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Weekly Focus n.17

Weekly Focus USA2020: Tutti i giudici del presidente Trump

Paolo Magri
|
Alessia De Luca
|
26 giugno 2020

Donald Trump nomina il 200esimo giudice federale proprio mentre il ‘suo’ procuratore generale, William Barr, viene accusato di abuso di potere. E mentre i contagi nel paese aumentano, il presidente in caduta libera nei sondaggi rischia di perdere anche il consenso degli elettori evangelici bianchi.

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What’s up?

La sanità torna al centro del dibattito pubblico americano: con una mossa a sorpresa il presidente Donald Trump ha chiesto alla Corte Suprema di annullare l’Obamacare, che garantisce la copertura sanitaria ad alcune delle fasce più vulnerabili della popolazione, proprio mentre negli Stati Uniti si registra il record di contagi da Covid-19, 37mila, in un giorno solo. Immediata la replica dei democratici. La speaker della Camera Nancy Pelosi ha definito il gesto del presidente nel mezzo della crisi del coronavirus “un’incomprensibile crudeltà”. Intanto il numero degli americani contagiati potrebbe essere 10 volte maggiore dei 2,3 milioni confermati finora: a suggerirlo è il direttore del Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), Robert Redfield, secondo cui la stima si basa su campioni di sangue raccolti a livello nazionale sulla presenza di anticorpi. Se così fosse il numero dei casi negli Stati Uniti schizzerebbe ad almeno 23 milioni. Ed è forse per questo che il presidente, che ha già confermato i festeggiamenti per la Festa dell'indipendenza il prossimo 4 luglio, fa di tutto per spingere verso la riapertura e sembra voglia lasciare che il virus faccia il suo corso, pur di non frenare più l’economia. “I decessi per il coronavirus sono in calo. Il tasso di mortalità è uno dei più bassi al mondo. La nostra economia sta ripartendo e non sarà chiusa di nuovo” scrive su Twitter.

 

Lo stesso presidente, dal palco di Tulsa, in Oklahoma, dove ha tenuto il primo comizio post-lockdown, aveva annunciato di aver ordinato di rallentare i test “perché un loro aumento comporta un incremento dei casi”. Un’affermazione subito smentita dal suo staff, che si è affrettato a spiegare che il presidente “stava scherzando”. Ad aumentare davvero, invece, c’è il distacco che lo separa nei sondaggi dallo sfidante dem Joe Biden avanti di 14 punti col 50% delle preferenze. Un’enormità, che il presidente in carica bolla come “falsità” frutto dei “fake news media” che gli remano contro.

Infine l’onda lunga delle proteste Black Lives Matter arriva fin dentro le primarie democratiche per i deputati alla Camera dei Rappresentanti (rieletti ogni due anni), dove avanzano i candidati afroamericani liberal a scapito di esponenti moderati. Se l’enfant prodige della sinistra socialista Alexandria Ocasio-Cortez ha vinto come era prevedibile, sono in molti a sottolineare l’avanzata di diversi altri candidati dell’ala sinistra del partito, sulla scia degli avvenimenti delle ultime settimane. La sorpresa maggiore arriva dal Bronx, dove Jamaal Bowman, 44 anni, afroamericano e preside di una scuola media ha battuto Eliot Engel, 73 anni, bianco, pilastro dell’establishment dem, al Congresso dal 1989. Nel suo discorso della vittoria Bowman ha detto: “La povertà non è il risultato di bambini e famiglie che non lavorano duramente, la povertà è basata su un disegno politico ed è radicata in un sistema che è rotto, corrotto e marcio dal suo nucleo, fin dall’inizio dell’America”.

 

Il punto di Ipsos

Il commento di Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos Italia

Il futuro del Paese preoccupa fortemente gli americani: due su tre ritengono che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, mentre solo il 22% si mostra fiducioso ed è convinto che vada nella direzione giusta. A questo proposito gli elettori repubblicani si mostrano divisi, infatti il 46% si dichiara ottimista, mentre il 42% è pessimista: quest’ultimo dato è in forte crescita, basti pensare che nello scorso mese di febbraio i repubblicani pessimisti erano la metà di quelli attuali (21%).

