Il 26 marzo prossimo, lo Yemen entrerà nel quarto anno di guerra: i morti hanno superato i 10 mila, mentre 22 milioni di yemeniti (su un totale di 27 milioni), necessitano di assistenza umanitaria. A dispetto delle tante bombe sganciate, l’Arabia Saudita è oggi meno influente in Yemen di quanto lo fosse prima dell’intervento militare iniziato nel 2015. L’Iran, storico rivale dei sauditi, e gli Emirati Arabi Uniti (EAU), ambiziosi alleati di Riyadh, hanno al contrario guadagnato notevole spazio geopolitico nell’unica repubblica della Penisola arabica. E hanno eroso il tradizionale “soft and money power” dell’Arabia Saudita.
In Yemen, la rivalità fra sauditi e iraniani ha aggrovigliato un conflitto complesso, nonché di matrice interna: una guerra, anche inter-tribale, per il potere e le risorse. Anno dopo anno, Teheran ha aumentato il livello d’interferenza politico-militare nel paese a sostegno degli huthi, gli insorti sciiti zaiditi del movimento-milizia settentrionale di Ansarullah. Di fatto, le accuse lanciate da Riyadh sin dalla prima ora, “l’Iran arma gli huthi”, si sono poi trasformate in una beffarda realtà.
L’ultimo Rapporto del Panel degli esperti delle Nazioni Unite scrive che l’Iran non ha preso le misure necessarie per prevenire la fornitura/vendita diretta o indiretta di armi agli huthi, in violazione così delle relative risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu. Gli esperti hanno identificato, in Yemen e in Arabia Saudita, resti di missili, materiale militare nonché droni, di origine iraniana: armi, si legge nel Rapporto, entrate in Yemen dopo l’imposizione dell’embargo[1].
L’Arabia Saudita è intervenuta militarmente in Yemen per liberare i territori occupati dagli insorti, tra cui la capitale Sana’a, re-insediando (ma ad Aden), il governo ad interim di Abd Rabu Mansur Hadi. Riyadh ha utilizzato tutti gli strumenti possibili: guerra e cooptazione politico-militare dei principali attori tribali anti-huthi.
I sauditi hanno clamorosamente fallito i loro obiettivi: fra i grandi centri urbani, solo Aden e Al-Mokha sono state liberate dai ribelli, ma a guidare le operazioni di terra sono state le Forze Speciali della Guardia presidenziale emiratina.
In tale quadro, l’Iran è diventato sponsor degli huthi. Di certo, Ansarullah non è un’invenzione iraniana, né può essere considerato un attore proxy come Hezbollah o le milizie sciite irachene. Negli anni, gli huthi si sono ideologicamente e operativamente avvicinati al network transnazionale sciita che fa capo all’Iran: tuttavia, il movimento di Sa’da ha fin qui perseguito un’agenda politica interna (prima locale, poi nazionale) e non viene “telecomandato” dal generale Qassem Suleimani, il capo degli Al-Quds della Repubblica Islamica.
Gli huthi sono riusciti a compiere l’impossibile: vincere il consenso (o la neutralità), in chiave anti-governativa, di territori del profondo nord tribale dello Yemen. E ciò nonostante gli huthi abbiano sempre rigettato il tribalismo, dato che la loro leadership è composta dai sâda (sing. sayyid), l’élite religiosa e non tribale sciita zaidita (di discendenza hashemita). In più, il movimento fondato dal defunto Husayn Al-Huthi è riuscito a prosciugare la rete politico-clientelare-militare dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, ucciso da miliziani di Ansarullah (suoi alleati fino a pochi giorni prima) il 4 dicembre scorso.
Per i sauditi, la guerra yemenita è un’ingente voce di spesa: per Teheran, il sostegno agli huthi è stato, finora, a basso costo. L’obiettivo degli iraniani in Yemen è duplice: mettere sotto pressione il confine saudita, appoggiando la guerriglia huthi, e logorare Riyadh, tenendo i sauditi militarmente e finanziariamente occupati sul fronte (quasi) interno, ovvero distanti da quel Levante arabo (Libano, Siria e Iraq) in cui sono gli iraniani a dare le carte. Non vi sono dubbi: Teheran ha centrato i suoi obiettivi di politica estera, anche qui.
In Yemen, la contrapposizione binaria fra sauditi e iraniani risente della presenza di un terzo attore regionale: gli Emirati Arabi Uniti. Sauditi ed emiratini sono certo uniti dalla volontà di contenere Teheran e Ansarullah. Tuttavia, le ambizioni geopolitiche di Abu Dhabi, qui declinate nel sostegno ai secessionisti meridionali, stanno indebolendo il fronte filo-governativo, offrendo così un vantaggio indiretto all’Iran.
