commutare la pena ai condannati.
Il potere di grazia del presidente USA, stabilito dalla Costituzione e specificato dalla Corte Suprema, concede al presidente la possibilità di commutare la pena (riducendola, senza però eliminare la condanna) o graziare un condannato, eliminando la condanna dalla sua fedina penale. Al di là del caso Stone, la presidenza Trump ha visto molti meno episodi di pardon presidenziali rispetto agli otto anni della precedente amministrazione di Barack Obama: dal 2016 a oggi, Trump ha concesso 25 grazie e ha commutato 11 condanne; nei suoi due mandati, Obama aveva concesso 212 pardons e commutato oltre 1.700 condanne – un record. Molte delle decisioni di Obama, prese per la grandissima maggioranza durante il suo secondo mandato, avevano riguardato criminali di “basso profilo”, spesso condannati a pene molto dure per reati di droga relativamente poco gravi. Obama ha sempre difeso le sue decisioni in materia, spiegando che commutare la pena per questo tipo di reati significava concedere una seconda possibilità a chi aveva subito una severa condanna a causa di “leggi antiquate”.
Ma se la decisione di Trump su Roger Stone è dunque perfettamente legittima e non è una rarità negli USA, perché tanto clamore?
Per le decisioni sulla grazia o la commutazione di pena, il presidente in carica si affida in genere alle raccomandazioni dell’Office of the Pardon Attorney, che controlla le migliaia di richieste di grazia che arrivano ogni anno alla Casa Bianca. Talmente tante che molte non riescono nemmeno ad arrivare alla scrivania del presidente: ad oggi, sono oltre 14mila le richieste che ancora attendono di essere processate. La maggior parte delle decisioni di clemenza di Trump, però, hanno bypassato l’ufficio del Pardon Attorney, andando a beneficiare pochi condannati “di spicco”, appartenenti all’alta società, legati alla Casa Bianca o che avevano visto il proprio caso finire sui media – in particolare nei programmi di Fox News, il canale tv preferito dal presidente.
Non è certo la prima volta che una decisione di clemenza del presidente USA finisce sotto accusa. Già Bill Clinton nelle ultime ore della sua presidenza aveva concesso la grazia ad alcuni condannati, implicati in uno scandalo finanziario che aveva toccato lui e la moglie Hillary. Nel 2017, l’opinione pubblica USA si era poi spaccata sulla decisione di Obama di graziare Chelsea Manning, l’ex analista militare che aveva trafugato e pubblicato i documenti riservati dai quali aveva preso il via il caso WikiLeaks. Ma mai prima d’ora il potere di concedere la grazia era apparso come uno stratagemma per ricompensare collaboratori politici, fedelissimi e alleati caduti in disgrazia.
Il personaggio
Tra i lobbisti più potenti e influenti dell’area Repubblicana, Roger Stone è stato tra i primi a credere nel 2016 in Donald Trump, un candidato “estraneo” alla tradizione del partito, di cui ha curato aspetti importanti per la campagna elettorale. L’amicizia di 40 anni che lega Stone al presidente ha poi dato i suoi frutti: condannato a 40 mesi di carcere nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate, Stone ha ottenuto dal presidente la commutazione della pena, evitando così il carcere. Qual è allora la storia di questo dirty trickster (“sporco imbroglione”) della politica, come lui stesso si è definito?
Nato nel 1952 a Lewsiboro, New York, da genitori di origini italiane e ungheresi Stone è attratto fin da giovanissimo dal richiamo della politica: a soli otto anni, durante le presidenziali del 1960, cerca di convincere i suoi compagni di scuola che John F. Kennedy sia meglio dell’avversario Richard Nixon, raccontando in giro che quest’ultimo voleva che andassero a scuola anche il sabato. Pochi anni dopo, però, vivrà una improvvisa quanto profonda conversione al conservatorismo, finendo per restare affascinato proprio da Nixon. Giovane ventenne, Stone si trasferisce a Washington per studiare alla George Washington University, ma l’ambiente politico repubblicano lo interessa ben più dei libri: nel 1972 decide di abbandonare gli studi e inizia a lavorare alla campagna per la rielezione di Nixon, che ormai è diventato il suo modello politico. Di Nixon gli piace l’atteggiamento da “uomo del popolo” contro l’élite e la capacità di resistere agli attacchi; secondo Stone, è stato Nixon il primo a dimostrare che quellorepubblicano poteva diventare il partito dei lavoratori. L’ammirazione per Nixon resisterà negli anni, tanto che nel 2007 Stone si fa tatuare sulla schiena il volto dell’ex presidente.
Con Nixon, però, Stone ha anche il suo primo guaio con la giustizia: finisce infatti implicato nello scandalo Watergate che, di fatto, gli costa il licenziamento dallo staff del senatore Robert Dole. Poco male, Stone rimane nel giro, diventa consulente politico e aiuta a fondare la National Conservative PAC, un’organizzazione che raccoglie finanziamenti per le campagne elettorali dei candidati del partito. Lavora poi alle campagne elettorali di Ronald Reagan nel 1976 e 1980 e, con la sua alla Casa Bianca, si trova in una posizione privilegiata di vicinanza all’amministrazione. Decide di sfruttarla, aprendo una società di consulenza politica e lobbying, mettendo a frutto una ricca agenda di contatti, per entrare nelle stanze del potere. Uno dei primi clienti è proprio l’attuale presidente, che Stone aiuta a portare avanti nel suo business nel settore dei casinò. In parallelo, Stone continua a lavorare per il partito repubblicano consigliando vari aspiranti presidenti nelle loro campagne elettorali, per esempio George H. W. Bush nel 1988 e il suo vecchio capo Robert Dole nel 1996. Stone continua a muoversi come un’ombra dietro il partito repubblicano: trasferitosi a Miami, alle presidenziali del 2000 diventa una figura centrale nel contestato riconteggio dei voti in Florida, che consegneranno a George W. Bush una risicatissima vittoria alle presidenziali. Sette anni dopo, Stone perde nuovamente il lavoro dopo la rivelazione di una sua presunta minaccia al padre del governatore democratico di New York, Eliot Spitzer.
