Complici i festeggiamenti per il 4 luglio, la curva dei contagi torna a far paura negli USA, ma Trump porta comunque il paese fuori dall’Oms. La Corte Suprema chiede conto al presidente della sua dichiarazione dei redditi, mentre la campagna elettorale prosegue senza esclusione di colpi. E spunta una sorpresa per i candidati alla Casa Bianca.
What’s up?
Per Donald Trump è stata un’altra settimana complicata. La tensione politica e sociale negli USA rimane altissima, ma il presidente non sembra intenzionato a sanare le fratture che spaccano il paese. Anzi. Nel discorso del 4 luglio, i toni sono stati decisamente diversi da quelli che ci si aspetterebbe dall’intervento di un capo di Stato durante una festa nazionale. Invece di usare parole di riconciliazione e unità, Trump si è presentato come un condottiero in battaglia contro “i fascisti di estrema sinistra”. I manifestanti che chiedono di rimuovere le statue di figure pubbliche associate allo schiavismo “vogliono cancellare la nostra cultura”, ha detto Trump, mettendo in guardia dal loro “totalitarismo”. Per molti è l’ennesimo segno della “guerra culturale” in cui presidente sta trascinando gli States nella speranza che la polarizzazione sfoci in un ritorno elettorale.
Solo qualche accenno invece al problema che molti americani sentono come ben più concreto: il coronavirus che sta falcidiando gli USA, di gran lunga il paese più colpito al mondo. E con oltre tre milioni di infetti e 130mila decessi, la situazione peggiora di giorno in giorno. Giovedì un nuovo record di infezioni, con oltre 59mila contagi in 24 ore. A crescere non sono solo i contagi ma anche il numero di ricoveri: un dato che preoccupa, perché potrebbe essere solo una questione di tempo prima che la curva delle morti da Covid, finora in discesa, inverta la tendenza. Proprio a Tulsa, dove il presidente ha tenuto il suo primo comizio elettorale dall’inizio della pandemia, si è registrata un’impennata di casi che, secondo gli esperti, potrebbe essere legata proprio al raduno. Ma Trump prepara già il suo secondo comizio, che avrà luogo sabato 11 luglio all'aeroporto internazionale di Portsmouth, nel New Hampshire.
Nonostante la situazione sanitaria nel paese, sulla rottura con l'Organizzazione mondiale della sanità il presidente non fa marcia indietro. Lunedì Trump ha mandato una notifica ufficiale alle Nazioni Unite: l’uscita degli USA dall’Organizzazione avrà effetto tra un anno esatto, il 6 luglio 2021. L’Oms, che Trump ha accusato di essere “un burattino nelle mani della Cina”, perderà così il suo principale finanziatore. Ma non è detta l’ultima parola: Joe Biden ha infatti annunciato che, se sarà eletto, annullerà il ritiro “il giorno uno del mandato”. E non solo, in vista di novembre il candidato dem ha rivelato il suo nuovo piano per il rilancio della economia americana post-covid. Un piano da 700 miliardi di dollari che prevede più spesa pubblica per prodotti USA e ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie, il cui tema principale suona familiare: "Buy American”.
Sulla gestione della pandemia è scontro in questi giorni anche tra Casa Bianca e Center for Disease Control (CDC), l’agenzia a capo della gestione sanitaria dell’emergenza. Secondo Trump, le linee guida per la riapertura pubblicate dal CDC sono troppo severe e non permetterebbero che scuole e università possano riaprire entro l’autunno. Il crescente malumore del presidente verso tecnici e scienziati che lo hanno affiancato in questi mesi è stato subito raccolto dal vicepresidente Mike Pence, che ha annunciato una revisione delle linee guida. Nel frattempo, Trump è riuscito a far varare un ordine esecutivo secondo il quale gli studenti stranieri che non torneranno nei campus in autunno – ad esempio perché la loro università avrà optato per tenere i corsi online – non vedranno rinnovato il proprio permesso di soggiorno negli USA. Una decisione denunciata da molte università: Harvard e il Massachusetts Institute of Technology (MIT), due delle università più prestigiose degli USA, hanno impugnato la decisione.
