Una settimana dopo aver annunciato di essere positivo al Covid, Trump riprende la campagna, lancia accuse contro i suoi avversari politici e rifiuta il dibattito virtuale con Biden. E Nancy Pelosi chiede una commissione per valutare lo stato mentale del presidente.
What’s up?
Mancano 25 giorni all’elezioni negli Stati Uniti e il presidente Donald Trump ha annunciato che non intende partecipare al dibattito contro Joe Biden del prossimo 15 ottobre, previsto in forma virtuale per evitare il diffondersi del Coronavirus. Dalla Casa Bianca, dove si sta curando dopo essere risultato positivo al Coronavirus, il presidente ha reso noto che riprenderà le sue attività pubbliche a partire dalla giornata di domani, sostenendo di non essere più contagioso. “Sto benissimo” ha detto Trump, in collegamento telefonico con la trasmissione Fox Business, “forse sono immune”. Un comportamento, quello del presidente, che in pochi minuti ha definito “mostro” Kamala Harris e detto che Obama e Biden sono criminali politici che “dovrebbero essere perseguiti”, che ha sollevato molta perplessità. Persino per uno come Trump. La speaker della Camera Nancy Pelosi ha convocato una commissione per valutare “lo stato mentale” del presidente: La commissione dovrà stabilire se in seguito al contagio e alle terapie – si sa che Trump è sotto corticosteroidi e un mix di farmaci tra cui antiinfiammatori steroidi – il presidente sia ancora in grado di svolgere il suo incarico. E invoca il 25esimo emendamento della Costituzione, che disciplina il caso dell'eventuale rimozione del presidente per sopravvenuta incapacità.
Il secondo dibattito tra i candidati alla presidenza si sarebbe dovuto svolgere con la presenza di un pubblico che avrebbe potuto porre delle domande. Il comitato Biden ha detto che il candidato trascorrerà la sera inizialmente prevista per il secondo dibattito a parlare con gli americani, e ha detto di auspicare che il terzo e a questo punto ultimo confronto, in programma il 22 ottobre, si svolga con le modalità previste per il secondo confronto (cioè con le domande del pubblico).
Secondo un sondaggio di Cnn pubblicato poche ore fa, lo sfidante avrebbe superato per la prima volta la soglia dei 270 grandi elettori necessari (su 538) per essere eletto presidente. Secondo Cnn se si sommano i grandi elettori degli Stati non contendibili dai Repubblicani (203) e quelli degli swing states che pendono nella sua direzione (87), si arriva infatti a 290 voti. Se questa proiezione si avverasse – significherebbe che i democratici sono riusciti a ricompattare il ‘muro blu’ negli stati del Midwest che Trump aveva espugnato nel 2016 assicurandosi la vittoria. Secondo la Cnn, Biden è in gran vantaggio fra le donne, gli indipendenti, i laureati e non bianchi, ma è ormai anche competitivo fra gli elettori maschi, i bianchi e gli anziani, dove Trump era in vantaggio nel 2016.
Ma sulla gestione dell’epidemia nel suo complesso e sul comportamento dello stesso presidente del suo staff cominciano a fioccare i distinguo anche tra i repubblicani: da segnalare, poche ore fa, quello del leader del GOP al Senato, Mitch McConnell che in intervista ha detto di mancare dalla Casa Bianca dal mese di agosto “a causa delle resistenze che ci sono lì ad indossare la mascherina e a rispettare il distanziamento sociale”. Il loro approccio sulla questione, ha tagliato corto McConnell, “è diverso dal mio”. Che la residenza di Trump e dell’esecutivo americano fosse diventata un focolaio di infezione era cosa già nota da giorni. Quasi metà dello staff presidenziale risulta ormai positivo al Coronavirus.
La pandemia è rimasta in primo piano anche durante il dibattito tra candidati alla vicepresidenza andato in onda mercoledì sera, mentre in Italia era notte fonda. Mike Pence, capo della task force incaricata di gestire l’epidemia, aveva l’ingrato compito di difendere l’operato di un’amministrazione che non è riuscita neppure a proteggere il presidente e i suoi stessi membri. E Kamala Harris non si è lasciata sfuggire l’occasione di affondare il colpo: “Il popolo americano – ha detto – è stato testimone del più grande fallimento di qualsiasi amministrazione presidenziale nella storia del nostro paese”. In quello che qualcuno ha definito un confronto “un po’ noioso” – un bel po’ rispetto a quello presidenziale verrebbe da dire, e menomale – si è parlato in maniera assai più civile e comprensibile di quanto non fosse accaduto a Cleveland fra Trump e Biden, di sanità, economia, ambiente, tasse, Corte Suprema e aborto. Secondo i sondaggi, Harris ha convinto più di Pence che ha provato ad interromperla più volte e a cui lei ha risposto, dura ma col sorriso: “signor vicepresidente, sto parlando io”.