Nel corso degli anni Stone sviluppa un certo “debole politico” per Donald Trump, che vedeva come l’incarnazione del potenziale politico repubblicano anti-establishment, una caratteristica che aveva amato in Nixon. Il rapporto tra i due vive di alti e bassi: Trump notoriamente mal sopporta chi gli ruba la scena e il consulente politico - un bodybuilder in abiti su misura che snocciola “Stone’s Rules”, regole di vita a cui dice di ispirarsi – fa parte della categoria. Dopo diversi tentativi, riesce a convincere Trump a scendere in campo nel 2016. Anche se il ruolo ufficiale di Stone nella campagna elettorale durerà solo pochi mesi, la sua impronta comunicativa rimane ben impressa. La vittoria di Trump gli costa però l’ennesimo guaio con la giustizia e finisce sotto accusa nell’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze russe nella campagna presidenziale. A fine gennaio 2019 viene arrestato e a novembre è condannato a 40 mesi di carcere per sette capi d’imputazione, tra cui aver mentito al Congresso, intralcio alla giustizia e corruzione di testimoni. Ancora una volta, però, le amicizie di Stone lo ripagano: il 10 luglio 2020, il presidente Trump annuncia di avergli condonato la pena salvandolo dal carcere.
In our view
Il commento di Matthew Wilson, professore Southern Methodist University Texas
Donald Trump e la "Alt-Right": quanto sono collegati?
Dal momento in cui ha dichiarato per la prima volta che si sarebbe candidato alla presidenza degli Stati Uniti su un programma politico fortemente nazionalista, che prometteva di "make America great again", Donald Trump è stato perseguitato dalle accuse di essere troppo a suo agio con figure e movimenti esplicitamente razzisti e di estrema destra. Periodicamente, i critici hanno colto frasi o immagini nelle comunicazioni di Trump che, secondo loro, strizzerebbero l’occhio ai nazisti e ai suprematisti bianchi. È successo fin dalla campagna del 2016, quando l'ex leader del Ku Klux Klan David Duke non nascosa il suo entusiasmo per la candidatura presidenziale di Trump.
Politics on the rocks
Manca poco più di un mese alla Convention repubblicana, l’evento più atteso della campagna elettorale, in cui il presente e il suo team sperano di guadagnare un po’ di spinta tra gli elettori e galvanizzarli in vista di novembre. Peccato che, secondo voci di corridoio circolate tra i repubblicani, molti deputati stanno pensando di non partecipare. “Tutti suppongono che nessuno andrà” – spiega il deputato rep alla Camera Darin LaHood. Secondo il New York Times, sarebbero i politici locali e i membri dell’associazione nazionale del partito i più propensi a partecipare all’evento, mentre molti esponenti di spicco starebbero pensando di disertare, forse per paura di essere associati a un presidente i cui sondaggi sono in picchiata.
È stato un percorso tortuoso quello verso la Convention repubblicana di quest’anno. Originariamente prevista a Charlotte, North Carolina, è stata oggetto di un aspro braccio di ferro tra il presidente e il governatore dello stato, il democratico Roy Cooper, che non ha ceduto alle richieste di Trump per organizzare un raduno senza distanziamento sociale e misure anti Covid-19. Gli organizzatori della Convention, in programma dal 24 al 27 agosto, hanno così dovuto dividere l’evento in due. A Charlotte si riuniranno, a ranghi ridotti (336 invece dei soliti 2.500), i delegati del partito: essi dovranno votare sul programma con cui il partito si presenterà alle elezioni, che per la verità non è cambiata rispetto al programma di quattro anni fa. A Jacksonville, invece, Trump sta lavorando a organizzare il suo grande “party”.
Jacksonville si trova però in Florida, uno “swing state” che spesso ha deciso l’esito delle presidenziali ma che è anche tra quelli che stanno registrando i numeri più alti di nuovi contagi. Fino a pochi giorni fa, i funzionari repubblicani lavoravano a pieno regime per organizzare l’evento e avevano addirittura avvertito i partecipanti che avrebbero dovuto cercare hotel fuori città per via dell’alta affluenza (a un certo punto si era anche pensato di far attraccare navi da crociera nel porto della città, per offrire camere extra ai partecipanti). Ma davanti ai numeri dell’emergenza sanitaria persino il presidente si è dovuto arrendere all’idea di dover ridimensionare la Convention, limitando l’accesso ai 2.500 delegati. Soltanto per l’ultimo giorno, quando Trump terrà il suo discorso, il numero di partecipanti sarà aumentato a 7.000. Il presidente spera così di poter comunque avere la sua festa – sperando che non si trasformi in un altro dei famigerati “Covid party”.
Per saperne di più
Replacing a Campaign Manager Won’t Rescue Trump
John Cassidy, The New Yorker
Decade in the Red: Trump Tax Figures Show Over $1 Billion in Business Losses
Russ Buettner e Susanne Craig, The New York Times
What’s next
- 31 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 38 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)
- 110 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)