Negli Stati Uniti si festeggia Juneteenth, l’anniversario della fine della schiavitù, che alla luce delle proteste delle scorse settimane, assume un significato particolare. Intanto Donald Trump fa i conti con un avversario inatteso: John Bolton? No, la Corte Suprema.
What’s up?
Quello che Donald Trump proprio non si aspettava era di trovare degli avversari nei giudici in maggioranza conservatori della Corte Suprema. E invece due sentenze, partorite a distanza di pochi giorni una dall’altra, gli hanno assestato un uno-due che il presidente non aveva previsto. La prima in ordine di tempo è quella che stabilisce che nessun lavoratore può essere licenziato per via del suo orientamento sessuale o della sua identità di genere. Un pronunciamento storico, sottoscritto da sei giudici su nove, che hanno sostenuto che la legge sui diritti civili del 1964, che vieta le discriminazioni sul posto di lavoro in base al “sesso”, si riferisce anche all'identità di genere e all'orientamento sessuale. Ma è la seconda sentenza della Corte ad essersi guadagnata la maggiore eco. Si tratta del pronunciamento relativo ai Dreamers, i circa 700mila giovani immigrati che compresi in un’amnistia voluta nel 2012 da Barack Obama (Daca). La Corte Suprema ha infatti deciso che non potranno essere espulsi come avrebbe voluto Trump. La chiave di volta è stata la posizione presa dal presidente del tribunale, il conservatore John Roberts, che si è unito ai quattro giudici liberal per bloccare i piani del presidente. “Uno sparo in faccia” come lo ha definito lui, esortando i suoi elettori a correre ai seggi in novembre per consentirgli di vincere le elezioni e nominare altri giudici di destra. E ha ragione: la nomina del presidente, l'equilibrio della Corte Suprema, il volto stesso dell’America. Fa tutto parte della posta in gioco a novembre.
Oltre alle sentenze della Corte Suprema, il vento dei diritti continua a soffiare in direzione democratica: ormai quasi la metà degli americani ritiene la violenza degli agenti un problema grave per il paese. E qualcosa comincia a muoversi: l'agente che ad Atlanta ha sparato e ucciso il cittadino afro-americano Rayshard Brooks andrà a giudizio con l'accusa di omicidio. Intanto mentre New York si prepara a riaprire, in altri stati, come Oklahoma, Florida e Arizona, i casi di coronavirus continuano ad aumentare. Per il resto, la gestione dell'epidemia e delle rivolte da parte della Casa Bianca avvantaggiano sempre più lo sfidante democratico Joe Biden. Secondo l'ultima rilevazione Ipsos/Reuters, se si votasse oggi, Joe Biden vincerebbe oggi con un distacco di 13 punti.
Oggi è Juneteenth, (crasi tra le parole June e nineteenth) anniversario dell’abolizione della schiavitù. Una data particolarmente sensibile alla luce delle rivolte contro il razzismo sistemico che ancora permea numerosi ambiti della società americana.
Il governatore Andrew Cuomo ha annunciato che Juneteenth diventerà festa nazionale nello Stato di New York, dopo che la stessa decisione è stata presa anche dagli Stati di Virginia e Texas e sposata da alcune multinazionali come Twitter e Nike. Il 19 giugno "è un giorno su cui tutti dobbiamo riflettere e che è particolarmente importante in questo momento della storia", ha affermato Cuomo.
Domani Trump terrà il suo primo comizio post-lockdown a Tulsa, in Oklahoma. In un primo momento il comizio avrebbe dovuto tenersi oggi. Poi la ricorrenza di Juneteenth e il fatto di essere nel luogo del peggior massacro razziale della storia degli Stati Uniti ha imposto un cambio di data. Ciononostante il giornale cittadino Tulsa World ha pubblicato un vigoroso editoriale in cui si chiede: “Non sappiamo perché abbia scelto Tulsa, ma non possiamo trovare un solo motivo per cui la sua visita sia positiva per la nostra città”.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Settimana molto difficile per il presidente Trump che fa registrare un peggioramento di tutti gli indicatori testati: aumenta il divario tra chi disapprova il suo operato (57%) e chi lo apprezza (38%) attestandosi a ben 19 punti.
