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Focus Mediterraneo allargato n.17

Yemen: conflitto aperto, pace difficile

Eleonora Ardemagni
28 settembre 2021

In Yemen la strada della diplomazia è sempre in salita e gli yemeniti sono “bloccati in una condizione di guerra indefinita”.[1] Il 5 settembre 2021, giorno in cui il nuovo inviato Onu per lo Yemen, lo svedese Hans Grundberg, è entrato ufficialmente in carica, gli huthi (gli insorti sciiti zaiditi del nord, sostenuti dall’Iran) hanno intensificato il lancio di missili e droni contro l’Arabia Saudita, colpendo obiettivi civili. Tra le sue prime uscite pubbliche, Grundberg ha incontrato l’ambasciatrice del Qatar in Svezia: Doha è il paese che mediò la tregua fra huthi e forze governative nel 2007-09: forse il segnale di un nuovo approccio diplomatico.

Intanto, proseguono i combattimenti tra huthi e forze governative a Marib, il governatorato centrale che ospita un milione di sfollati interni, oggi epicentro del conflitto: nonostante l’avanzata del movimento-milizia, la battaglia si presenta ancora lunga. Gli Stati Uniti denunciano la crescita del sostegno militare iraniano agli huthi: il nuovo governo dell’Iran, presieduto dall’ultra conservatore Ebrahim Raisi, non sembra volersi spendere per la de-escalation in Yemen, a dispetto dei colloqui sauditi-iraniani in Iraq.

Nel sud rimane alta la tensione fra governo riconosciuto e secessionisti, mentre la crisi economica si aggrava. E al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap), oltre a congratularsi con i talebani per la presa di Kabul, torna a colpire: dall’inizio dell’anno, Aqap ha ripetutamente attaccato huthi e forze governative nei governatorati di al-Bayda (centro) e Shabwa (sud, dove sei poliziotti sono stati rapiti). Mentre i rinforzi militari convergono su Marib, i ‘vuoti di sicurezza’ yemeniti aprono nuove opportunità ai jihadisti. Dopo oltre sei anni, la guerra in Yemen rimane un conflitto ancora aperto del Medio Oriente.

 

Diplomazia: nuovo inviato dell’Onu, nuovo inizio?

Il 5 settembre 2021 lo svedese Hans Grundberg assume ufficialmente l’incarico di nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen, sostituendo il britannico Martin Griffiths, che assume l’incarico di vicesegretario presso l’Ufficio Onu di Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha). Tra il 2019 e il 2021, Grundberg è stato ambasciatore dell’Unione europea in Yemen e conosce già molto bene le innumerevoli variabili interne e regionali che gravano sul dossier yemenita e ne ostacolano la risoluzione. Il bilancio della gestione Griffiths (2018-21) si presenta in chiaroscuro. Infatti, il diplomatico britannico è riuscito a siglare due accordi importanti, quello di Stoccolma (dicembre 2018) per il cessate-il-fuoco nella città-porto di Hodeida (che scongiurò un imminente attacco di terra guidato dagli Emirati Arabi Uniti) e, nel settembre 2020, lo scambio di prigionieri più numeroso mai avvenuto dagli Accordi di Stoccolma, con la mediazione della Croce Rossa Internazionale. Tuttavia, Griffiths non è riuscito a far siglare un cessate-il-fuoco nazionale, nonostante proprio l’approccio nazionale – e non più locale, “crisi per crisi” – sia tornato al centro del processo diplomatico. Di certo, la risoluzione n. 2216 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, datata aprile 2015 ma ancor oggi base legale dei negoziati, depotenzia, paradossalmente, qualsiasi tentativo di mediazione. Infatti, essa riflette equilibri di forza poi mutati sul campo, esclude dalla trattativa attori politico-militari sorti dopo il 2015 (per esempio, il secessionista Consiglio di Transizione del Sud (Stc), le forze dell’ovest guidate da Tareq Saleh, il nipote dell’ex presidente) e chiede agli huthi di ripristinare le condizioni militari e politiche precedenti alla presa di Sanaa del gennaio 2015. Probabile che il nuovo inviato Grundberg riparta dal “piano Griffiths”, apportando però qualche modifica: Griffiths aveva lavorato, nel 2021, all’approvazione di una Dichiarazione congiunta fra le parti in conflitto (mai firmata), contenente tre punti: cessate-il-fuoco nazionale; creazione di un governo di power-sharing che includesse anche gli huthi; rilancio dell’economia del paese. Gli sforzi si sono poi concentrati sul tentativo di cessate-il-fuoco: nel marzo 2021, l’Arabia Saudita ha proposto un’iniziativa di pace per lo Yemen composta da: cessate-il-fuoco nazionale; riapertura dell’aeroporto di Sanaa (la capitale, ancora controllata dagli huthi); ingresso di carburante e beni alimentari dal porto di Hodeida (area ancora controllata dagli insorti). Tuttavia, gli huthi hanno continuato a chiedere la fine dell’intervento militare della coalizione a guida saudita, nonché la rimozione dell’embargo terrestre, aereo e marittimo posto dai sauditi sulle aree sotto il controllo degli insorti, prima di considerare l’offerta di cessate-il-fuoco. Nel luglio 2021 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione n. 2586, che rinnova il mandato della missione United Mission to Support the Hodeidah Agreement (Unmha) fino al 15 luglio 2022, chiedendo inoltre che il personale Unmha abbia libertà di movimento, senza ostruzioni, nel governatorato di Hodeida. La missione Unmha segue l’approvazione dell’Accordo di Stoccolma (2018): essa monitora il rispetto del cessate-il-fuoco, nonché il ridispiegamento delle forze militari a Hodeida, mediante la presenza di osservatori civili.