Ma per Trump cominciano anche i grattacapi personali. Dopo la pubblicazione del libro dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton sui retroscena delle decisioni politiche del presidente, ora a preoccuparlo arriva anche un altro libro. E questa volta la pugnalata arriva da un familiare. Nel suo memoir “Too Much and Never Enough”, la nipote del presidente Mary Trump tocca molte pagine personali della vita dello zio, raccontando nel dettaglio il rapporto complicato tra Trump e la sua famiglia. L’autrice, una psicologa clinica, si sofferma su molti tratti del carattere e della personalità del Tycoon, leggendoli come sintomi di una serie di disturbi psicologici, dal narcisismo al deficit dell’attenzione.
Un’ultima rogna, infine, arriva ancora una volta dalla Corte Suprema. In una sentenza di giovedì, i giudici supremi hanno stabilito che il presidente dovrà rilasciare i dettagli della propria dichiarazione dei redditi ai procuratori di New York, che stanno indagando su presunte irregolarità durante la campagna presidenziale del 2016. Trump è il primo presidente dai tempi di Gerald Ford a non aver rilasciato volontariamente informazioni sulla propria situazione fiscale. Anche il Congresso ha chiesto di poter esaminare le carte, anche se per ora la Corte Suprema ha negato il permesso.
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Il consenso per Trump sulle singole issues vede confermata la prevalenza, sia pure di misura, delle valutazioni positive sui temi economici e occupazionali. Su tutti gli altri temi prevalgono invece i giudizi negativi, talora in misura molto netta: in particolare sui temi della sanità e la gestione del Coronavirus da parte del presidente, che in questa settimana fa registrare il divario più ampio dal conclamarsi della pandemia tra detrattori (57%) e sostenitori (37%).
Gli orientamenti di voto tra gli elettori registrati vedono ridursi leggermente il vantaggio di Biden (43%) su Trump (37%). È probabile che ciò sia da collegare all’attenuarsi delle tensioni a seguito della morte di George Floyd a Minneapolis e dei disordini che ne sono seguiti. Tutto ciò aveva determinato una forte mobilitazione dell’elettorato di colore a vantaggio dello sfidante. Dunque, una delle sfide per Biden sarà quella di favorire la partecipazione al voto dell’elettorato afroamericano che, soprattutto tra i giovani, al momento sembra più mosso dalla possibilità di vedere Trump sconfitto che da una proposta politica che al momento non appare troppo attraente.
I temi caldi
Stop ai grandi elettori “infedeli”. Secondo la sentenza della Corte Suprema di lunedì scorso, gli stati possono multare o rimuovere i “grandi elettori” che all’Electoral College non voteranno in base al risultato del voto popolare nel proprio stato. Ma che differenza c’è tra i “grandi elettori” e gli elettori “normali”? E come funziona il collegio elettorale che decide formalmente il vincitore delle presidenziali americane?
Per prima cosa, un promemoria essenziale per capire il voto del 3 novembre: alle presidenziali, gli elettori americani votano per il presidente, ma di fatto non lo eleggono direttamente. Con il loro voto vengono infatti selezionati 538 “grandi elettori” – proposti dai partiti – che insieme compongono il collegio elettorale. Sono questi 538 grandi elettori che, riunendosi nei vari stati a dicembre, formalmente votano per eleggere presidente e vicepresidente. Vince chi raggiunge il numero magico di 270 voti, la maggioranza dei componenti dell’Electoral College. In caso di parità tra due candidati, o se nessuno dovesse vincere la maggioranza, la decisione passa alla Camera.
