Tutto torna. Nel 2004, gli uomini dell’allora presidente Ali Abdullah Saleh uccisero Husayn al-Huthi, fondatore nonché leader di Ansarullah, il movimento degli insorti del nord (appunto, gli huthi), nel suo feudo di Sa’da, culla dell’insorgenza huthi per l’autonomia territoriale e religiosa. Ieri, 2017, alcuni miliziani huthi hanno assassinato Ali Abdullah Saleh, a Sana’a, sua città e roccaforte, simbolo di un potere ultra-trentennale che ha segnato - e segnerà ancora a lungo - il destino dello Yemen.
Basterebbe dare uno sguardo alla storia recente dello Yemen per comprendere che vendetta è la parola più appropriata per definire, sospendendo il giudizio, ciò che è accaduto ieri a Sana’a. Vendetta per l’uccisione di al-Huthi e per l’ennesimo cambio di campo del “traditore” Saleh. Ma tra il 2004 a oggi c’è un abisso. E in mezzo, c’è una guerra civile, quindi dalle radici interne, che è diventata un conflitto a partecipazione regionale e dai tratti settari.
Ecco perché la brutale esecuzione di Ali Abdullah Saleh per mano di miliziani huthi non potrà che trascinare lo Yemen in una nuova spirale di odio e violenza. E la beffa è che proprio il recentissimo cambio di alleanze del “trasformista” Saleh, contro gli huthi e in favore dell’Arabia Saudita (era appena sabato scorso), avrebbe potuto accelerare la risoluzione del conflitto, spostando definitivamente gli equilibri militari, bloccati da troppo tempo, verso gli “anti-huthi” e Riyadh.
In pochi giorni, lo Yemen ha imboccato un nuovo tornante della sua tragica storia. Da mesi, Ansarullah accusava Saleh di trattare la pace con sauditi ed emiratini, mentre il Gpc rispondeva denunciando l’arricchimento degli huthi e il loro monopolio sul “governo parallelo” di Sana’a. Tra sabato 2 e domenica 3 dicembre, lo scenario si è però trasformato: la rottura fra gli huthi e i seguaci dell’ex presidente non era più ricomponibile, nonostante i tentativi, falliti, di mediazione.
In un discorso televisivo, Saleh aveva teso la mano all’Arabia Saudita, come in passato, dichiarandosi “pronto a voltare pagina”, in cambio della fine dei bombardamenti della coalizione a guida saudita e della rimozione totale dell’embargo. Soprattutto, Saleh condannava il lancio missilistico degli huthi contro l’aeroporto internazionale di Riyadh (4 novembre). Il regno wahhabita salutava prontamente “il ritorno” dell’ex alleato Saleh: nella notte tra il 2 e il 3 novembre, la coalizione militare offriva supporto aereo alle forze militari fedeli all’ex presidente, contro i miliziani huthi.
Poi, l’uccisione di Ali Abdullah Saleh.
Il governo riconosciuto, guidato dal debolissimo Abd Rabu Mansur Hadi, aveva già aperto all’amnistia per chiunque avesse abbandonato gli insorti. Parallelamente, i principali attori politico-tribali-militari dello Yemen si stavano coalizzando “tutti contro gli huthi”, con Ansarullah indebolito militarmente dalla fine dell’alleanza con il General People’s Congress (Gpc), il partito dell’ex presidente, che manteneva fortissimi legami con le forze di sicurezza. Ma l’uccisione di Saleh farà crescere il rancore delle tribù dell’area della capitale, che non esiteranno a vendicare il loro leader, percepito come il simbolo dello Yemen repubblicano contro le aspirazioni di imamato (il governo dell’imam) degli huthi. [1]
Gli huthi e Saleh sono stati nemici, alleati, ora di nuovo nemici. Tra il 2004 e il 2010, l’esercito del presidente Saleh (insieme alle forze irregolari del Generale Ali Mohsin al-Ahmar, che oggi torna protagonista) ha combattuto, invano, sei battaglie contro gli huthi. Ma dall’autunno del 2014 fino a pochi giorni fa, il blocco di potere di Saleh e il movimento di Ansarullah hanno dato vita a un’alleanza di interesse contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale (messo in piedi dopo la rivolta del 2011 e le dimissioni di Saleh) e soprattutto, contro l’Arabia Saudita, che bombarda gli insorti dal marzo 2015. Gli huthi volevano il potere e le risorse per le terre del nord, Saleh cercava la rivincita contro Riyadh, nonché il ritorno alla guida del paese, magari attraverso il figlio Ahmed Ali, già capo della Guardia repubblicana (ancora fedele a Saleh), oggi ai domiciliari negli Emirati Arabi Uniti.