Negli ultimi mesi, Stati Uniti, Oman e Arabia Saudita hanno giocato un ruolo diplomatico significativo, spesso di sponda, sullo Yemen. La Casa Bianca ha nominato un inviato speciale per lo Yemen (febbraio 2021), il diplomatico Tim Lenderking, che ha subito intrapreso una serie di viaggi nella regione, soprattutto in Arabia Saudita; proprio Riyadh ha poi lanciato la sua iniziativa di pace, rimasta fin qui sulla carta. Il 20 luglio 2021 Lenderking ha incontrato il primo ministro yemenita Maeen Abdulmalik Saeed per discutere di economia: le casse vuote del governo riconosciuto dalla comunità internazionale impediscono la regolare erogazione di servizi, oltre al pagamento degli stipendi pubblici. Gli Stati Uniti hanno promesso 165 milioni di dollari aggiuntivi per limitare l’aggravarsi della crisi umanitaria. Durante un webinar del giugno 2021, l’inviato Usa ha sostenuto che “gli Stati Uniti riconoscono loro [gli huthi] come attore legittimo”:[2] una dichiarazione che ha provocato le ire del governo riconosciuto e dei sauditi, costringendo gli statunitensi a una parziale retromarcia, affermando che quello del presidente Abdu Rabu Mansour Hadi rimane “l’unico legittimo e internazionalmente riconosciuto governo dello Yemen”.[3] Un’affermazione, quella di Lenderking, inattesa, che potrebbe aver voluto testare un nuovo approccio alla risoluzione del conflitto.

Il Sultanato dell’Oman, tradizionale mediatore informale del Golfo, si è poi distinto per un’attività diplomatica più intensa e, soprattutto, più visibile del solito. Nel giugno 2021 una delegazione del governo yemenita, guidata dal ministro degli Esteri, si è recata in visita a Muscat per colloqui; una delegazione omanita ha fatto poi visita alla leadership degli huthi a Sanaa, accompagnata dal portavoce del movimento-milizia, Mohammed Abdul-Salem, che risiede a Muscat. L’attivismo diplomatico dell’Oman a proposito di Yemen coincide, in questa fase, con gli interessi dell’Arabia Saudita, ansiosa di trovare una via d’uscita politica dal conflitto, nonché di tenere unito il frammentato campo yemenita anti-huthi. D’altronde, le relazioni diplomatiche fra Oman e Arabia Saudita sono in miglioramento, come testimonia il viaggio del sultano Haitham bin Tariq Al Said a Riyadh (luglio 2021), culminato nell’annuncio dell’istituzione di un Saudi-Omani Coordination Council; un clima costruttivo che si riflette anche sull’asse saudita-omanita per la diplomazia yemenita.

Ora, l’apertura di Grundberg al Qatar potrebbe tradursi in un nuovo approccio diplomatico per lo Yemen. I qatarini hanno già esperienza negoziale con gli huthi (maturata negli anni Duemila, durante le sei “guerre di Saada”), ma un loro coinvolgimento – che incontrerebbe i favori dell’Iran- allontanerebbe l’asse diplomatico da sauditi e omaniti, creando inoltre possibili frizioni con gli Emirati Arabi, ancora in competizione regionale con Doha.

