Donald Trump dice che il suo rapporto con Xi Jinping è buono "ma ora non voglio parlargli" e minaccia di rompere le relazioni con la Cina: "avremmo solo da guadagnarci".
What’s up?
Gli Stati Uniti potrebbero rompere le relazioni con la Cina in seguito “al peggior attacco che l’America abbia mai subito”. È un Donald Trump senza freni quello apparso ieri in un’intervista a Fox business in cui ha affermato di essere “estremamente deluso” da Pechino, e aggiungendo “anche se abbiamo un ottimo rapporto, ora di non voglio parlare con il presidente Xi Jinping. “Potremmo troncare del tutto le relazioni. Cosa succederebbe? – si è chiesto, ipotizzando di far saltare l’accordo commerciale faticosamente raggiunto dai due paesi a gennaio – ve lo dico io: risparmieremmo 500 miliardi di dollari. E non vale solo per la Cina, ci sono altri paesi che ci fregano i soldi”. Un riferimento all’Europa e agli alleati Nato che, ha aggiunto Trump, “noi paghiamo per difendere dal nulla”. Secondo il Global Times, organo di stampa del governo di Pechino, quella messa in campo dal tycoon è “un’assurda strategia elettorale”, volta a distrarre l’opinione pubblica americana “dai ritardi e dall’inadeguatezza con cui l’amministrazione americana ha risposto all’emergenza causata dalla pandemia”.
L’escalation retorica tra le due superpotenze arriva all’indomani di altre dichiarazioni pesanti come macigni: sono quelle del governatore della Fed, Jerome Powell per cui gli Stati Uniti sono di fronte a una crisi "senza precedenti nella storia moderna" che potrebbe danneggiare in modo permanente l'economia del paese. Powell ha esortato il Congresso americano a varare nuove forme di sostegno per gli oltre 36 milioni di americani rimasti senza lavoro, molti dei quali non lo recupereranno nel breve periodo. Nonostante i decessi negli Stati Uniti siano quasi a quota 86mila, diversi stati procedono a vele spiegate verso l’apertura. “È troppo presto” ha dichiarato il direttore dell'istituto nazionale delle allergie e delle malattie infettive Anthony Fauci che in un’audizione al senato ha messo in guardia da un allentamento prematuro del lockdown, avvertendo: "L'epidemia non è ancora sotto controllo”. Intanto il vaccino contro il Covid-19 ancora non c'è ma già si litiga su chi lo avrà per primo. Il gigante francese della farmaceutica, Sanofi è stato investito da una bufera di critiche per aver lasciato intendere che gli Stati Uniti avrebbero avuto la priorità sul vaccino quando sarà sviluppato perché hanno contribuito con più fondi alla ricerca. È intervenuto dall’Eliseo il presidente Emmanuel Macron per ribadire che il vaccino è un bene pubblico che “dovrà essere lasciato fuori dalle logiche di mercato". Ma la vicenda in sé e i precedenti con la Germania, lasciano molti interrogativi sospesi.
A tenere banco, sui giornali e nelle news di questa settimana, è stata inoltre la polemica tra il presidente e il suo predecessore Barack Obama che in una conversazione con un gruppo di studenti, il cui audio è diventato virale, ha definito “un disastro assoluto” la risposta dell'attuale amministrazione all’emergenza del coronavirus. Non si è fatta attendere la replica di Trump che ha accusato Obama di aver ordito il Russiagate, l’inchiesta sulle connessioni tra il tycoon e il Cremlino, costato a Trump un procedimento per impeachment.
Quello che il presidente ha ribattezzato “Obamagate” – ma che la stampa concorda nel definire un insieme di accuse più o meno vaghe e prive di dettagli – meriterebbe, secondo lui, che l’ex presidente fosse chiamato a risponderne in Senato. Un atto clamoroso, al punto che anche all’interno partito repubblicano in molti frenano. Ma anche questa, secondo il New York Times, sarebbe una “strategia diversiva” per distogliere l’attenzione dalla gestione della pandemia. Che il presidente, che i sondaggi danno in calo nelle intenzioni di voto in vista delle elezioni di novembre, si senta già con le spalle al muro?
Il punto di Ipsos
Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia
Riguardo agli orientamenti di voto in vista delle presidenziali di novembre Biden è in vantaggio di 5 punti su Trump (41% a 36%), ma tra gli elettori registrati il vantaggio sale a 8 punti (46% a 38%). E diminuisce la soddisfazione per le politiche del presidente su economia e occupazione, ossia i suoi temi forti.
Negli Usa inoltre, si mantiene elevata l’inquietudine per l’emergenza Covid 19: più di quattro cittadini su cinque (82%) si dicono preoccupati, con una crescita del 3% in una settimana. Si mantiene elevato anche il divario tra i due elettorati: tra i democratici il 93% è preoccupato per la pandemia, laddove tra i repubblicani la preoccupazione si attesta al 73%.