Intanto, arriva dal Michigan una notizia che alimenta i timori di disordini in vista del voto di novembre. L’Fbi ha arrestato 13 persone, sei delle quali esponenti della galassia dell'estrema destra con l'accusa di terrorismo, associazione a delinquere e tentata cospirazione. Il gruppo noto come Boogaloo Bois voleva assaltare il palazzo del governo dello stato e rapire la governatrice democratica Gretchen Whitmer, con l’obiettivo finale di scatenare una guerra civile. Durante l’estate Whitmer era stata protagonista di un acceso confronto con il presidente Donald Trump, che l’aveva più volte criticata per aver varato un decreto con severe restrizioni anticoronavirus, per evitare il diffondersi dei contagi. “Donald Trump deve sapere che le parole che usa contano” ha commentato Joe Biden, affermando che i tweet del presidente “suonano come un incoraggiamento” per queste milizie. E ha ribadito le sue critiche a Trump che si è rifiutato di condannare esplicitamente i suprematisti bianchi.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Come era lecito attendersi, il contagio di Trump ha avuto un impatto sulle opinioni dei cittadini americani: aumenta la preoccupazione per l’Healthcare (20%) che nella graduatoria delle issues del Paese precede economia (17%) e occupazione (9%); aumenta anche la quota di coloro che disapprovano la gestione dell’emergenza sanitaria (57%), come pure aumenta il vantaggio di Biden su Trump: da 7 a 9 punti tra gli elettori registrati (49% a 40%) e da 9 a 12 punti tra i likely voters (52% a 40%).
Tra i sondaggisti continua ad aleggiare lo spettro delle presidenziali di quattro anni orsono, quando le previsioni di affermazione di Hillary Clinton furono clamorosamente smentite dall’esito finale. Grande attenzione, pertanto, viene prestata alle stime negli stati in cui tradizionalmente il risultato è più in equilibrio, ossia i cosiddetti swing States. Ebbene, nei 6 stati in questione nell’ultima settimana si è registrato un aumento del consenso per Biden che oggi si attesta a 8 punti nel Michigan, a 6 nel Wisconsin, a 5 in Pennsylvania, a 4 in Florida e a 2 in Arizona, mentre nel North Carolina Trump e Biden sono alla pari. In tutti questi Stati il consenso per l’operato dell’incumbent è più elevato rispetto alla media nazionale (che oggi si attesta al 41%), ma contestualmente la preoccupazione per la pandemia ha fatto registrare un significativo aumento. E sul Coronavirus gli americani considerano più affidabile lo sfidante.
I temi caldi
Nonostante il Commander in Chief cerchi di ritrarre la malattia come una spiacevole ma inevitabile conseguenza delle sue responsabilità presidenziali, che il presidente degli Stati Uniti debba essere ricoverato in ospedale per un virus potenzialmente mortale non è certo notizia da poco. Tutti si augurano che il presidente si riprenda senza ricadute, ma si sa che la malattia ha un andamento altalenante e, come hanno spiegato gli stessi medici del presidente, non siamo ancora in acque sicure. Cosa accadrebbe allora se il presidente fosse impossibilitato a svolgere le sue funzioni?
Se la salute del presidente peggiorasse di nuovo, questa volta compromettendo temporaneamente la sua capacità di governare (come per esempio nel caso in cui dovesse essere intubato), Trump potrebbe notificare il Congresso e invocare la sezione 3 del 25esimo Emendamento della Costituzione. La norma prevede il passaggio pro tempore dei poteri presidenziali al vicepresidente, fino a quando il presidente notifica il Congresso di essere pronto per riassumere il proprio ruolo. Non sarebbe la prima volta che questo accade: la sezione 3 è già stata utilizzato tre volte in passato: da Ronald Reagan nel 1985 per un intervento per un cancro al colon; da George W. Bush nel 2002 e 2007 per due colonscopie.
Se invece il quadro clinico di Trump dovesse peggiorare così rapidamente da non dargli tempo di notificare il Congresso, il vicepresidente e i Segretari che compongono l’esecutivo potrebbero allora invocare la sezione 4 del 25esimo Emendamento, attivando loro stessi la procedura che trasferisce temporaneamente i poteri al vicepresidente. La sezione 4 era stata citata già alcuni anni fa da alcuni critici del presidente, che volevano usarla per rimuoverlo dall’incarico – il loro tentativo, però, non aveva base legale. La procedura sarebbe comunque un evento senza precedenti nella storia degli Stati Uniti.