A fronte di una ripresa della preoccupazione per il Coronavirus (dal 73% al 76%), tornano ad aumentare i critici nei confronti della gestione dell’emergenza sanitaria (55%) rispetto a coloro che esprimono un giudizio positivo (40%), facendo segnare il divario più ampio dal conclamarsi della pandemia. Non sorprende, quindi, che negli orientamenti di voto Biden porti il suo vantaggio a 10 punti (43% a 33%), che salgono a 13 tra gli elettori registrati. La strada per Trump appare in salita, ma mancano poco più di quattro mesi alle elezioni, quasi un’eternità tenuto conto di ciò che potrebbe riservare il futuro prossimo in termini economici e sociali.
I temi caldi
Da lunedì, i lavoratori americani in tutti i 50 stati USA non possono più essere licenziati per il loro orientamento sessuale o la loro identità di genere; lo ha deciso la Corte Suprema, con un giudizio che passerà alla storia, votato da un’inattesa maggioranza di 6 a 3. A unirsi ai 4 giudici democratici sono stati Neil Gorsuch (primo giudice nominato da Trump, seguito poi da Brett Kavanaugh) e il Chief of Justice John Roberts. Ed è stato proprio Gorsuch a scrivere la sentenza che è stata una “sorpresa per molti” secondo il presidente, lui compreso.
Secondo Gorsuch la salvaguardia da discriminazioni in base al sesso di una persona, oltre che alla sua razza, religione e nazione di origine, decretata dal Titolo VII del Civil Rights Act del 1964 si applica anche nel caso di discriminazioni contro persone gay e transgender. Il giudizio si basa su tre casi ascoltati dalla Corte lo scorso ottobre: Donald Zarda, istruttore di paracadutismo, licenziato dopo aver scherzato con una cliente dicendole di non preoccuparsi dello stretto contatto fisico perché era gay; Gerald Bostock, ex coordinatore dei servizi sociali, che ha perso il lavoro dopo essere entrato in un campionato gay di softball; Aimee Australia Stephens, licenziata dall'azienda di pompe funebri per la quale lavorava quando ha iniziato a indossare al lavoro abiti femminili, dopo sei anni in cui si era invece presentata con abiti maschili. Secondo Gorsuch “è impossibile discriminare una persona per il solo fatto di essere omosessuale o transgender senza discriminare quell’individuo per il suo sesso” e che dunque le persone in questione sono state vittime di discriminazioni vietate dal Civil Rights Act.
Solo tre giorni prima – nel quarto anniversario della sparatoria in un gay bar a Orlando in cui erano morte 49 persone – l’amministrazione Trump aveva abrogato le disposizioni antidiscriminazione presenti nell’Affordable Care Act che includevano anche alle persone transgender, lasciandole prive di qualsiasi tipo di protezione dalle discriminazioni di dottori, ospedali e assicurazioni sanitarie. Precedentemente, l’amministrazione Trump – che di certo non si contraddistingue per la difesa dei diritti lgbtq – aveva revocato la possibilità per gli studenti transgender di usare bagni che corrispondono alla loro identità di genere e vietato loro di servire nell’esercito.
Il pronunciamento della Corte fa seguito a un’altra sentenza storica, quella in cui nel 2015 i giudici supremi dichiararono legali i matrimoni tra persone dello stesso sesso in tutti gli Stati Uniti. Allo stato attuale non esiste una normativa federale per i diritti lgbtq e molto dipende dalla legislazione dei singoli stati. Ancora oggi in 29 stati sono considerate legali pratiche discriminatorie rispetto all’orientamento sessuale o all’identità di genere in ambito lavorativo, nell’accesso ai luoghi pubblici e al mercato immobiliare. Di questi, 27 non prevedono nessuna protezione specifica contro le discriminazioni di genere.
