Cinque anni dopo l’inizio del conflitto, lo Yemen è ancora in guerra. La crescita della violenza (gennaio 2020), dopo una significativa riduzione delle ostilità (autunno 2019), mette a rischio i flebili spiragli di pace fin qui apertisi. L’accordo di Riyadh (novembre 2019), che ha sancito l’ingresso dei secessionisti meridionali nelle istituzioni riconosciute basate ad Aden, non trova applicazione, come scarsa attuazione aveva prima trovato l’accordo di Stoccolma (dicembre 2018) per il cessate il fuoco nel governatorato di Hodeida. In Yemen manca una cornice negoziale nazionale. Da un lato, ciò riflette lo sfaldamento istituzionale e politico del paese; dall’altro, la diplomazia “a segmenti” si rivela una misura-tampone in grado sì di placare le offensive su vasta scala, ma a costo di cristallizzare i rapporti di forza militari e, insieme, la frammentazione politico-sociale di un paese composto ormai da micro-poteri locali con forti legami transnazionali. In tale contesto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti rinegoziano i loro equilibri geopolitici nel teatro yemenita, mentre gli insorti huthi perseguono una “sovranità” di fatto sulle aree nordoccidentali.
Un accordo unitario per il sud: il governo è yemenita, ma con sponsor regionali
Dopo più di due mesi di trattative fra Jeddah e Riyadh, il governo internazionalmente riconosciuto dello Yemen e i secessionisti meridionali del Consiglio di transizione del sud (Southern Transitional Council, Stc) hanno siglato il 5 novembre scorso, nella capitale saudita, un accordo di condivisione del potere (power sharing). Il testo, la cui applicazione è in ritardo su tutti i punti, prevede in particolare: entro 15 giorni dalla firma, il ritorno degli equilibri militari precedenti alla crisi intra-meridionale dell’agosto 2019 (ad Aden, in Abyan e Shabwa[1]) con il dispiegamento delle “forze di sicurezza appartenenti all’autorità locale”[2] in sostituzione delle fazioni belligeranti; entro 30 giorni dalla firma, la formazione di un governo unitario che rappresenti equamente le parti (24 ministri, 50:50 fra ministri del nord e del sud); entro 60 giorni dalla firma, l’unificazione delle forze militari sotto l’autorità del ministero della Difesa e la supervisione diretta della coalizione militare a guida saudita. L’intesa può essere compresa intersecando due livelli di lettura: uno yemenita, l’altro regionale. Per analizzare il primo, è utile partire dall’evoluzione dei rapporti di forza tra Arabia Saudita ed Emirati e ciò dà il senso del grado di interdipendenza fra politica locale e politica regionale in Yemen. Infatti, i negoziati intra-yemeniti sono stati organizzati e gestiti dall’Arabia Saudita: il regno ha svolto il ruolo di garante dell’intesa, nata senza stretta di mano fra il presidente riconosciuto, Abd Rabu Mansur Hadi (anch’egli un uomo del sud, originario di Abyan, ma già vicepresidente del regime a trazione nordista di Ali Abdullah Saleh) e il leader del Stc Aydarous al-Zubaydi, già governatore di Aden.