Ogni stato ha un numero diverso di grandi elettori, pari alla somma dei suoi senatori (due per ogni stato) e deputati alla Camera (in proporzione alla popolazione, aggiornati ogni 10 anni dal censimento). Facendo la somma si arriva così al numero di 538 grandi elettori: 100 quanto i senatori, 435 come i deputati, più tre elettori assegnati al District of Columbia. Dando a ciascuno stato un minimo di tre grandi elettori, però, il sistema favorisce di fatto gli stati meno popolosi. Un sistema puramente proporzionale, invece, darebbe loro meno seggi. I sostenitori del collegio elettorale spiegano che il meccanismo è un correttivo che, sovra-rappresentando gli elettori degli stati rurali, evita che le grandi città o gli stati più popolosi abbiano un’influenza determinante sul risultato delle presidenziali. I critici però non sono convinti, sottolineando come il collegio elettorale dia un peso sproporzionato a un elettorato che è a maggioranza bianca e repubblicana.
Ma il risultato del collegio elettorale rispecchia il voto popolare? Non necessariamente. In tutti gli stati, tranne nel Maine e in Nebraska, si utilizza infatti il sistema “chi vince prende tutto”: tutti i posti per grandi elettori assegnati a quello stato saranno occupati dai grandi elettori “fedeli” al candidato che ottiene il 50% più uno dei voti. In questo modo, però, la composizione del collegio elettorale non rispecchia la proporzione delle preferenze per i vari candidati del voto popolare di ciascuno stato: il candidato che arriva secondo, infatti, non vince nessun grande elettore, nemmeno se conquistasse il 49% delle preferenze. Secondo alcuni, questo sistema incoraggia così i candidati a vincere nel maggior numero di stati possibile, non solo in quelli più popolosi. Il rischio però è che, alla fine, l’esito del voto del collegio elettorale sia diverso da quello del voto popolare. L’esempio più recente del fenomeno è emerso nelle ultime presidenziali quando, nonostante Hillary Clinton avesse vinto il voto popolare a livello nazionale, è stato Trump a vincere la maggioranza al collegio elettorale. In altre parole, a livello nazionale erano di più i singoli voti per Clinton che per Trump, ma quest’ultimo ha avuto la maggioranza in più stati, eleggendo quindi un maggior numero di grandi elettori. Il risultato non sarebbe cambiato nemmeno se i grandi elettori fossero stati distribuiti in modo esattamente proporzionale alla popolazione dei vari stati. Fu la quarta volta che il presidente eletto perse il voto popolare ma vinse quello del collegio.
Torniamo quindi alla sentenza della Corte Suprema di lunedì scorso. La Costituzione non obbliga i grandi elettori a votare per un candidato in particolare, ma in 32 stati e nel District of Columbia sono le leggi locali a incoraggiare i grandi elettori a votare secondo il voto popolare, pena una multa. Nella storia recente ci sono stati pochissimi casi di grandi elettori che non hanno rispettato il voto popolare e, di fatto, i grandi elettori “infedeli” non hanno mai cambiato l’esito di un'elezione. Eppure l’occasione ci sarebbe anche stata: cinque elezioni presidenziali americane si sono decise sul filo del rasoio, con una differenza di soli 10 grandi elettori. La più recente fu quella nel 2000, quando George W. Bush vinse contro Al Gore per soli cinque voti. Le elezioni del 2016, poi, hanno visto un picco di sette elettori che hanno votato di testa loro, nel tentativo di bloccare l’elezione di Trump. Si è aperto così un dibattito sull'opportunità dei grandi elettori di votare senza vincoli. Dibattito che si è appunto trasferito sui banchi dei vari tribunali e davanti alla Corte Suprema. Quest’ultima ha chiarito: gli stati hanno il diritto di imporre delle sanzioni ai grandi elettori che non votano rispettando il mandato popolare.