Gli obiettivi degli Emirati Arabi in Yemen, perseguiti tramite impegno militare di terra, rete di patronage locale, addestramento di forze yemenite e aiuto alla ricostruzione nel sud, erano tre: indebolimento della Fratellanza Musulmana (qui rappresentata dal partito Islah, che raccoglie però anche salafiti), contrasto ad AQAP e creazione di un’area di influenza geostrategica nel sud dello Yemen. Gli emiratini hanno raggiunto tutti e tre gli obiettivi: Islah è politicamente e militarmente nell’angolo, AQAP non controlla più territori e città strategiche, il sud costiero dello Yemen (da Aden all’Hadhramaut meridionale, fino all’isola di Socotra) li vede protagonisti, rafforzandone la proiezione su Corno d’Africa e Oceano Indiano.
Come dimostrato dalle recenti violenze ad Aden tra forze filo-saudite e filo-emiratine (28-30 gennaio), le strategie parallele di Arabia Saudita ed Emirati Arabi in Yemen non possono più coesistere: uniti contro gli huthi, ma divisi sulla fisionomia politico-istituzionale dello Yemen di domani. Il pro-separatista Consiglio di Transizione del Sud (STC), appoggiato da Abu Dhabi, è diventato troppo forte, riuscendo a consolidare le proprie posizioni prima che la Coalizione araba imponesse una fragile tregua locale (in vigore dal 31 gennaio).
Riyadh esce finora perdente anche nella gara per il controllo delle principali reti viarie e infrastrutturali dello Yemen, strategiche non solo per le sorti della guerra, ma anche per il post-conflict. Gli huthi (quindi l’attore vicino all’Iran) continuano a occupare la capitale Sana’a e il porto di Hodeida sul Mar Rosso; gli emiratini esercitano grande influenza sui principali centri urbani e portuali della costa sud, Al-Mokha, Aden, Balhaf (terminal gasifero) e Mukalla. Al contrario, l’Arabia Saudita controlla, attraverso le forze pro-Hadi, solo il piccolo porto della città di Midi, al confine con il Jizan saudita, e sta incrementando la presenza militare nella periferica regione di Mahra (porto e aeroporto di Ghayda), in aperta competizione con gli emiratini, il confinante Oman e lo stesso Iran: le armi di fabbricazione iraniana, in parte ancora da assemblare, entrerebbero da questa regione[2].
In Yemen, il terreno di scontro indiretto fra sauditi e iraniani rimane il confine tra il regno wahhabita e le terre d’origine di Ansarullah: la costante minaccia missilistica huthi nei confronti di Riyadh, colpita il 4 novembre scorso, è solo l’aspetto più evidente -e pericoloso- del problema. Dal 2015, il livello di insicurezza lungo il confine saudita-yemenita è fortemente aumentato: molti villaggi dell’Arabia Saudita sono stati sfollati e Najran, la città frontaliera più grande, è stata più volte colpita dagli huthi.
Il principe ereditario saudita, nonché ministro della difesa Mohammed bin Salman Al-Saud, ha indicato che riprendere il controllo della capitale Sana’a è un obiettivo non negoziabile: lo Yemen sarà fra i principali temi del prossimo incontro fra l’erede al trono di Riyadh e il presidente statunitense Donald Trump, in occasione della visita ufficiale di Mohammed bin Salman negli Stati Uniti (19-23 marzo). I sauditi hanno invano sperato in un aiuto militare maggiore da parte di Washington. Invece, lo stesso appoggio logistico (rifornimenti in volo) e d’intelligence assicurato dagli Stati Uniti alla coalizione, sin dall’inizio del conflitto, è ora oggetto di una mozione bipartisan del Congresso (firmata dal democratico Chris Murphy, dal repubblicano Mike Lee dall’indipendente Bernie Sanders) che chiede la fine del sostegno Usa all’operazione militare a guida saudita-emiratina in Yemen.
Per tante e complesse ragioni, l’Arabia Saudita esce finora perdente dalla competizione regionale “a tre” per il controllo dello Yemen, con scarse possibilità di recupero. Anche perché il rivale Iran, a lungo evocato nei discorsi settari di Riyadh a giustificazione dell’intervento militare del 2015, è diventato, davvero, un attore influente nella partita yemenita.
1. United Nations Security Council, Panel of Experts on Yemen, 26 January 2018, S/2018/68.
2. E. Ardemagni, “Emiratis, Omanis, Saudis: the rising competition for Yemen’s al-Mahra,” The London School of Economics and Political Science, LSE Middle East Centre Blog, 28 Dicembre 2017; United Nations Security Council, op.cit.