Non accennano quindi a diminuire i critici dell’operato complessivo di Trump (rappresentano il 57%) e, a fronte dell’ulteriore aumento della preoccupazione per il Coronavirus (77%, cioè + 4% nell’arco di due sole settimane), aumenta ulteriormente il divario tra quanti criticano (57%) e quanti approvano (38%) la gestione dell’emergenza sanitaria da parte del presidente.

 

I temi caldi

Oltre alle difficoltà che il presidente deve affrontare in queste settimane, in vista di novembre si aggiunge per Trump un’altra preoccupazione: la perdita di consenso tra gli elettori evangelici bianchi, una categoria particolarmente significativa per la sua vittoria di quattro anni fa. Dal suo insediamento, il presidente ha potuto contare su una base di sostenitori (circa il 40% degli americani) che gli è rimasta accanto no matter what; tra questi, proprio gli evangelici hanno ricoperto un ruolo di primo piano.

Che quella dei ‘rinati nella fede’, come si fanno chiamare, in America sia una comunità folta e potente è un fatto assodato: magari non abbastanza da determinare da sola il risultato di un’elezione, ma di certo in grado, con un candidato gradito anche ad altre categorie, di fare da ago della bilancia, come dimostrato, nel 2004, dalla seconda elezione di George W. Bush. Gli evangelici sono il gruppo religioso più numeroso negli USA: si dichiara evangelico circa 1 americano su 4. Seguono poi i non religiosi e i cattolici. Tra gli evangelici, i bianchi in particolare sono spesso identificati da media e sondaggi come un gruppo a sé stante (mentre la minoranza di neri evangelici viene considerata spesso nella categoria allargata dei neri protestanti, che per il 90% circa vota democratico). Nella storia recente la stragrande maggioranza dei bianchi evangelici ha sempre votato repubblicano, e nel 2016 circa l’80% di loro ha votato per Trump. A seguire, il 64% dei bianchi cattolici aveva votato per Trump.

Giunto al terzo matrimonio, accusato di violenze sessuali e di aver pagato il silenzio di un’attrice pornografica per nascondere una loro relazione, a prima vista Trump non sembra ricalcare il modello di politico ideale per una comunità religiosa fortemente conservatrice. D’altra parte, la divisione più importante negli Stati Uniti rimane quella rosso-blu, repubblicani-democratici, e gli elettori della comunità dei ‘rinati’ sembra dunque preferire un presidente meno religioso ma che dia priorità ai loro interessi, piuttosto che un democratico, magari più religioso ma lontano dalle loro istanze tradizionaliste. Di questo Trump è fin troppo consapevole e nel corso della sua presidenza ha continuamente strizzato l’occhio nella loro direzione, ad esempio tentando di ridurre i diritti lgbtq, impedendo il loro ingresso nelle forze armate e nominando il maggior numero possibile di giudici graditi all’elettorato conservatore.

Al tempo stesso, il presidente si è circondato di esponenti della comunità che crede nell’autorità della Bibbia, come il Segretario di Stato Mike Pompeo e il vicepresidente Mike Pence. Pompeo in particolare ha rafforzato i legami diplomatici con altri leader evangelici in giro per il mondo: Jair Bolsonaro in Brasile e Jimmy Morales in Guatemala. Quest’ultimo è stato il secondo leader mondiale – dopo Donald Trump – ad annunciare lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme. Per molti cristiani evangelici si tratta di un evento necessario: prima del secondo, apocalittico ritorno di Cristo in terra, gli ebrei dovranno raccogliersi nella Terra Promessa che va dal Mediterraneo al Giordano. Questo “sionismo cristiano”, gradito per ovvi motivi dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, è uno dei precetti teologici più diffusi tra gli evangelici Usa.