I sauditi dovranno altresì monitorare l’effettiva applicazione dell’accordo, che finora rimane ampiamente disatteso. L’Arabia Saudita torna così a essere protagonista del gioco politico in Yemen. Infatti, il ruolo saudita era stato sempre più offuscato dagli Eau, divenuti attori decisivi per le dinamiche politico-militari delle regioni del sud yemenita: coniugando sostegno militare ai secessionisti (anche di orientamento salafita) nonché ricostruzione e aiuti allo sviluppo, gli emiratini hanno intessuto solide relazioni transnazionali nelle regioni meridionali del paese. L’escalation militare dell’agosto 2019 nel sud dello Yemen ha però costretto gli Eau ad adottare un profilo più basso, evitando così una grave crisi politica con l’Arabia Saudita: il Stc, informalmente sostenuto dagli emiratini e militarmente più forte della fazione pro-Hadi, si è scontrato con le forze filo-saudite del governo riconosciuto, nella capitale provvisoria di Aden e nei governatorati meridionali di Abyan e Shabwa. In un simbolico “secondo colpo di stato”, i secessionisti hanno persino occupato il palazzo presidenziale del governo (Aden, 10 agosto 2019) mentre il presidente Hadi si trovava a Riyadh, per poi ritirarsi dai principali fronti. Pertanto, il ritorno geopolitico dei sauditi nel sud dello Yemen è una diretta conseguenza della “calcolata frenata” degli emiratini. Infatti, il ripiegamento tattico di Abu Dhabi in Yemen (avviato nell’estate 2019 con il consistente ritiro delle proprie forze militari dal sud-ovest, nonché dei gruppi di supporto sudanesi[3] e il successivo dispiegamento delle forze saudite), permette agli emiratini di ottenere una vittoria strategica in Yemen: l’ingresso dei secessionisti meridionali nelle istituzioni riconosciute, ovvero governo, esercito e polizia.
Con gli alleati del Stc ufficialmente al governo, gli Eau consolidano la propria influenza nel sud dello Yemen, riducendone però i costi in termini militari (truppe all’estero e caduti fra i militari nazionali), politici (tensioni con i sauditi), nonché d’immagine (la partecipazione attiva a una guerra malvista da cancellerie e media internazionali). Occorre evidenziare, però, che la causa meridionale dello Yemen, che da sempre si dibatte fra autonomisti e secessionisti, non è rappresentata solo dal Stc. Infatti, sono numerosi i gruppi meridionali che rivendicano l’autonomia o la secessione e che potrebbero, nel medio-lungo periodo, stigmatizzare il “tradimento” del Stc entrato in un governo unitario il cui documento fondativo non cita mai la causa meridionale né forme di autonomia federale, lasciando intravedere nuove tensioni. È il caso del Movimento Meridionale (Al Hiraak al Janubi) solo in parte confluito nel Stc, oppure del Consiglio di salvezza del sud fondato nell’ottobre 2019 a Mahra e ostile alle ingerenze saudite ed emiratine nel paese. Inoltre, non è da escludere che la frangia più estrema del salafismo armato yemenita (creatasi negli anni del conflitto civile, differenziandosi così dal tradizionale quietismo politico dei salafiti dello Yemen), possa confluire in al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), che rimane attiva nell’entroterra meridionale.[4] Per l’Arabia Saudita, che già deve guardarsi dagli insorti huthi a nord, l’Accordo di Riyadh è quindi un’occasione insperata, seppur estremamente fragile, per rafforzare il proprio ruolo nel sud yemenita, nel tentativo di ricompattare il frastagliato fronte anti-huthi.
Nord, tregua a rischio: ennesima escalation fra gli huthi e il governo riconosciuto