 

Conflitto militare (epicentro Marib), scontri politici (con i secessionisti del sud), emergenza umanitaria-economica

Proseguono i combattimenti nel governatorato di Marib tra insorti huthi e forze filogovernative: gli huthi hanno guadagnato terreno ma, come sostengono anche gli Stati Uniti, non stanno vincendo la battaglia, che si preannuncia ancora lunga. Preservato dalla guerra fino al 2020, Marib – ultima roccaforte del governo riconosciuto e dell’esercito – è teatro, da un anno, di scontri che stanno aggravando la già drammatica situazione umanitaria. Infatti, Marib ospita almeno un quarto dei circa quattro milioni di sfollati interni dell’intero Yemen. Come riporta l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), bombardamenti, colpi di mortaio e armi da fuoco hanno danneggiato proprietà e infrastrutture civili a Marib, compresi gli accampamenti che ospitano gli sfollati interni, giunti qui da altre aree del paese: donne e bambini rappresentano circa l’80% degli sfollati presenti a Marib e un quarto dei bambini sfollati non frequenta la scuola.[4] Il governatorato è ricco di petrolio e gas, dunque è una fonte vitale di sopravvivenza economica per il governo yemenita. Dal mese di luglio 2021 i combattimenti hanno inoltre raggiunto il confine meridionale di Marib, quello con il governatorato di Shabwa (distretto di Bayhan), nelle terre della potente confederazione tribale degli Yafai: gli huthi stanno avanzando ed entrambe le parti hanno dispiegato rinforzi. Sempre a luglio, le forze governative hanno lanciato un’offensiva contro gli huthi nel governatorato centrale di al-Bayda. Il 29 agosto 2021 un attacco huthi con droni e missili ha ucciso almeno trenta soldati governativi e ferito una sessantina, colpendo la base militare di al-Anad (governatorato di Lahj, 60 chilometri a nord di Aden), dove operano le forze della coalizione a guida saudita. Intanto, gli huthi proseguono gli attacchi con missili e droni contro il territorio saudita. Il 30 agosto 2021 un drone ha colpito l’aeroporto civile di Abha (Asir), ferendo otto persone. Tre missili diretti contro le regioni saudite di Najran e Jizan sono stati intercettati, e anche nella città orientale di Dammam, il 5 settembre, provocando il ferimento di due bambini: gli attacchi sono stati lanciati nel giorno in cui il nuovo inviato dell’Onu assumeva ufficialmente l’incarico. Intanto, nei territori formalmente sotto il controllo del governo riconosciuto, rimane alta la tensione tra i filogovernativi e i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud, nonché profonda la crisi economica. L’Accordo di Riyadh siglato nel novembre 2019 – su mediazione saudita – tra il governo internazionalmente riconosciuto dello Yemen e i secessionisti dello Stc è stato fin qui applicato solo parzialmente. Il governo unitario, con metà esponenti del nord (huthi esclusi) e metà del sud, si è insediato ad Aden anche se, per ragioni di sicurezza, il primo ministro Maeen Abdulmalik Saeed e parte dei ministri rimangono basati a Riyadh. Gli allegati militari e di sicurezza dell’accordo non sono stati ancora applicati: il nodo militare blocca il percorso di stabilizzazione, mentre Aden rimane una città politicamente frammentata e militarizzata. Nel luglio 2021 il presidente del parlamento (filogovernativo) ha convocato una sessione nella regione meridionale di Hadhramaut, come già avvenuto nel 2019 a Sayyun. Tale scelta ha provocato la reazione dei secessionisti dello Stc, che hanno protestato a Sayyun (Wadi Hadhramaut, ovvero la parte nord del governatorato) e a Mukalla (area costiera).

Sul fronte economico-sociale, la moneta nazionale (riyal) ha perso il 25% del suo valore nel 2020, deprezzandosi del 70% rispetto al valore pre-conflitto: per gli yemeniti, ciò si traduce in perdita del potere d’acquisto e balzo dell’inflazione. Il governo riconosciuto non riesce più a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici che protestano ripetutamente, compresi militari e poliziotti: nel marzo 2021, migliaia di manifestanti, tra cui soldati e miliziani di gruppi armati pro-governativi, avevano addirittura assaltato il palazzo delle istituzioni ad Aden. Per sostenere – seppur in parte – le casse governative, il governo riconosciuto yemenita, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti stanno progettando il rilancio dell’estrazione e dell’export petrolifero e gasifero dallo Yemen. La volontà di rivitalizzare il settore energetico era già stata sottolineata, nel maggio 2021, dal nuovo ministro del Petrolio yemenita, Abdul Salam Abdullah Salem Baaboud. Sauditi ed emiratini contribuirebbero alla ripresa dell’export di petrolio e gas dai porti dello Yemen: nonostante il conflitto l’export petrolifero è in crescita dal 2019.[5] Ma le aspirazioni economiche devono misurarsi con la persistenza della guerra: l’11 settembre 2021, un attacco con missili e droni, di probabilissima matrice huthi, ma fin qui non rivendicato, ha gravemente danneggiato il porto di Mokha sul Mar Rosso (vicino al Bab el-Mandeb), senza provocare vittime: il porto di Mokha, città controllata da forze yemenite filo-Emirati Arabi, era appena stato ricostruito e rinnovato (con probabile coinvolgimento degli emiratini). L’attacco ha distrutto aree di stoccaggio per gli aiuti umanitari.