Il sostegno dei bianchi evangelici per il presidente non è però soltanto una questione di convenienza politica. Alcuni di loro lo paragono infatti a Ciro il Grande, l’imperatore persiano che, come racconta la Bibbia, liberò il popolo ebraico dalla schiavitù babilonese e permise loro di tornare in Israele. Come Ciro il Grande anche Trump, nonostante sia in qualche modo un “pagano” rispetto alle credenze religiose degli evangelici, sarebbe stato inviato da Dio per difendere il popolo dei credenti.

In queste settimane tuttavia, per il presidente e il suo staff è suonato più di un campanello di allarme: anche la base di evangelici bianchi che gli era rimasta fedele in questi anni sembra delusa dalle sue recenti performance. In poco più di un mese, da inizio maggio a oggi, la percentuale di “rinati” soddisfatti della sua risposta alla pandemia è diminuita di ben 6 punti percentuali, così come quelli che guardano a Trump con occhio favorevole, sono calati di ben 15 punti percentuali in due mesi (dal 77% di marzo al 62% di maggio, dal 60% al 37% se si considerano i bianchi cattolici). Il modo in cui il presidente ha scelto di affrontare le proteste e la pandemia potrebbe quindi aver prodotto una rottura con una parte di elettorato essenziale per la sua rielezione.

Vanno lette in questa prospettiva alcune delle ultime iniziative del presidente, come la richiesta ai governatori di riaprire le chiese e la contestatissima “photo opportunity” con Bibbia alla mano davanti alla chiesa di St. John a Washington. Iniziative (soprattutto quest’ultima) che però non sono piaciute a tutti gli evangelici. Per di più, quest’anno a sfidare Trump alle elezioni di novembre c’è Joe Biden, cattolico di lungo corso, che spesso parla di come la fede lo abbia aiutato nei momenti più difficili della sua vita, compresa la perdita cinque anni fa del figlio Beau. Un candidato che secondo alcuni analisi rischia di erodere la base elettorale del presidente in uno dei gruppi sociali con un alto potenziale elettorale, che nessuno dei due candidati può permettersi di ignorare.

 

In numeri

Mercoledì il Senato ha confermato la nomina del 200esimo giudice federale designato dall’amministrazione Trump, di cui 143 alle corti distrettuali, 53 alle corti di appello, due alla Corte americana del commercio internazionale e altri due alla Corte Suprema – il tutto in meno di quattro anni. Il sistema delle corti federali americane è diviso in tre livelli: le corti distrettuali (che sono 94) dove avvengono le sentenze di primo grado, le “circuit courts” o corti di appello (13 in tutto) di secondo, e infine la Corte Suprema.

In termini assoluti, Trump è secondo solo a Jimmy Carter per numero di giudici nominati. Il suo predecessore Barack Obama, in otto anni alla Casa Bianca, era riuscito a far confermare in tutto 334 giudici federali. Negli anni, però, il numero di giudici federali statunitensi è cresciuto e quindi, alla fine, Trump è in linea con la media storica per numero di giudici federali nominati sul totale (di 870) – il 23%.

Sotto l'amministrazione Trump, il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha fatto delle nomine dei giudici federali un suo slogan e obiettivo politico: “leave no vacancy behind”, non lasciamo nessun posto vacante. E così è stato, almeno per le corti d’appello dove avvengono molte delle sentenze più importanti e vincolanti, dato che la Corte Suprema ne considera relativamente poche: da mercoledì, per la prima volta negli ultimi 40 anni, non c’è nessun posto libero nelle corti di appello, mentre ne rimangono ancora circa 80 nelle corti distrettuali.

