Tutti gli stati USA hanno terminato la fase del lockdown e iniziato a riaprire, seppur a velocità diverse. Intanto spunta un video del presidente Trump che indossa una mascherina durante una visita in fabbrica, ma lui polemizza: “non volevo dare ai media la soddisfazione di vedermi così”.
What’s up?
Tutti i 50 Stati americani hanno iniziato a riaprire dopo il lockdown anche se in alcune zone del paese il numero di contagi resta alto. Le riaperture, in alcuni casi soltanto parziali, sollevano numerosi interrogativi mentre fa discutere l’ennesima dichiarazione choc di Donald Trump: “Il fatto che abbiamo oltre un milione e mezzo di contagiati – ha detto – dev’essere per noi motivo di orgoglio perché indica un alto numero di test”. Intanto spunta, per la prima volta, un video del presidente che indossa la mascherina durante la visita ad una fabbrica della Ford in Michigan. Il presidente, che si è sempre rifiutato di indossarne in pubblico polemizza: “non vorrei dare ai giornalisti questa soddisfazione”. L’impianto è uno di quelli riconvertiti per far fronte all’epidemia di coronavirus, passando dalla produzione di automobili a quella di ventilatori polmonari per le terapie intensive.
Intanto però, il partito repubblicano sta considerando l’ipotesi di rinviare o comunque ridurre la portata della Convention di fine agosto a Charlotte, in Nord Carolina, durante la quale Trump riceverà ufficialmente la nomination per le elezioni di novembre. Un’ipotesi al vaglio anche tra i Democratici, la cui Convention è prevista a Milwaukee una settimana prima, e che stanno valutando la possibilità di trasformarla un incontro totalmente virtuale. Segno che in entrambi gli schieramenti sono in pochi a credere che l’emergenza sarà passata nei prossimi tre mesi. E mentre il bilancio delle vittime americane supera i 94.000 morti, avvicinandosi a grandi passi alla soglia psicologica dei 100.000 indicata da Trump nelle prime settimane di epidemia, uno studio della Columbia University rivela che le misure di distanziamento sociale fossero state prese una settimana prima, avrebbero salvato 36mila persone.
Nell’ultima settimana sono state presentate 2,44 milioni di richieste di sussidi per la disoccupazione, portando a 38,6 milioni il numero di persone rimaste senza lavoro dall'inizio della pandemia. Una situazione tanto più preoccupante perché, secondo diversi analisti, molti dei lavori andati persi non si ricreeranno nel breve periodo. Con molta probabilità gli Stati Uniti dovranno adottare un altro pacchetto di aiuti economici, ha detto il segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, avvertendo che se non si prenderanno misure drastiche “i danni all’economia americana potrebbero diventare permanenti”.
Ed è sul piano delle responsabilità per la pandemia che si è giocato l’ultimo, acceso, confronto nella guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. Il presidente americano ha pubblicato su Twitter il contenuto di una lettera inviata al direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, accusando l’organizzazione di essere un burattino nelle mani di Pechino e minacciando di sospendere definitivamente i finanziamenti se l’organizzazione “non si impegna su sostanziali miglioramenti nei prossimi 30 giorni”.
In un’era di nazionalismi arrembanti, la dimostrazione plastica del declino (inesorabile?) del multilateralismo, è costituita dalla competizione spietata e neanche troppo sotterranea per accaparrarsi il vaccino. Una corsa – osserva il Financial Times – che potrebbe paradossalmente rallentarne la creazione a danno di tutti. Unione Europea, organismi internazionali e paesi emergenti ci stanno provando ma ai due capi del mondo non sembrano ascoltare. Se il presidente cinese Xi Jinping ne fa una questione di prestigio internazionale, Donald Trump sa che è sull’antidoto al coronavirus che potrebbe giocarsi la sua rielezione e non intende fare sconti a nessuno.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Economia e occupazione rappresentano la principale preoccupazione per un terzo dei cittadini americani. La salute rappresenta il top of mind per uno su cinque. A seguire il tema dell’immigrazione, prioritario per il 7%. Salute e immigrazione sono i temi che polarizzano maggiormente i due elettorati. Il consenso per l’operato del Presidente si mantiene stabile al 41%, mentre la maggioranza assoluta (54%) lo disapprova.