Il futuro candidato dem alla presidenza, Joe Biden, ha elogiato la decisione della Corte Suprema, affermando: “Oggi, sostenendo che l’orientamento sessuale e la discriminazione dell’identità di genere sono vietati ai sensi del titolo VII del Civil Rights Act, la Corte suprema ha confermato l’idea semplice ma profondamente americana che ogni essere umano dovrebbe essere trattato con rispetto e dignità”.
In numeri
Happy Birthday Mr. President! Domenica Trump ha compiuto 74 anni, diventando così il secondo presidente più anziano in carica dopo Ronald Reagan, rimasto nello Studio Ovale fino a 77 anni. Trump è invece il presidente più anziano se si considera la data di insediamento: il 20 gennaio 2017 aveva infatti 70 anni e 220 giorni, ben 15 anni sopra la media (55 anni). Tra i più giovani presidenti degli Stati Uniti figurano invece Theodore Roosevelt (42 anni) diventato presidente dopo l’omicidio di William McKinley, del quale era vicepresidente e John F. Kennedy (43), il più giovane presidente mai eletto. Il predecessore di Trump, Barack Obama (47), è stato il quinto presidente più giovane al giorno dell’insediamento.
Anche dal punto di vista anagrafico quindi, la sfida per la Casa Bianca in programma a novembre è destinata a stabilire un nuovo record: se sarà rieletto Trump diventerà in assoluto il più anziano presidente in carica; se invece sarà Biden a prendere possesso della West Wing, diventerà il più anziano presidente mai eletto (a 77 anni), dopo una sfida alle primarie che ha visto come protagonisti ben 4 candidati over 70 (oltre a Biden, Bernie Sanders 78, Elizabeth Warren 70 e Michael Bloomberg 78). Non proprio lo specchio di un’America che cambia volto.
La Costituzione americana stabilisce che per diventare presidente bisogna avere almeno 35 anni. Non ci sono invece limiti di anzianità, ma comincia a fiore un dibattito su se sia il caso di introdurne, mentre c’è chi obietta che una soglia anagrafica sarebbe discriminatoria. L'ex presidente Jimmy Carter – oggi 95 anni – ha detto che non sarebbe stato in grado di svolgere il ruolo da presidente a 80 anni.
Mentre Donald Trump festeggiava il suo compleanno, hanno fatto discutere alcune immagini circolate sul web dalla cerimonia di laurea dei cadetti dell'accademia militare di West Point. Alla fine del discorso, Trump è sceso dal palco percorrendo una lunga scaletta, con un andamento che a molti è parso incerto. Se il presidente ha ribattuto che la colpa era della rampa scivolosa, resta il fatto che riflessioni e preoccupazioni sull'età e lo stato di salute fisica e mentale del prossimo uomo che siederà nello Studio Ovale paiono inevitabili.
In our view
Il commento di Fabrizio Tonello, professore Università di Padova
Trump e la macchina elettorale USA
Tutto è iniziato a metà febbraio: il 14 l’indice di Borsa Dow Jones toccava il suo massimo storico: 29.398 punti. La disoccupazione negli Stati Uniti era al 3,5% e il numero di casi confermati di Covid-19 era zero. Il 16 febbraio, per la prima volta da quando Donald Trump era entrato in carica, il consenso per la sua azione come presidente superava il dissenso: 49% di favorevoli e 48% di contrari. Si noti che normalmente circa il 55% degli americani disapprovava la sua gestione contro il 43-44% che invece gli era favorevole, quindi febbraio è stato il momento di maggior consenso in tutta la sua presidenza.