I temi caldi
Milioni di americani nelle ultime settimane sono stati colpiti da una doppia disgrazia, di quelle che lasciano il segno: hanno perso il lavoro e con esso anche ogni forma di copertura sanitaria. Negli Stati Uniti, infatti, circa la metà dei cittadini ottiene l’assicurazione sanitaria tramite l’azienda per cui lavora. Ma se si pensa che ad aprile il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 14,7% della popolazione lavorativa, la percentuale più alta dalla grande depressione, si capisce quanto il fenomeno possa assumere dimensioni allarmanti.
Secondo uno studio di Urban Institute e Robert Wood Johnson Foundation, se il tasso di disoccupazione dovesse raggiungere il 20% – cosa probabile secondo le ultime proiezioni – solo una parte dei disoccupati rimasti senza assicurazione sarà coperta dal programma federale Medicaid (il 47%), che offre l’assicurazione sanitaria ai cittadini più poveri, oppure riuscirà ad acquistarla (il 25%). Tutti gli altri, circa 7 milioni di americani, andrebbero ad aggiungersi ai 30 milioni che già oggi un’assicurazione sanitaria non ce l’hanno.
L’aumento del numero di cittadini senza assicurazione accresce la possibilità che in molti scelgano di non andare dal medico per non dover affrontare visite o cure molto costose.
Uno scenario che rende gli USA ancora più vulnerabili nel contrasto del virus. Proprio per questo, a inizio aprile Trump aveva annunciato che il governo avrebbe coperto il costo delle cure per coronavirus dei cittadini senza assicurazione sanitaria. Secondo gli esperti però il piano non sarà sufficiente.
Un aiuto potrebbe arrivare da “Cobra”, un meccanismo istituito negli anni ‘80 che permette a chi perde il lavoro di conservare l’assicurazione sanitaria a patto di coprire di tasca propria il premio che veniva pagato dall’ex datore di lavoro. Ma finora solo pochi hanno optato per tale soluzione. Per incentivarne l’uso, i democratici hanno proposto che il governo federale ne copra completamente i costi. Un’altra opzione meno costosa e che tutelerebbe il mercato delle assicurazioni private è invece quella di estendere l’Affordable Care Act (“Obamacare”) che, oltre a allargare la copertura di Medicaid, rende le assicurazioni private più accessibili e fornisce sussidi ai cittadini a basso reddito. È difficile, però, che la proposta ottenga il sostegno dei repubblicani che hanno fatto del suo smantellamento una bandiera politica, opponendosi a Obamacare anche davanti alla Corte Suprema.
Per quanto sembri paradossale inoltre nel bel mezzo di una pandemia, secondo le ultime stime del Bureau of Labor Statistics, persino l’industria sanitaria nel mese di aprile ha perso 1,4 milioni di posti di lavoro. Finora, il settore medico era stato in costante espansione e persino durante la crisi del 2008, mentre 8,5 milioni di persone perdevano il lavoro, l’industria sanitaria ne creava 600mila.
Eppure, quanto accade riflette il modo in cui l'industria della salute tende a fare soldi: trattare i pazienti per una malattia mortale è molto meno redditizio che offrire loro interventi chirurgici e costose procedure. Quando il governo federale ha chiesto agli ospedali di interrompere le attività ambulatoriali non essenziali per liberare personale e posti letto, ciò ha avuto un impatto profondo sulla loro economia.
Inoltre molti pazienti hanno comunque evitato presidi e ospedali, per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus o perché hanno perso la copertura assicurativa. Il risultato è stato meno visite, meno richieste di interventi, meno lavoro per tutti. Secondo un sondaggio condotto in nove grandi complessi ospedalieri americani dal Journal of the American College of Cardiology, tra marzo e aprile le visite cardiologiche in seguito ad un moderato ma serio attacco di cuore sono crollate del 40%.
Anche nel “contagio” ad un settore, quello sanitario che finora era apparso più immune di altri alle crisi economiche, quella attuale appare una crisi senza precedenti.
In our view
Il commento di Martino Mazzonis, giornalista e ricercatore, cura per Treccani la pagina @AtlanteUsa2020
Era tutto programmato e doveva andare tutto liscio. L'economia non era mai stata tanto in salute, il mercato del lavoro non era mai stato così vivace, le Borse non erano mai andate così bene, l'America, insomma, non era mai stata così grande. Fino all'inizio di marzo e all'esplosione dell'epidemia di coronavirus nel Paese la campagna Trump prevedeva di battere su un messaggio positivo: con questo presidente gli Stati Uniti sono cresciuti e sono di nuovo rispettati e temuti nel mondo. Naturalmente nessuna di queste affermazioni è del tutto vera, men che meno quella relativa allo standing dell'America nel mondo, ma questo è quanto piace credere al presidente e a una parte cospicua del suo elettorato. E comunque una campagna elettorale è una campagna elettorale, non si è tenuti a dire esattamente le cose come stanno. Trump non era certo di riconquistare la Casa Bianca e pur avendo mantenuto tassi di popolarità molto bassi durante tutto il suo mandato, poteva guardare a novembre con fiducia.