 

Gli huthi, le armi dall’Iran e l’ombra dell’internazionale sciita in Yemen

Nel rapporto fra gli huthi e l’Iran che li sostiene, due dinamiche vanno tenute d’occhio. La prima riguarda gli aiuti militari. Il Pentagono ha recentemente dichiarato che Teheran sta rifornendo gli huthi di armi ancora più complesse – droni armati e missili balistici – rispetto al passato, trasferendo inoltre competenze ed expertise tecnica. Inoltre, gli attacchi degli huthi, mediante missili e droni, contro il territorio dell’Arabia Saudita sono stati, nella prima metà del 2021, più di quelli degli anni precedenti.[6] Il 10 agosto il Dipartimento della Difesa statunitense ha smentito ciò che una funzionaria dello stesso Pentagono pareva avesse dichiarato davanti alla commissione esteri del Senato poco prima: ovvero che l’attacco con due droni contro la petroliera di proprietà israeliana Mercer Street (avvenuto il 30 luglio al largo delle coste dell’Oman e costato la vita a due membri dell’equipaggio), fosse partito dal territorio dello Yemen[7]. L’episodio lascia comunque spazio a dubbi. La seconda dinamica attiene alla presenza di combattenti stranieri in Yemen, schierati al fianco degli huthi, non solo di esperti militari filoiraniani di Hezbollah e degli al-Quds, come accertato finora. Nel 2021 sono cresciute le denunce da parte governativa circa la presenza di combattenti sciiti stranieri in Yemen, in particolare nell’area di Marib, oggi il fronte più caldo nonché strategico della guerra. Nel maggio 2021 un comandante militare di Hezbollah, il partito-milizia sciita libanese, Mustafa al-Ghrawi, è stato ucciso, secondo il governo yemenita, sul fronte di Marib (Sirwah). Il governatore di Marib, Sultan Arada, ha dichiarato che esperti militari nonché personale libanese, siriano, iracheno e iraniano partecipa ai combattimenti, inclusi scontri diretti, offrendo inoltre sostegno logistico alla milizia degli huthi. Alcuni combattenti libanesi, sostiene il governatore, sono stati uccisi a Marib. La crescita del coinvolgimento dell’Iran e di combattenti filoiraniani in Yemen avviene mentre – e nonostante – Iran e Arabia Saudita abbiano avviato colloqui diretti in Iraq, con la mediazione di Baghdad, in un’ottica di de-escalation mediorientale.

 

[1] Hans Grundberg (nuovo Inviato Speciale Onu in Yemen), OSESGY, Briefing to United Nations Security Council by the Special Envoy for Yemen – Hans Grundberg, 10 settembre 2021

[2] Amjad Tadros, “Can a nuanced U.S. shift on Yemen’s “legitimate” Iran-backed rebels help end a gruelling civil war?”, CBS News, 25 giugno 2021 

[3] S. Batati, “US: Hadi-led authority is Yemen’s only legitimate government, but Houthis cannot be ignored”, Arab News, 26 giugno 2021

[4] UNHCR, “Civilians at risk from escalating fighting in Yemen’s Marib”, News and Stories, 16 aprile 2021.

[5] Per approfondire, E. Ardemagni, Yemen: in guerra, ma cresce l’export petrolifero, ISPI Commentary, ISPI, 6 novembre 2020.

[6] Il 10 agosto 2021 Dana Stroul, vice assistente per il Medio Oriente del Segretario alla Difesa USA, ha affermato davanti alla Commissione Esteri del Senato “We have seen more attacks from the Houthis launched at Saudi Arabia in the first half of this year than we have for several prior years”, in J. Szuba, “Iran sending more weapons to Yemen's Houthis amid cease-fire effort: Pentagon”, Al-Monitor, 11 agosto 2021

[7] Times of Israel, “Pentagon denies official said attack on Israel-linked ship came from Yemen”, 10 agosto 2021.

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