Oggi, l’equazione politico-tribale-militare precedente alla rivolta del 2011 si è prontamente ricreata, contro gli huthi, con la “benedizione” saudita. Infatti, nello stesso fronte anti-Ansarullah, ci sono adesso Hadi (già vice di Saleh) che capeggia, da Riyadh, le istituzioni riconosciute, il ritorno del Gpc della famiglia del defunto presidente, il Generale Ali Mohsin al-Ahmar (che voltò le spalle a Saleh nel 2011, per poi divenire vice presidente e vice comandante delle forze armate legittime nel 2016), il partito islamista Islah della potente famiglia degli al-Ahmar (confederazione degli Hashid, non imparentati con il Generale). Questo è esattamente il sistema di potere che reggeva lo Yemen fino al 2011: la restaurazione yemenita è iniziata e, paradossalmente, verrà saldata proprio dall’uccisione di Saleh.
Quattro dinamiche sono da osservare con attenzione. Innanzitutto, il fattore tribale: è molto probabile che gli Hashid, la principale confederazione tribale dello Yemen (di cui il clan dei Saleh, i Sanhan, fa parte), radicata dei dintorni della capitale (proprio dove l’ex presidente è stato ucciso), lanci un’aspra battaglia contro gli huthi per vendicare il leader, con la copertura aerea saudita. Il governo Hadi ha già lanciato l’Operazione “Arabian Sana’a” per recuperare la capitale: un nome che enfatizza la pericolosa strategia di stigmatizzazione etnico-settaria rivolta contro gli huthi, etnicamente arabi ma “persiani” per la propaganda saudita, poiché sostenuti da Teheran. Il Generale Ali Mohsin, che ha forti legami con le tribù sunnite della zona, alcune pro-Islah, preparerebbe l’offensiva da Mareb (100 km a est), per riprendere Sana’a, cui dovrebbe partecipare anche il nipote Tariq Saleh, capo della Guardia presidenziale, di cui non si hanno però notizie dall’uccisione dello zio. Senza la desistenza di quegli stessi clan (più quelli dell’Amran e della periferia di Sana’a), gli huthi non avrebbero potuto occupare la capitale (settembre 2014) e portare a termine il golpe (gennaio 2015). Ora, parte del tessuto tribale che circonda Sana’a potrebbe voltare le spalle agli huthi, sebbene la “rivolta popolare” chiamata da Saleh e poi da Hadi non si sia ancora vista. Riuscirà Ansarullah a tenere, da sola, le tante linee del fronte?
In secondo luogo, nonostante il movimento huthi abbia penetrato anche le forze di sicurezza fedeli a Saleh, negli anni dell’alleanza, le unità d’élite, come la Guardia repubblicana, rimangono bastioni della famiglia dell’ex presidente: il loro ritorno nell’ “equazione di regime” dovrebbe ridimensionare le capacità militari degli huthi, che prima della armi iraniane hanno beneficiato dell’arsenale della parte dell’esercito yemenita rimasta con Saleh (missili Scud compresi).
Il terzo punto è l’escalation della violenza urbana, a Sana’a e nei dintorni: la capitale è una città di quasi due milioni di abitanti.
E poi, cosa farà il sud? L’interrogativo rimane al momento in ombra, ma l’ennesimo colpo di teatro yemenita potrebbe accelerare i progetti di indipendenza del sud, promossi anche dal Consiglio di Transizione del Sud (Stc) dell’ex governatore di Aden, Aidarous al-Zubaidi. Soprattutto, le tante identità regionali e/o tribali meridionali non accetterebbero mai un “ritorno al passato”, dato che il sistema di potere che si è appena ricomposto è espressione delle élite del nord.
Arabia Saudita e Iran incupiscono uno scenario già fosco. Riyadh cercherà di capitalizzare al massimo il cambio di campo di Saleh (e l’appoggio finora acritico di Washington), intensificando i bombardamenti sul nord a sostegno dell’avanzata di terra degli “anti-huthi”, mentre Ansarullah potrebbe, con il placet di Teheran, tentare qualche altro lancio di missile in territorio saudita o emiratino.
Dunque, l’ultimo atto di Ali Abdullah Saleh in Yemen è destinato a produrre effetti di lungo periodo, nel martoriato Yemen e nel Golfo.
Eleonora Ardemagni, ISPI Associate Research Fellow
Note
[1] Sul movimento huthi, si rimanda a Eleonora Ardemagni, From Insurgents to Hybrid Security Actors? Deconstructing Yemen’s Huthi Movement, ISPI Analysis n° 315, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) aprile 2017 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/insurgents-hybrid-security-actors-deconstructing-yemens-huthi-movement-16546