Non stupisce, quindi, che gli orientamenti di voto facciano registrare un vantaggio di 8 punti di Biden su Trump (43% a 35%), che sale a 9 punti tra gli elettori registrati (47% a 38%). Si tratta di un vantaggio “virtuale”, non solo perché mancano più di 5 mesi alle elezioni presidenziali, ma anche perché, come noto, la vittoria non dipende solo dal numero di voti ma dalla distribuzione nei singoli stati.
I temi caldi
Dopo settimane di accuse via tweet contro le autorità cinesi, il presidente Trump ha dichiarato in un’intervista a Fox News che potrebbe “tagliare del tutto” le relazioni tra Stati Uniti e Cina. Uno scenario improbabile, ma che sottolinea le tensioni tra le due potenze e riaccende il dibattito attorno al “decoupling”, il progressivo sganciamento dell’economia americana da quella cinese, almeno in alcuni settori considerati strategici.
Dall’inizio della presidenza Trump, si è iniziato a parlare sempre più spesso e sempre più apertamente di una “nuova guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina, le due più grandi economie e le principali potenze politico-militari del mondo. Un processo che in realtà aveva già preso il via con la presidenza Obama, che aveva progressivamente diminuito l’impegno americano in Europa e nel Medio Oriente, per concentrarsi su una nuova politica estera più orientata attorno all’area del Pacifico e ritrovandosi a fare i conti con una Cina sempre più protagonista.
Ma il confronto tra le due superpotenze non è solo politico, militare e ideologico. La competizione tra Washington e Pechino si riflette anche nei rapporti economici e finanziari che legano strettamente le due superpotenze. Gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale della Cina mentre il Regno di Mezzo è il terzo partner commerciale degli Usa. Con oltre mille miliardi di dollari, la Cina è anche il più grande detentore di debito pubblico americano dopo il Giappone. Inoltre, negli anni la Cina si è presentata come territorio privilegiato per le aziende americane in cerca di manodopera a costi ridotti.
In alcuni settori strategici, tuttavia, questa stretta interdipendenza ha mostrato anche dei potenziali rischi. Il caso più eclatante ha riguardato la tecnologia del 5G, il cui leader mondiale, la cinese Huawei, rischia secondo Washington di lasciare aperta alle autorità di Pechino una backdoor per carpire informazioni che metterebbero a repentaglio la sicurezza nazionale. Un’altra area in cui la dipendenza USA dalla Cina potrebbe diventare problematica è quella delle cosiddette “terre rare”, minerali fondamentali per la componentistica hi-tech e prodotti per oltre i due terzi dalla Cina.
Per ridurre la dipendenza in questi ed altri settori strategici, a Washington si sente sempre più spesso parlare di “decoupling”. Questo processo di “disaccoppiamento”punterebbe in sostanza a tagliare le catene del valore che legano le due sponde del Pacifico e spostarle verso altri paesi asiatici “amici” (ad esempio l’India, il Vietnam, la Corea del Sud) o a riportarle in patria (“reshoring”). Un processo che – se messo in pratica – segnerebbe la fine dell’era della globalizzazione, sottomettendo le logiche di mercato a esigenze politiche e di sicurezza nazionale.
Per spingere in questa direzione, Trump ha puntato su una guerra commerciale che, a colpi di dazi e quote alle importazioni dalla Cina, ha reso più costoso importare componentistica, semilavorati e materie prime. Oltre a riequilibrare la bilancia commerciale tra i due paesi, la cosiddetta “guerra dei dazi” avrebbe anche l’obiettivo implicito di spingere le aziende americane e i loro fornitori a sganciarsi dalla Cina. Gli effetti si sono visti nel giro di pochi mesi: nel 2019 la Cina ha perso la prima posizione tra i partner commerciali degli USA – superata da Canada e Messico – e gli investimenti diretti cinesi negli USA sono diminuiti nettamente, fino a toccare nel 2019 il punto più basso da dieci anni. Lo scorso anno ha anche visto una forte accelerazione di un processo già in corso da alcuni anni e che vede l’industria manifatturiera statunitense spostare le proprie catene del valore dalla Cina verso altri paesi come Vietnam e Messico.