Non si può però escludere uno scenario ancora più grave, ovvero la morte o il ritiro di Trump dalla corsa presidenziale. Nominare un nuovo candidato spetterebbe allora ai partiti, ognuno secondo le proprie regole. Per i repubblicani, sarebbero chiamati in causa i 168 membri del Comitato nazionale del partito, che probabilmente nominerebbero il vicepresidente Pence, ma non c’è una regola scritta. Un evento simile accadde nel 1912 con la morte del candidato vicepresidente James S. Sherman a otto giorni dal voto. Considerando però che ad oggi più di quattro milioni di americani hanno già votato in anticipo o via posta, saremmo comunque fuori tempo massimo per cambiare i nomi dei candidati sulle schede elettorali.
Il problema a quel punto sarebbe la “trasferibilità” o meno dei voti originariamente raccolti da Trump a un nuovo candidato suo sostituto. Una questione cruciale per i Grandi elettori, che formalmente esercitano liberamente il proprio voto. Quest’estate, la Corte Suprema ha stabilito che i grandi elettori “infedeli” possono essere sanzionati se non votano per il candidato che ha vinto nel loro stato, ma ha anche chiarito che gli elettori non possono essere obbligati a votare per un candidato morto. La soluzione probabile a questa eventualità sarebbe il trasferimento dei voti per Trump al nuovo candidato del suo partito. Se invece il candidato vincitore dovesse morire dopo il voto ma prima dell’insediamento, si farebbe appello all’Emendamento 20 della Costituzione e i poteri passerebbero al vicepresidente eletto.
Indipendentemente dalla gravità della malattia del presidente, rimane comunque la (remota) possibilità di posticipare le elezioni. Una proposta fatta solo pochi mesi fa dal presidente, anche se per altri motivi - Trump aveva suggerito di posticipare il voto a data da definirsi per consentire ai cittadini di votare di persona senza rischi di contagio. Dopo la positività del presidente, in molti sono tornati a chiedersi se sia una strada davvero percorribile: nei quasi 250 anni di storia, le elezioni americane non sono mai state posticipate, ma il Congresso avrebbe in teoria facoltà di deliberare in proposito. Ciò che davvero conta, però, è che al di là della data delle elezioni il mandato presidenziale scade in ogni caso a mezzogiorno il 20 gennaio, come stabilito dalla Costituzione.
Al momento, tutti questi scenari sembrano molto poco probabili. Tuttavia, la malattia è imprevedibile e l’età dei due contendenti già in passato aveva fatto sorgere domande sulla possibilità che la loro situazione fisica li renda incapaci di svolgere le proprie funzioni – che la causa sia il coronavirus o qualsiasi altro rischio connesso all’aver abbondantemente superato i 70 anni.
Il personaggio
Improvvisamente il dibattito tra “i numeri due”, Mike Pence e Kamala Harris è diventato rilevante come mai prima d’ora un dibattito tra due candidati vicepresidenti. Donald Trump ha il Covid e sulle sue condizioni di salute circolano diverse versioni. Il prossimo dibattito con Biden è saltato. E questo potrebbe essere stato l’ultimo faccia a faccia non virtuale della campagna elettorale. Ma chi è l’uomo che ha affrontato Kamala Harris nel dibattito tv di mercoledì?
Il vice di Trump – figura solo apparentemente silenziosa e defilata – è in realtà il prototipo del politico americano dai solidi valori cristiani e dalle grandi ambizioni politiche. Nato a Columbus, Indiana, il 7 giugno 1959 da genitori di origini tedesche e irlandesi, profondamente cattolici e convintamente democratici, Michael Pence era un bambino goffo nello sport e non particolarmente brillante a scuola. La sua trasformazione inizia negli anni del college. Da studente di storia guadagna popolarità grazie alla sua capacità di andare d’accordo con tutti, diventa presidente della fraternity di cui fa parte e scopre una passione per il parlare in pubblico. La metamorfosi più importante dei suoi anni da studente è però quella religiosa e politica. Nel 1978, a diciotto anni, Pence abbandona il cattolicesimo e, con grande disappunto dei genitori, si converte all’evangelicalismo dopo un viaggio in macchina con alcuni compagni di università. Due anni dopo, la seconda folgorazione arriverà durante la campagna per l’elezione presidenziale: entrato in università da convinto sostenitore del democratico (e devoto cristiano) Jimmy Carter, Pence non resiste al fascino hollywoodiano e alle promesse conservatrici di Ronald Reagan.