Come abbiamo spiegato, però, il voto del collegio elettorale non corrisponderebbe a quello del voto popolare nemmeno se non ci fossero grandi elettori “infedeli”. Chi chiede una riforma, allora, si spinge oltre. Iniziative come il National Popular Vote Interstate Compact propongono che i grandi elettori votino non in base al risultato dei vari stati, ma in base al voto popolare federale. All’iniziativa aderiscono a oggi i governatori di 15 stati più il District of Columbia, i cui grandi elettori raggiungono quota 196. Ancora lontani, quindi, dalla maggioranza di 270. Se i promotori dovessero convincere altri stati a firmare il patto e la soglia venisse superata, a quel punto il collegio elettorale avrebbe davvero perso ogni funzione, trasformandosi di fatto in un organo di “ratifica” del voto dei cittadini USA. Anche se nella sentenza di lunedì la Corte Suprema non si è espressa direttamente sulle ragioni dietro il National Popular Vote Interstate Compact, alcuni studiosi pensano che i giudici abbiano offerto un assist al movimento, rafforzando la necessità che il voto dei grandi elettori rispecchi quello dei cittadini.
In numeri
Una caratteristica del presidente in carica è la sua passione per i soprannomi. Dalla sua discesa in politica a oggi, Trump ha coniato una sfilza di nomignoli. Tanto per citarne alcuni: Mini Mike per motteggiare la statura di Michael Bloomberg all’inizio delle primarie; lamestream media per accusare la stampa a lui ostile; negli ultimi mesi, poi, il Covid-19 è diventato per il presidente il “virus cinese”, la “peste cinese” o il “kung flu”.
Tra i tanti nomignoli, quello che ha avuto più successo è però crooked Hillary, ovvero “Hillary la corrotta”, dedicato alla sua ex sfidante alle presidenziali del 2016 Hillary Clinton. Ai tempi, crooked Hillary si era diffuso ampiamente nel web e aveva aiutato Trump a definire la sua avversaria politica come una persona inaffidabile, inadatta al ruolo di presidente. Oggi, davanti a un nuovo sfidante democratico, il presidente ha trovato un nuovo soprannome: sleepy Joe, cioè “Joe l’addormentato”, usato soprattutto per gli scivoloni linguistici e le apparenti dimenticanze di Biden. Stando a Google, però, il nuovo nomignolo sembra avere meno successo.
Nel 2016, crooked Hillary ha raggiunto il massimo delle ricerche su Google nel mese di giugno – ed era poi rimasto un nome popolare sul motore di ricerca anche per il resto del 2016. Quattro anni dopo, il picco delle ricerche per sleepy Joe è però fermo a un quarto di quello raggiunto nel 2016 per crooked Hillary. Insomma, il nomignolo non sta prendendo quota tra gli americani. Anche questo contribuisce a modellare gli indici di gradimento e rappresenta chiavi di lettura nella fase preelettorale.
Trump ha però provato a diversificare il suo arsenale di soprannomi, cercando di identificare Biden come un “imboscato”, colui che dall’inizio della pandemia era sparito dalla scena pubblica rifugiandosi in casa. O meglio nel suo “seminterrato”. Ma neanche questi attacchi sono riusciti a diventare popolari. Il comportamento di #hidenbiden (Biden “nascosto”, con una storpiatura grammaticale per conservare la rima), che evita gli assembramenti e rispetta il distanziamento sociale, sembra invece rispecchiare le ansie di molti cittadini americani. Negli ultimi mesi, infatti, la parola “coronavirus” è stata ricercata molto di più su Google rispetto ad altri temi sui quali il presidente ha cercato di spostare l’attenzione come “statue” e “polizia”.
Il presidente e la sua squadra sanno bene che “quelli di Google” non sono dati da sottovalutare. Per questo si sono attivati per coniare nuovi nomi per Biden. Secondo un consigliere di Trump, sleepy Joe sarebbe un nome troppo innocuo, mentre il candidato andrebbe “demonizzato”. Tra le opzioni analizzate in queste settimane ci sono allora: swampy Joe, “Joe il paludoso” e creepy Joe, “Joe l’inquietante”. Per ora, il presidentesembrebbeessersi lanciato su corrupt Joe – sperando di poter ripetere il successo che un nomignolo simile aveva avuto contro Clinton. Ma con una pandemia in corso e un’ondata di proteste, i tempi oggi sono ben diversi e non è detto che il nomignolo gli potrà portare la stessa fortuna.