Il personaggio
È una lotta contro il tempo quella dell’amministrazione Trump contro la pubblicazione, prevista per il 23 giugno, del libro “The room where it happened”, scritto dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. L’uscita inizialmente prevista per marzo è stata rimandata già due volte a causa del processo di revisione del National Security Council, che vaglia i libri scritti da ex funzionari di governo che hanno avuto accesso a informazioni classificate. Il Dipartimento di Giustizia ha denunciato Bolton che ha deciso di proseguire con la pubblicazione senza l’ok del NSC, lamentando che Trump ha abusato del processo di revisione per motivi politici. Il giorno dopo la denuncia sono uscite le prime rivelazioni del New York Times, Wall Street Journal e Washington Post sui contenuti del libro, bestseller su Amazon ancor prima di uscire. E il presidente non sembra uscirne proprio bene.
Ma facciamo un salto indietro. Classe 1948, Bolton nasce a Baltimore, Maryland, figlio di un vigile del fuoco e una casalinga. Si rivela subito un ragazzo brillante: ottiene tre borse di studio che gli permettono di studiare prima alla scuola privata McDough, poi a Yale e infine alla Yale Law School. Convinto conservatore e anticonformista, Bolton è un outsider in un’università liberal; a favore dell’intervento americano in Vietnam fa però in modo di non essere arruolato per una guerra che considera già persa. Dopo la laurea nel ‘74, entra in uno studio legale e 11 anni dopo comincia la sua carriera politica nel Dipartimento di Giustizia con Ronald Reagan. Continua a lavorare come funzionario anche con George W. Bush, ricoprendo vari incarichi fino alla nomina nel 2001 a Sottosegretario di Stato per il Controllo delle Armi e Affari di Sicurezza Internazionale. Qui si immerge completamente in quello che sarebbe diventato uno dei temi principali del suo lavoro: lo studio della minaccia nucleare. Diventa così una figura chiave dell’amministrazione Bush allo scoppiare della Seconda guerra del Golfo, scatenata dalle accuse mosse all’Iraq (poi rivelatesi false) di possedere armi chimiche. Nel 2005, Bush lo nomina ambasciatore alle Nazioni Unite: una istituzione che Bolton considera da sempre inefficace e inutile, ma dove riesce a far approvare le sanzioni alla Corea del Nord.
Bolton diventa un frequente commentatore di Fox News, il canale preferito del presidente, e arriva così dritto al cuore di Trump. Inizialmente il tycoon è indeciso se sceglierlo come consigliere perché non convinto dal suo “look” (soprattutto dai suoi folti baffi) e dalle voci che girano sul suo pessimo carattere. Alla fine però lo nomina suo terzo Consigliere alla Sicurezza Nazionale. Nel suo nuovo ufficio, Bolton appende al muro una copia dell’ordine esecutivo con cui Trump rompe l’accordo sul nucleare iraniano, una causa per cui Bolton si spendeva da tempo. Del suo consigliere il presidente apprezza la figura dura, lo stile di lavoro razionale e l’approccio pragmatico a multilateralismo e diplomazia. D’altra parte, mentre Trump tende verso l’isolazionismo, Bolton crede in una politica estera espansiva, che non esiti a intervenire per difendere gli interessi statunitensi all’estero. I due si troveranno su posizioni divergenti in occasione del ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente e nei processi di distensione con paesi quali la Corea del Nord e la Russia. Nel giro di un anno la differenza di vedute diventa incolmabile e Bolton annuncia le proprie dimissioni; puntualmente smentito da Trump, che precisa invece di averlo licenziato.
La ferita rimane aperta e diventa più evidente nelle settimane del processo di impeachment contro Trump. Se inizialmente aveva scelto di non testimoniare alla Camera, Bolton si offre poi di testimoniare al Senato, pur consapevole del fatto che la maggioranza repubblicana avrebbe evitato di convocarlo. E così è stato: il Senato procede a assolvere il presidente, mentre Bolton finisce di redigere la sua opera, oggetto di un contratto editoriale da 2 milioni di dollari. In questa settimana sono cominciate a circolare le prime anticipazioni sul libro in cui non solo si confermano le pressioni sull’Ucraina da parte di Trump per far partire un'indagine sul figlio di Joe Biden, ma si racconta come il presidente abbia chiesto al leader cinese Xi Jinping di aumentare l’acquisto di prodotti agricoli made in Usa per aiutarlo a conquistare i voti degli stati rurali. Dal libro escono poi altre rivelazioni, alcune inquietanti (la comprensione mostrata da Trump verso la politica di repressione di Xi Jinping nei confronti della minoranza uigura) e altre imbarazzanti (la domanda del presidente se la Finlandia facesse parte della Russia o se il Regno Unito avesse la bomba atomica).