L’esplosione del coronavirus e i dubbi sulla gestione dell’emergenza da parte cinese hanno aggiunto nuova diffidenza poiché gli americani hanno sperimentato in prima persona i rischi derivanti dal dipendere da altri per la fornitura di materiale sanitario e respiratori durante una crisi sanitaria. Almeno su questo tema, democratici e repubblicani sono d’accordo nello spingere verso una ridefinizione dei rapporti e stanno elaborando proposte per invogliare le società americane ad abbandonare la Cina, in cambio di agevolazioni fiscali e sussidi.
Un fenomeno lento, ma dalle conseguenze potenzialmente destabilizzanti, dato che allenta i freni inibitori necessari a trattenere entro livelli di guardia la rivalità tra le due superpotenze. In questo scenario, dunque, non possiamo dunque contare su mesi tranquilli sul fronte delle relazioni internazionali. Al di là dell'esito delle elezioni di novembre e del proseguire o meno delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, dunque, il processo “decoupling” sembra destinato a proseguire in futuro. Non a caso si è iniziato a parlare di nuove catene del valore, più “regionali” e nuovi blocchi economici: Stati Uniti da un lato, Cina dall’altro - e in mezzo Bruxelles.
In our view
Il commento di Gianluca Pastori, professore Università Cattolica del Sacro Cuore
Gli attacchi portati nelle ultime settimane da Donald Trump all’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e al suo presunto atteggiamento ‘accomodante’ verso la gestione da parte di Pechino dell’emergenza COVID-19 nascono dalla convergenza di diversi fattori. Da una parte, essi esprimono la difficoltà che il Presidente continua a dimostrare nella gestione concreta della pandemia e delle sue conseguenze. La diffusione di COVID-19 negli Stati Uniti ha, infatti, colpito due tradizionali ‘punti forti’ del Presidente: i buoni risultati sul piano economico degli ultimi quattro anni e la promessa che il ridimensionamento del profilo internazionale di Washington e l’adozione di una postura più apertamente unilateralista avrebbero accresciuto la sicurezza del Paese e il benessere dei suoi cittadini.
Il personaggio
Cene di gala nei saloni del Dipartimento di Stato; lo staff trasformato in dogsitter per il cane Sherman o mandato a ritirare il bucato in lavanderia; aerei di Stato usati per volare in Kansas – dove potrebbe candidarsi al senato. È su questi ed altri casi di uso “disinvolto” di fondi pubblici da parte del Segretario di Stato americano Mike Pompeo che si concentrava l’inchiesta di Steve Linick, ex ispettore generale dello State Department USA. “Ex” perché Linick, nominato dall’amministrazione Obama, è stato licenziato una settimana fa dal presidente Trump su richiesta dello stesso Pompeo. Le inchieste dell’ex ispettore toccavano però anche dossier più scottanti, come una vendita di armi per 8 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, approvata bypassando il Congresso facendo appello alla “emergenza” della minaccia iraniana. Se l’obiettivo era quello di spegnere i riflettori puntati su Pompeo, però, il licenziamento di Linick rischia di ottenere il risultato opposto.
Classe 1963, Michael Pompeo nasce a Orange, California, in una famiglia working-class. Si dimostra da subito uno studente brillante, primo della classe in ingegneria all’accademia militare di West Point. Dopo alcuni anni passati nell’esercito in Germania, Pompeo, si congeda con il grado di capitano, si iscrive all’università di legge di Harvard e dopo la laurea, lavora come avvocato in uno studio legale. Nel 1998, sceglie di cambiare radicalmente la sua vita, divorziando dalla moglie – sua partner dai tempi del college – e si trasferisce a Wichita, Kansas, dove apre un’azienda di componenti per aviazione. A Wichita, Pompeo diventa diacono di una chiesa evangelica presbiteriana e conosce i fratelli Koch, una delle più ricche famiglie americane e fedele sostenitrice delle campagne repubblicane. Dopo diverse accuse per inquinamento ambientale e alcuni problemi finanziari, nel 2006 Pompeo lascia l’impresa e diventa presidente di un’azienda nel settore petrolifero.