Il personaggio
Se oggi Trump cammina in un campo minato, non per questo è un brutto momento per tutte le figure di spicco repubblicane, anzi: Tucker Carlson, presentatore di punta del canale conservatore più amato dal presidente, Fox News, cavalca la cresta dell’onda. Gli indici di ascolto delle tv americane pubblicati la scorsa settimana mostrano che lo show di Carlson, il Tucker Carlson Tonight è diventato il notiziario televisivo più visto nella storia americana, bruciando il record del suo collega Sean Hannity. Finora il presentatore ha sempre preso le distanze dalla possibilità di entrare in politica, ma tra i repubblicani cresce il fermento per un “Tucker 2024”.
Ma le cose per il presentatore di Fox non sempre andate così bene. Carlson nasce nel 1969 a San Francisco, California, figlio di madre artista e padre giornalista. I genitori divorziano quando lui aveva solo sei anni; lui e suo fratello minore vengono affidati al padre mentre la madre lascia la famiglia in cerca di uno stile di vita bohemien. Ammesso a una scuola privata a 14 anni, Carlson diventa presto un asso della debate society, dimostrandosi fin da subito un oratore brillante. Meno entusiasmanti suoi risultati scolastici, ma riuscirà comunque a laurearsi in storia nel 1991, lo stesso anno del suo matrimonio.
Dopo il college, Carlson prova a entrare alla Cia, ma senza successo. Cambia quindi rotta e prende la strada del giornalismo. Il primo lavoro importante arriva nel 1995, al Weekly Standard di Rupert Murdoch. Con tre figli a carico e il quarto in arrivo, però, Carlson ha bisogno di soldi e decide di passare alla televisione. Il primo impiego è alla CNN, dove però finisce sotto attacco per le proprie posizioni. Dopo cinque stagioni, il programma a cui partecipa viene chiuso e Carlson passa a MSNBC. Qui conduce il primo programma a suo nome, Tucker, che però ancora una volta ha vita breve: dopo tre anni il programma viene chiuso a causa dei pochi ascolti. È il punto più basso della sua carriera, ma Carlson non si perde d’animo: lancia un proprio tabloid, il Daily Caller, e inizia a collaborare con Fox News. Nel 2013 diventa co-presentatore del programma Fox & Friends Weekend: non è il lavoro più prestigioso, ammette, ma ormai ha un piede nella porta. Nel novembre 2016, pochi giorni dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, Fox lancia un nuovo programma: il Tucker Carlson Tonight.
Ed è proprio con questo programma che Carlson spicca il volo. Alla Fox, Carlson si è ritagliato un ruolo da critico dell’establishment conservatore: non a caso è uno dei primi sostenitori della candidatura di Trump, un outsider inizialmente avversato dall’élite del partito repubblicano. Carlson si presenta come uno senza peli sulla lingua, una persona vicina alle preoccupazioni dei suoi telespettatori – nonostante abbia nascosto il suo vecchio amore per i papillon, che non indossa in televisione dal 2006. La sua conduzione diretta e irriverente piace ai nuovi repubblicani di Trump, ma si attira anche tante critiche dagli avversari. Un suo recente monologo di 25 minuti sul movimento Black Lives Matter ha fatto perdere molti sponsors pubblicitari al programma, cosa già successa nel 2018 dopo un intervento sui migranti. Come il presidente, però, anche Carlson sembra non curarsi troppo delle critiche. Come il presidente, anche lui è nazionalista, isolazionista e nemico del “politically correct”. Dall’altra parte, però, Carlson ha anche dimostrato di essere pronto a dissentire pubblicamente dal presidente, per esempio condannando l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, sostenendo le proposte della senatrice democratica Elizabeth Warren contro le grandi aziende, o criticando la gestione delle proteste delle scorse settimane.