Non si fa fatica quindi a comprendere l’avversione di Trump per un libro che nel migliore dei casi lo dipinge come inadeguato, né la sua irritazione nel leggere le prime anticipazioni pubblicate dai giornali. Secondo il presidente, il libro è pieno di bugie, scritte per screditarlo da un “sick puppy” (questo il nomignolo che ha affibbiato a Bolton) che cerca vendetta per essere stato licenziato.
Politics on the rocks
Le elezioni americane si avvicinano e anche i social media si preparano ad affrontare il run-up al giorno fatidico. Da martedì scorso, gli utenti americani di Facebook e Instagram possono scegliere di non visualizzare gli spot elettorali dei candidati, dei Super Pac e di altre organizzazioni. Un'opzione che potrebbe poi essere estesa ad altri paesi e che ha l’obiettivo dichiarato “di aiutare oltre 4 milioni di americani a registrarsi per votare”.
Il tema del rapporto tra social media e messaggi politici era finito nell’occhio del ciclone qualche settimana fa quando il Ceo di Twitter, Jack Dorsey, aveva deciso di oscurare parzialmente un tweet del presidente passibile a suo avviso di incitare alla violenza. Da allora il rapporto di Trump con il social dell’uccellino azzurro – di sicuro il preferito del presidente e da cui lancia spesso cinguettii al vetriolo – è entrato in una fase burrascosa. Trump ha firmato un ordine esecutivo per chiedere di ridurre le protezioni di cui godono, in modo che vengano ritenuti responsabili legalmente dei contenuti pubblicati dagli utenti e Twitter ha bollato diversi cinguettii del presidente come “informazioni manipolate” invitando gli utenti a verificarne i contenuti.
Le dichiarazioni di Trump segnalate da Twitter non erano invece state immediatamente condannate da Mark Zuckerberg, il Ceo dell’altro gigante dei social, Facebook. Secondo Zuckerberg, infatti, non è compito di Facebook essere “l’arbitro della verità”. Dichiarazione che però gli era costata numerose critiche, comprese quelle del candidato dem Joe Biden. Offrendo agli utenti la possibilità di nascondere la pubblicità elettorale dai propri profili, Zuckerberg ha spiegato di voler favorire la trasparenza e la responsabilità della campagna elettorale, sottolineando che “la responsabilità è tale solo se è visibile”.
Due giorni fa Facebook ha preso un’altra decisione dirompente: la piattaforma ha censurato la pubblicità politica condivisa sul social dal comitato elettorale di Trump, spiegando che i contenuti “violano il divieto di incitamento alla violenza”. Nei post, la condanna delle azioni di gruppi “antifa e di sinistra estrema” veniva accompagnata dall’immagine di un triangolo rosso rovesciato, simile a quello usato dal regime nazista sulle fasce che marcavano gli oppositori politici. La notizia arriva a una settimana da un altro polverone sollevato da un tweet in cui Trump, indicando i servizi segreti che hanno il compito di proteggere la Casa Bianca, aveva usato l’acronimo S.S. - una sigla immediatamente collegata ai reparti scelti dell’esercito del Terzo Reich.
Per saperne di più
Bolton's bombshell book shows it's still possible to be shocked by Trump's presidency
Julian Borger, The Guardian
Recent Supreme Court decisions show it can be hard for presidents to dictate its direction
Michael Scherer, The Washington Post
What’s next
- 59 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 66 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)
- 137 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)