Dietro la quantità di nomine fatte dall’amministrazione Trump c’è anche “l’eredità” che il presidente ha ricevuto nel 2016 dal Senato a maggioranza repubblicana, che aveva bloccato molte delle nomine proposte da Obama. I giudici proposti dal presidente vanno infatti ratificati con un voto del Senato. Entrando allo Studio Ovale, Trump si è trovato con 103 posti da riempire, rispetto ai 59 che Obama aveva raccolto a inizio presidenza.

Dato che negli Stati Uniti i giudici federali sono nominati a vita, ciascuna nomina ha conseguenze profonde e durature sul sistema giudiziario. Lo sa bene anche Trump, che ha nominato giudici che sono in media molto giovani, bianchi (86% di chi ha nominato, rispetto al 64% di Obama) e uomini (76%, rispetto al 58% di Obama). Con il Senato in bilico, oltre che la sfida Trump-Biden, l’obiettivo repubblicano è quello di confermare più giudici possibili entro novembre, in modo da lasciare un’eredità conservatrice che definirà il volto della giustizia nel futuro prossimo.

 

Il personaggio

Il sistema giudiziario è stato anche al centro di un clamoroso scontro questa settimana. Il procuratore generale William Barr, considerato “il braccio armato” di Donald Trump, è finito nella bufera a causa del licenziamento del procuratore generale del Distretto Sud di New York, Geoffrey Berman, che stava indagando su Rudy Giuliani, avvocato di Trump, e le sue attività in Ucraina. Definito “la spada e lo scudo politico” del presidente, Barr è accusato da molti di piegare il Dipartimento di Giustizia agli interessi del presidente, come avrebbe fatto ingerendo nelle investigazioni su Roger Stone e Michael Flynn, due ex consiglieri del presidente. Il 28 luglio Barr darà alla Camera la sua versione dei fatti, ma nel frattempo dal campo democratico si levano richieste di dimissioni o addirittura impeachment.

Classe 1950, Barr nasce a Manhattan, New York; sua madre insegna alla Columbia University e il padre è preside in una scuola privata nell’Upper East Side dopo aver lavorato per l’Office of Strategic Services (ora Cia) durante la Seconda Guerra Mondiale. È proprio dai genitori che Barr eredita il suo carattere rigoroso, la fede cattolica e l’opinione conservatrice in politica. Negli anni della guerra in Vietnam, Barr è una mosca bianca: mentre i suoi compagni della Columbia University marciano contro l’impegno militare, lui trova i suoi primi stage estivi alla Cia, dove entra nel 1973. Sono anni difficili per il servizio di intelligence, accusato di leggere la posta di molti americani, ma Barr si schiera in prima linea per difendere l’agenzia, si fa notare dal direttore e finisce così all’attenzione della Casa Bianca: nel 1982 Ronald Reagan lo assume come assistente. Ci rimarrà solo un anno prima del definitivo ingresso in politica, nel 1989, come assistente del procuratore generale sotto il nuovo presidente George H. W. Bush, già suo capo alla Cia. Da lì, Barr si fa largo tra i ranghi dell’amministrazione: diventa vice procuratore generale e, nel 1991, procuratore generale. In questa veste, sposa la linea dura contro i crimini legati alla droga e l’immigrazione irregolare, rifiutando invece di indagare su presunti abusi di potere da parte dell’esecutivo.

La filosofia politica di Barr è chiara: da sostenitore del “privilegio esecutivo”, per lui il presidente deve godere della più ampia libertà di azione in tutti i campi, persino quella di intervenire direttamente nei procedimenti giudiziari. Una visione del mondo condivisa da Trump, alle prese con l’investigazione del procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze russe alle presidenziali del 2016 e non soddisfatto del suo procuratore generale di allora Jeff Sessions. Così, liquidato Session, a febbraio 2019 Barr torna alla guida del Dipartimento di Giustizia e per “disinnescare” lo “Ukraine gate” che preoccupa il presidente, fa in modo di bloccare la pubblicazione completa del rapporto Mueller. Non sorprende, dunque, che Barr sia finito nel mirino di molti, tra i dem e non solo, per aver assunto una posizione a detta loro troppo politicizzata, abbandonando l’imparzialità della giustizia per le divisive battaglie di Trump.