Nel 2011, entra al Congresso come rappresentante del 4° Distretto del Kansas sull’onda del successo del Tea Party, un’ala libertaria e molto conservatrice del Partito repubblicano, nonostante le polemiche scatenate da un suo tweet in cui si riferiva allo sfidante democratico, Raj Goyles, come un “turban topper” (una “testa di turbante”). Dopo un primo momento di opposizione all’ingresso di Donald Trump alle primarie repubblicane del 2016, Pompeo si avvicina all’attuale presidente grazie all’intercessione del suo vice Mike Pence. Così, nel 2017 Trump lo nomina direttore della CIA dopo che, da deputato, si era occupato di questioni legate all’intelligence. Quando lo scontro tra il presidente e l’allora Segretario di Stato Rex Tillerson porta alla cacciata di quest’ultimo, Pompeo coglie l’occasione e si fa avanti: Trump accetta, nominandolo State Secretary nel marzo 2018.
Su molti temi, Pompeo e Trump sono perfettamente allineati: i due condividono l’ostilità per l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto da Obama, l’impegno contro il terrorismo di matrice jihadista, e una linea dura contro l’immigrazione irregolare. In qualità di Segretario di Stato americano, Pompeo è diventato il portabandiera delle accuse mosse dall’attuale amministrazione alla leadership cinese per la gestione coronavirus e il principale sostenitore della teoria secondo cui il virus sarebbe avuto origine in un laboratorio. Le opinioni dei due divergono invece sulla Russia, rispetto alla quale Pompeo ha un approccio molto più duro di Trump. Al di là dei temi, però, la sintonia tra Trump e Pompeo deriva soprattutto da una visione simile della politica estera, basata su un approccio muscolare. Pur avendogli causato qualche imbarazzo, agli occhi del presidente, Pompeo costituisce una risorsa preziosa, per la sua capacità di tradurre gli umori e le intenzioni di Trump in un linguaggio comprensibile ai diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato.
Il futuro di Pompeo dopo le presidenziali 2020 è inscindibilmente legato alla rielezione del presidente, ma secondo molti repubblicani il Segretario di Stato ha ancora una lunga strada davanti a sé: se non come candidato senatore a novembre, qualcuno lo vede addirittura come erede di Trump alle presidenziali del 2024.
Politics on the rocks
Anche durante una pandemia, con il presidente in carica le sorprese non sembrano finire mai. Lunedì Trump ha dichiarato di assumere una pasticca di idrossiclorochina al giorno da circa due settimane, per tentare di prevenire il contagio: “che ho da perdere?” ha spiegato. In realtà, per la Food and Drug Administration (FDA, agenzia federale per la regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) qualcosa da perdere ci sarebbe: neanche un mese fa – dopo settimane che Trump spingeva per considerare l’idrossiclorochina come potenziale trattamento per il coronavirus – l’FDA aveva avvertito che il farmaco, utilizzato per trattare la malaria, il lupus e l'artrite reumatoide, non aveva efficacia provata contro il coronavirus e poteva anzi causare aritmie cardiache e altri seri effetti collaterali.
Non è la prima volta che, pur circondato da esperti di sanità pubblica, Trump ha deciso di dire la sua anche nel campo medico. Risalgono a poche settimane fa i suoi suggerimenti medici su come trattare il virus con iniezioni di disinfettante e raggi Uv. Dichiarazioni semi-serie ha chiarito poi lo stesso presidente ma che avevano costretto le autorità sanitarie a chiarire che la proposta non aveva alcuna base scientifica e anzi poteva mettere a rischio la salute dei cittadini.
Quando ad adottare comportamenti sconsigliati dagli esperti però è il presidente in persona, come nel caso dell’assunzione di pastiglie di idrossiclorochina, la questione assume un rilievo nazionale. In un’intervista alla CNN, la leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, si è detta preoccupata per la salute del presidente, considerando la sua età e il suo essere sovrappeso (“morbidly obese”). Una premura – a voler essere smaliziati – da parte di una delle sue più acerrime rivali Dem, che il presidente non ha gradito, replicando seccamente che Pelosi ha “seri problemi mentali”.
Per saperne di più
Keith Johnson e Robbie Gramer, Foreign Policy
Tom McTague, The Atlantic
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