In numeri
L’immigrazione è da sempre uno dei cavalli di battaglia del presidente Trump, fin da quando nel 2016, in campagna elettorale contro Hillary Clinton sbandierava la promessa “we are going to build a wall” per fermare l’immigrazione irregolare. Anche oggi, mentre il paese è alle prese con una pandemia che ha ucciso più americani della guerra in Vietnam, Trump torna a chiedere un giro di vite sui migranti. Un tentativo, secondo diversi organi di stampa, che fa il paio con la retorica anticinese, per dipingere il virus come una minaccia che arriva da fuori, mentre ormai gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di contagi e decessi.
La settimana scorsa il Customs and Border Protection, l’agenzia USA per il controllo dei confini, ha pubblicato i dati del mese di aprile sul numero di persone arrestate mentre tentavano di varcare il confine con il Messico senza i documenti necessari: 16.789, il più basso dall’aprile 2017. Un calo di circa il 50% rispetto al mese precedente e di oltre l’85% rispetto a un anno fa quando sono state fermate al confine quasi 145mila persone in un mese, la maggior parte arrivate dal centro America. Un fenomeno, quello del calo dei numeri dell’immigrazione durante l’emergenza coronavirus, manifestatosi anche in Europa dove il numero di persone che ha tentato di raggiungere Spagna e Grecia è drasticamente diminuito. Aumentano invece gli arrivi via mare dalla Libia.
Circa un mese e mezzo fa, il 20 marzo, il Center for Disease Control and Prevention, l’agenzia per la sanità pubblica, ha emanato un ordine che autorizzava il blocco degli ingressi nel paese per pericolo di malattie trasmissibili. Una decisione giustificata per evitare affollamenti ai varchi di confine ma che gli attivisti per i diritti umani contestano in quanto blocca anche le richieste di asilo e protezione internazionale: da quando l’ordine è entrato in vigore solo due richiedenti asilo sono entrati negli Stati Uniti. Con la nuova direttiva, che è stata prorogata fino a fine maggio, l’89% degli immigrati che ad aprile sono stati fermati al confine o arrestati dopo averlo varcato illegalmente è stato espulso: circa 15.000 respingimenti.
Il personaggio
Qualche settimana fa, Joe Biden ha messo in piedi una squadra di collaboratori e consulenti incaricati di selezionare la donna che lo affiancherà come candidata vicepresidente nella corsa alla Casa Bianca. Secondo le prime indiscrezioni, nella rosa dei nomi, ad oggi sarebbe favorito quello di Kamala Harris, senatrice della California ed ex candidata alle primarie del partito democratico.
Harris e Biden si conoscono da tempo e si erano avvicinati durante la malattia di Beau Biden, il figlio del vicepresidente morto per un tumore nel 2015. Durante la campagna per la nomination dem, però, i due si sono sfidati a viso aperto e, nel primo dibattito televisivo, Harris ha attaccato l’ex vicepresidente riguardo una sua vecchia collaborazione in Senato con alcuni politici segregazionisti. Tre mesi dopo il suo ritiro, all’indomani della vittoria di Biden al Super Tuesday, Harris gli ha dichiarato il suo endorsement nella sfida contro Bernie Sanders. Oggi, la 55enne appare come la partner perfetta per un candidato uomo, bianco e over 70. Tra le altre papabili, infatti, la senatrice ed ex candidata Elizabeth Warren è popolare tra gli elettori più progressisti; Stacey Abrams, ex candidata governatrice della Georgia, è la più votata dai giovani neri; Amy Klobuchar, senatrice e anch’essa candidata alle primarie, è la favorita tra gli elettori bianchi delle periferie urbane. Secondo il comitato che consiglia Biden, Harris potrebbe invece pescare voti in tutte queste categorie.
Nata a Oakland, California, da padre giamaicano e madre indiana, entrambi accademici, ha iniziato la sua carriera come procuratore locale, per poi essere eletta nel 2004 procuratrice generale di San Francisco e nel 2011 della California: in entrambi i casi, è la prima donna afroamericana a ricoprire tali incarichi. Fa il suo ingresso al Senato sei anni dopo, con le elezioni del 2016. Educata da genitori politicamente attivi nei movimenti per i diritti civili, Harris è sempre stata consapevole del fatto che in politica, per trasformare gli ideali in realtà, serve avere gli strumenti necessari. Non a caso il settimanale The Atlantic l’ha descritta come “una donna a cui piace il controllo”.