Dopo la laurea, Pence è a un bivio della sua vita, incerto tra entrare in seminario o iscriversi a una Law School, la palestra che tradizionalmente forma i politici americani. Il padre lo convince a optare per la seconda opzione: per la tonaca c’è tempo anche dopo gli studi e Pence inizia così a studiare per diventare avvocato. È in quegli anni che incontra la futura moglie Karen, con la quale inizia a seguire una serie di norme comportamentali proposte dal pastore Billy Graham che suggeriscono agli uomini di evitare di passare tempo da soli con donne che non siano la moglie e di partecipare a eventi in cui si serve alcol solo se accompagnati dalla consorte. Un vademecum, il “Modesto Manifesto” pensato in origine per evitare comportamenti equivoci o peccaminosi, ma che negli ultimi anni si è fatto largo nell’opinione di molti americani arrivando fino a Wall Street, dove finanzieri ed executives lo usano per tenersi alla larga dal rischio di comportamenti inappropriati con il sesso opposto nell’era del #metoo.
Politics on the rocks
Nel dibattito sul voto postale, in primo piano negli ultimi mesi, gli schieramenti erano netti: Trump contrario, dem a favore. È da marzo che – contro ogni evidenza – il presidente sostiene che il voto via posta favorisca le frodi; d’altra parte i democratici fanno campagna per il voto a distanza, per evitare assembramenti ai seggi durante l’emergenza sanitaria. Nelle ultime settimane, però, qualcosa sembra essere cambiato e ora alcuni rappresentanti dem stanno chiedendo ai loro elettori di presentarsi ai seggi di persona se ne hanno la possibilità. Un cambio di opinione? Più che altro, di strategia.
Già quest’estate, i sondaggi mostravano che sarebbero stati i dem a beneficiare maggiormente dal voto via posta: a metà agosto, il 47% dei sostenitori di Biden dichiarava di voler votare via posta, contro solo l’11% degli elettori di Trump. Ora che un numero record (oltre 70 milioni) di americani ha già iniziato a votare a distanza, anche i dati mostrano che sono effettivamente gli elettori dem a usufruire di più di quest’opzione: a fine settembre, dei nove milioni di elettori che hanno richiesto le schede elettorali via posta in Florida, Pennsylvania, North Carolina, Maine e Iowa – cinque stati in bilico che rilasciano informazioni a riguardo – il 52% erano elettori registrati dem, il 28% rep.
Che molti elettori dem si affidino al voto postale, però, ha anche degli svantaggi. Il voto via posta si presta infatti al rischio che molte schede elettorali vengano rifiutate per vizi procedurali, come una mancata firma o la spedizione della scheda fuori tempo massimo. Una possibilità che il partito non può sottovalutare: alle primarie democratiche di quest’anno in Wisconsin, per esempio, sono state rifiutate oltre 23mila le schede, più della differenza di voti che consegnato la vittoria a Trump nel 2016 in quello stato. A ciò si aggiunge che i repubblicani al governo o nei parlamenti di molti stati stanno tentando di rafforzare regole stringenti perché le schede elettorali arrivate via posta possano considerarsi valide. In Pennsylvania – uno dei principali stati in bilico – è stato deciso negli ultimi giorni che non verranno contate le schede che non siano contenute in due buste sigillate, una dentro l’altra. Una regola già in vigore ma che se fosse stata rispettata in modo severo avrebbe squalificato ben un voto su 16 alle municipali in Philadelphia l’anno scorso.
È proprio per evitare che troppi elettori democratici ricorrano al voto via posta che sarà probabilmente oggetto di dispute, che organizzazioni e figure pubbliche vicine al partito hanno fatto dietrofront e stanno incoraggiando il ricorso al voto anticipato o il tradizionale voto di persona all’Election Day. Recentemente si sono spesi per questo anche Michelle e Barack Obama, che hanno chiesto ai cittadini di “votare il prima possibile, in qualsiasi modo possibile”, non solo via posta ma anche di persona. In un’elezione in cui molti temono che il risultato non venga accettato dai candidati, sarà battaglia fino all’ultimo voto.
Per saperne di più
What Donald Trump Doesn’t Want to Hear
Peter Nicholas, The Atlantic
Six Takeaways From the Vice-Presidential Debate
Shane Goldmacher, The New York Times
What’s next
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