Oggi Carlson è un personaggio con molto seguito, che ha saputo costruirsi una figura riconoscibile e indipendente, diversa da quella di altri storici anchorman della Fox. Dal lunedì al venerdì, oltre 4 milioni di americani accendono la tv alle 21 per seguire il Tucker Carlson Tonight. Come spiega uno stratega repubblicano: “Se vuoi sapere cosa pensano gli elettori repubblicani, tutto quello che devi fare e vedere Tucker Carlson ogni sera”. Ma non è tutto: sempre più spesso ascoltare Carlson significa anche poter prevedere quello che, con buona probabilità, verrà detto il giorno seguente dallo stesso presidente.
Politics on the rocks
Le elezioni americane riescono sempre a sorprendere. Anche per gli standard USA, però, il 2020 si sta rivelando un anno pieno di colpi di scena. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’annuncio, settimana scorsa, della discesa in campo di un nuovo candidato: il rapper e produttore discografico Kanye West. Il musicista ha annunciato che si candiderà appoggiandosi a un suo nuovo partito, il “Birthday party” – perché quando vincerà “sarà il compleanno di tutti” – con uno slogan tanto semplice quanto chiaro: “Yes!”. Sembra però che West non abbia ancora formalizzato la sua candidatura. Lo stesso rapper ha poi spiegato che si prenderà un mese per riflettere sulla decisione.
Se le intenzioni di West fossero serie, però, gli converrà affrettarsi: in alcuni stati è già passata la scadenza per registrare il proprio nome sulle schede elettorali e in molti altri la deadline si sta avvicinando. Per il rapper sarebbe ovviamente troppo tardi per correre con i democratici o i repubblicani, ma potrebbe sempre presentarsi come indipendente. Oltre al (comprensibile) endorsement della moglie Kim Kardashian, West ha raccolto il sostegno di unaltro personaggio pubblico: Elon Musk, il fondatore di Tesla e SpaceX. I due sarebbero le persone con cui West ha confidato in questi ultimi anni il suo sogno di un’avventura politica.
Non è la prima volta che Kanye West parla di elezioni, le presidenziali gli ronzavano in testa già da un po’ di tempo. Nel 2015, in un discorso agli MTV Awards, West aveva detto che si sarebbe candidato alle presidenziali del 2020. Con l’elezione di Trump, però, West ha cambiato idea, spiegando che non avrebbe sfidato nel 2020 una persona di cui è un grande sostenitore. I due si sono incontrati nella Trump Tower poco dopo le elezioni del 2016 e poi due anni dopo alla Casa Bianca. West ha reso pubblico il suo forte apprezzamento per Trump: “va pazzo” per Trump – aveva raccontato il rapper – e per il suo motto “Make America Great Again”, che lo fanno sentire come Superman. Per questo, quindi, il rapper aveva fatto intendere che una sua candidatura alla Casa Bianca sarebbe stata possibile nel 2024, dopo un eventuale secondo mandato di Trump.
Anche se West dovesse candidarsi ufficialmente, possiamo già immaginare che nel 2021 non sarà lui a occupare la West Wing. C’è chi pensa che West sia rimasto deluso dalle recenti politiche del presidente e per questo avrebbe deciso di sfidare il suo beniamino. Secondo altri, invece, la candidatura del vincitore di 21 Grammy Awards avrebbe un obiettivo ben preciso e aiuterebbe proprio il presidente in carica. Pur non avendo un bagaglio politico, infatti, West gode di un capitale che gli altri due candidati stentano a raccogliere: la popolarità tra i giovani americani. Il rapper potrebbe dunque catturare alcuni dei voti di giovani, specialmente afroamericani, che si prevede sarebbero andati al candidato dem. Una strategia però decisamente poco ortodossa, e i cui risultati sarebbero tutti da dimostrare.
Per saperne di più
The Fullest Look Yet at the Racial Inequity of Coronavirus
Richard A. Oppel Jr., Robert Gebeloff, K.K. Rebecca Lai, Will Wright e Mitch Smith
The Electoral College’s Racist Origins
Wilfred Codrington III, The Atlantic
What’s next
- 38 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 45 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)
- 117 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)