Pur amando presentarsi al pubblico come una procuratrice progressista, Harris sembra però pagare il prezzo dei lunghi anni di attività nelle aule di tribunale. Soprattutto gli afroamericani le rimproverano di non aver promosso, quando aveva il potere per farlo, le riforme necessarie a correggere le storture del sistema giudiziario. Dagli scranni di Capitol Hill, la senatrice ha provato a riconquistarsi la fiducia degli afroamericani, soprattutto con l’aggravarsi dell’emergenza coronavirus: Harris si è fatta portavoce delle istanze delle comunità nere, particolarmente colpita della pandemia, e si è impegnata per far approvare interventi economici a sostegno di lavoratori e piccole imprese colpiti dal lockdown.
Nonostante il ritiro senza troppo clamore, Harris non ha comunque perso lo spirito battagliero che ha mostrato nei mesi scorsi nei suoi interventi in Senato durante il dibattito per le nomine di alcune figure chiave dell’amministrazione Trump (da Jeff Sessions a Brett Kavanaugh a William Barr), una dote che potrebbe tornarle utile se dovesse affiancare Biden da qui al 3 novembre.
In our view
Il commento di Riccardo Barlaam, corrispondente dagli Stati Uniti per Il Sole 24 Ore
NEW YORK - Nel tempo del coronavirus Joseph Robinette Biden jr, per tutti Joe, è il primo candidato della storia americana che cerca di vincere le elezioni presidenziali del 3 novembre senza uscire di casa. Come la regina Elisabetta che è chiusa in auto quarantena nel castello di Windsor attorniata da pochissimi collaboratori, il senatore democratico a 77 anni è il più vecchio candidato nella storia delle presidenziali. Per l’età avanzata è un soggetto ad alto rischio Covid-19. I democratici non possono permetterselo: il suo staff elettorale da più di due mesi lo ha costretto in isolamento nella sua casa di 900 metri quadri a Wilmington, in Delaware, a poca distanza da Philadelphia. La mansion che fu dei DuPont, circondata dal verde di un parco secolare con vista lago.
Politics on the rocks
Il coronavirus ha fatto il suo ingresso anche alla West Wing. Questa settimana sono risultati positivi al test un assistente di Trump e la portavoce del vicepresidente Mike Pence. Per questo motivo, in una mail interna è stato richiesto a chiunque lavori nell’ala ovest della Casa Bianca (e quindi nei pressi dello Studio Ovale) di indossare una mascherina. Il provvedimento, però, non riguarderà Trump che potrà continuare a non utilizzarla. Sembra che il presidente non voglia mostrarsi in pubblico a volto coperto, temendo di far passare un messaggio di debolezza e sconfitta nei confronti del virus, che fino a poche settimane fa definiva “poco più di una banale influenza”.
Se le mascherine sono diventate ormai un simbolo della divisione politica tra democratici e repubblicani (per i primi indossarle significa senso di responsabilità, mentre i repubblicani le definiscono eccessive), notevoli differenze emergono anche in seno alla stessa amministrazione. “Il vicepresidente la indossa, il presidente no, alcuni membri dello staff la mettono, altri no” ha osservato Esmir Milavić, presentatore del programma di punta della televisione bosniaca: “Ognuno fa come gli pare. Più passa il tempo più a Casa Bianca comincia ad assomigliare ai Balcani”. Una battuta certo, ma che restituisce bene il senso di smarrimento diffuso davanti ai continui cambi di direzione dell’attuale amministrazione Usa. Secondo un sondaggio pubblicato la scorsa settimana in Francia, tra i leader del mondo Angela Merkel è considerata di gran lunga la più autorevole. Appena il 2% invece, ritiene che Trump stia guidando il mondo nella giusta direzione. Secondo gli intervistati solo Boris Johnson e Xi Jinping ispirano meno fiducia.
Un po’ ovunque, l’“America first” perseguito da Trump sta alienando agli Stati Uniti le simpatie di alleati di lunga data. Tornando alle mascherine, la decisione di Washington di bloccarne l’invio verso gli ospedali canadesi è stato il punto di rottura. Il premier dell'Ontario, Doug Ford, che in diverse occasioni in passato si era espresso a sostegno di Trump, ha commentato: “è come lasciare che un membro della famiglia muoia di fame”. “Quando si scoprono le carte, vedi chi sono i tuoi amici – ha detto Ford – e penso che negli ultimi due giorni sia chiaro a tutti chi siano i nostri amici e chi no".
Per saperne di più
“Obamagate” Is Niche Programming for Trump Superfans
Susan B. Glasser, The New Yorker
The dangers of a US-China financial war
The Editorial Board, Financial Times
What’s next
- 94 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)
- 172 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)