 

In our view

Il commento di Gianluca Pastori, professore Università Cattolica del Sacro Cuore

Trump a Tulsa: uno spettacolo già visto?

Il comizio a Tulsa (Oklahoma) che avrebbe dovuto segnare la ripresa della campagna elettorale di Donald Trump dopo la pausa forzata imposta dall’emergenza COVID-19 si è rivelata un’esperienza piuttosto deludente. Qualunque sia la causa, le poche migliaia di partecipanti all’evento che si è svolto nel BOK Center (6.200 persone circa, meno di un terzo della capienza della struttura) hanno contribuito a dare un tono dimesso e a confermare l’immagine di un presidente uscente sempre più isolato dal resto del paese.

Continua a leggere

 

Politics on the rocks

In barba al distanziamento sociale e nonostante le proteste degli abitanti di Tulsa, Oklahoma, il presidente Trump ha scelto la città come sede del suo primo comizio elettorale post-lockdown. Per partecipare alla manifestazione, chiunque poteva ottenere online un biglietto gratis purché firmasse una liberatoria che sollevava gli organizzatori dalla responsabilità nel caso si ammalasse di coronavirus. Per chi non fosse riuscito ad entrare e vedere il presidente dal vivo, ci sarebbe stato un palco fuori dall’arena dove sarebbe passato Trump dopo il comizio. Una misura dovuta, dato che il comitato elettorale del presidente si aspettava circa un milione di partecipanti per un’arena che ne avrebbe potuti ospitare solo 19mila.

La realtà però non si è dimostrata all’altezza delle aspettative. Con grande stupore degli organizzatori, al comizio si sono presentate solo 6.200 persone, con il presidente costretto a parlare circondato da una marea di sedie vuote blu (ironicamente, il colore democratico), mentre fuori il palco extra veniva smantellato in tutta fretta. Non esattamente una ripresa “col botto”. Ad aggiungere un po’ di pepe ad una storia a cui i giornali hanno dato ampia copertura, si è aggiunta la “rivendicazione” del flop da parte di un gruppo di fan del “K-Pop”, un genere musicale molto diffuso tra gli adolescenti sud-coreani, e di tanti giovanissimi utenti del social TikTok, che hanno lanciato l’idea di prenotare in massa biglietti per l’evento senza poi presentarsi. Una beffa, insomma, da parte di giovanissimi internauti che avrebbe sabotato il primo rally del tycoon dall’Oklahoma.

Per Brad Parscale, campaign manager di Trump, però non sarebbe stata questa la causa della scarsa affluenza di pubblico al comizio. Responsabili sarebbero invece i “fake news media”, che avrebbero alimentato le preoccupazioni dei cittadini, mostrando immagini di città messe a ferro e fuoco dalle proteste e esagerato la diffusione del coronavirus. Una spiegazione che non convince, tanto più che lo stesso Parscale aveva piegato ai media che le prenotazioni online dei biglietti non avrebbero impedito a chi si fosse recato sul posto di entrare nel palazzetto finché ci fossero stati posti liberi. Nessuna storia di biglietti esauriti, dunque: semplicemente, la gente non si è presentata.

 

Per saperne di più

The Sun Belt Spikes Could Be a Disaster for Trump

Ronald Brownstein, The Atlantic

A Conservative Agenda Unleashed on the Federal Courts

Rebecca R. Ruiz, Robert Gebeloff, Steve Eder e Ben Protess, The New York Times

 

What’s next

- 52 giorni alla Convention democratica (17-20 agosto 2020)

- 59 giorni alla Convention repubblicana (24-27 agosto 2020)

- 131 giorni alle elezioni (3 novembre 2020)

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Paolo Magri
ISPI Executive Vice President and Director
Alessia De Luca
ISPI Advisor for Online Publications
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