Dopo i sofisticati attacchi con missili e droni alle installazioni petrolifere di Saudi Aramco (settembre 2019), rivendicati ma non attuati dagli huthi[5], i ribelli hanno offerto una tregua ai sauditi, dopo anni di scontri frontalieri nonché di lanci di razzi e missili verso il regno. Una conferma della strategia “al rialzo” degli insorti sciiti zaiditi del nord, che non esitano ad attaccare o a rivendicare azioni eclatanti contro i sauditi per aumentare il proprio peso politico-negoziale in Yemen e nella regione. Colloqui informali tra gli insorti yemeniti ed emissari dell’Arabia Saudita (quindi senza il governo riconosciuto dello Yemen) sono iniziati nel mese di ottobre, prima in Giordania e poi nel sultanato dell’Oman, facilitati da un netto calo dei bombardamenti sauditi nelle aree nord-occidentali dello Yemen, quelle controllate dagli huthi. Infatti, secondo le Nazioni Unite, il conflitto yemenita (iniziato nel marzo 2015) ha vissuto in novembre uno dei mesi di più bassa intensità (meno 80% di bombardamenti sauditi rispetto al periodo precedente[6]). A fine estate gli Stati Uniti avevano già confermato l’avvio di colloqui informali con gli huthi. Tre ambasciatori europei in Yemen (Unione europea, Francia, Olanda) hanno incontrato a Sanaa (19-20 gennaio) figure di spicco degli insorti: il capo del Consiglio politico supremo Mahdi al-Mashat, il capo del Comitato rivoluzionario Mohammed Ali al-Huthi e il “primo ministro” dell’esecutivo auto-proclamato della capitale Abdulaziz Bin Habtoor.[7] Questo è il primo incontro ad alto livello sin dal 2015 con il movimento-milizia, che è ormai avviato a proclamare forme di “sovranità” anche economico-bancarie, con una propria banconota nonché una banca centrale.[8]
Tra mille difficoltà, uno spiraglio diplomatico per lo Yemen ha preso forma, seppur delimitato a due accordi molto locali: l’accordo di Stoccolma (dicembre 2018) per il cessate il fuoco nel governatorato di Hodeida, siglato sotto l’egida dell’Onu tra gli huthi e il governo riconosciuto, e l’accordo di Riyadh (novembre 2019), che istituisce un governo unitario basato ad Aden fra governo riconosciuto e secessionisti del Stc. Due intese di respiro locale, solo in minima parte applicate, che mettono a nudo i limiti della diplomazia “a segmenti”, cioè focalizzata su specifiche aree territoriali e quindi slegata da una cornice nazionale. Infatti, tale modalità può essere utile per sbloccare la fase iniziale del negoziato, ridurre la sfiducia tra le parti e impedire incontrollabili escalation militari (come nel caso dello sventato attacco della coalizione saudita-emiratina alla città-porto di Hodeida nel 2018). Tuttavia, la diplomazia a “segmenti”, sintomo dello sfaldamento istituzionale dello Yemen, ha fin qui prodotto pochissimi risultati sul campo, cristallizzando gli equilibri di forza militari senza risolvere le differenze politiche. Tra l’altro – come gli huthi hanno dimostrato di saper fare con scaltrezza – gli accordi locali consentono agli attori armati di spostare le risorse, anche militari, dai teatri “diplomaticamente congelati” (es. Hodeida) ad altri fronti paralleli, per potersi così ri-mobilitare con maggior efficacia guadagnando un vantaggio di posizione sul nemico. Infatti, nel mese di gennaio, la guerriglia si è riacutizzata in alcune linee del fronte bloccate da mesi (al Jawf nel nord ovest; l’area di Nihm che collega la capitale Sanaa, ancora occupata dagli huthi a Mareb, che è anche il quartier generale dell’esercito yemenita). Il 18 gennaio un gravissimo attacco ha ucciso 116 militari della guardia presidenziale (in attesa di dispiegamento ad Aden), ferendone circa 150, nella moschea di un campo militare nel governatorato centrale di Mareb: un attentato con droni e missili che il presidente Hadi ha subito attribuito agli huthi, che non hanno tuttavia mai rivendicato l’azione.[9] In risposta, il governo riconosciuto ha dato l’ordine alle sue forze di procedere verso Sanaa; ma sul campo, gli insorti del nord sono addirittura avanzati nell’area di Nihm (60 chilometri circa da Sanaa in direzione di Mareb), mentre i filo-governativi hanno dovuto ripiegare anche a causa di defezioni. Il 29 gennaio gli huthi hanno inoltre dichiarato di aver attaccato numerose infrastrutture energetiche, militari e aeroportuali dell’Arabia Saudita (governatorato sudoccidentale di Jizan; città di Abha, Jizan e base militare di Khamis Mushait); i sauditi, pur senza confermare, sostengono che i missili e i droni diretti contro il territorio saudita sono stati intercettati dal sistema anti-missilistico Patriot.
L’attentato contro i soldati yemeniti riuniti in preghiera rappresenta uno degli attacchi più sanguinosi compiuti in Yemen; pertanto, è ancora più significativo che – a fronte delle condanne unanimi – l’Arabia Saudita non abbia interrotto i colloqui, sempre più in salita, con gli huthi. Questa scelta non scontata sottolinea che i sauditi, a cinque anni dall’inizio dei bombardamenti nel paese confinante, comprendono ormai la necessità di trovare una via d’uscita politica alla guerra in Yemen; non è un caso che sia ormai il più diplomatico Khaled bin Salman al-Saud, vice ministro della Difesa e fratello minore del principe ereditario Mohammed bin Salman, a gestire il dossier yemenita per conto di casa al-Saud. La soluzione politica, che non potrà che obbligare Riyadh a un compromesso, dunque a una coesistenza con gli huthi, è ancora più urgente dato il contesto regionale. Dopo l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli statunitensi (Baghdad, 3 gennaio), l’Arabia Saudita attende le ritorsioni di lungo periodo, geopolitiche e/o militari, di Teheran, sapendo che gli Stati Uniti del presidente Donald Trump accorrerebbero in soccorso solo se gli interessi Usa (es. basi militari; soldati) venissero direttamente colpiti dall’Iran.
Lo Yemen, che confina con il regno saudita e in cui gli huthi giocano sempre più di concerto con Teheran, è uno dei possibili teatri in cui/da cui gli iraniani potrebbero agire. Contenere l’incendio di una guerra che proprio i sauditi hanno contribuito a infiammare, tramite un intervento aereo inefficace e controproducente, è dunque – cinque anni dopo – in cima agli interessi nazionali di Riyadh.
[1] Si rimanda a E. Ardemagni, Yemen: conflitto a tre “sovranità”, in V. Talbot (a cura di) Focus Mediterraneo allargato numero 11, ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento italiano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, settembre 2019.
[2] Riyadh Agreement, Full Text.
[3] Il nuovo governo del Sudan ha annunciato il ritiro delle forze sudanesi ancora presenti in Yemen: nel dicembre 2019, solo 5 mila soldati rimanevano nel paese (erano 30 mila nel marzo 2015), dispiegati ad Aden e lungo il confine saudita-yemenita. Si veda A. al-Ashwal, “Sudanese troops continue exit from war-stricken Yemen”, Al Monitor, 3 febbraio 2020
[4] Il leader di Aqap, Qassim Al Raymi, è stato ucciso da un drone statunitense, come confermato dalla Casa Bianca il 7 febbraio. L’attacco sarebbe stato sferrato il 25 gennaio nel governatorato centrale di Mareb. Nel contempo, Aqap ha rivendicato, con un video di dubbia attendibilità, l’attentato alla base aerea statunitense di Pensacola in Florida (avvenuto il 6 dicembre scorso), quando il pilota saudita Mohammed Saeed Alshamrani uccise tre persone. La rivendicazione tardiva dell’attacco di Pensacola sarebbe, da parte di Aqap, il tentativo di spostare l’attenzione mediatica dalla scomparsa del leader. Alshamrani si stava addestrando presso la base Usa nell’ambito di un programma congiunto tra militari sauditi e statunitensi, ora sospeso dal Pentagono per “verifiche”. Alshamrani era originario di Tabalah, villaggio del sud dell’Arabia Saudita (Asir) ed era cresciuto nella regione orientale di Al Ahsa. Si veda il reportage di V. Yee, “Saudi family of Pensacola gunmen: ‘Even we don’t know the truth’ of motive”, New York Times, 11 dicembre 2019. Già in passato Aqap ha però dato prova di vitalità territoriale nonostante la perdita di leader e ideologi.
[5] M. Nichols, “Exclusive: U.N. investigators find Yemen’s Houthis did not carry out Saudi oil attacks”, Reuters, 8 gennaio 2020.
[6] OSESGY, Briefing of the Special Envoy of the United Nations Secretary-General for Yemen to the open session of the UN Security Council, 22 novembre 2019.
[7] The Delegation of the European Union to Yemen, EU Ambassadors visits Sana’a; Critical Threats-American Enterprise Institute, Gulf of Aden Security Review, 23 gennaio 2020.
[8] “Yemen’s rival powers battle over banknotes”, Reuters, 18 gennaio 2020
[9] Ritirandosi da Mareb, le unità d’élite degli Emirati Arabi avevano rimosso il sistema anti-missilistico Patriot da loro posizionato nell’area, da allora più esposta alle azioni asimmetriche.