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Commentary

Zimbabwe: inizia (davvero) il dopo Mugabe?

Rocco Ronza
30 luglio 2018

Per lo Zimbabwe, le elezioni presidenziali del 30 luglio segnano la fine di un’era. Per la prima volta dalla fondazione del paese, nel 1979, gli elettori (cinque milioni e mezzo quelli registrati) non sono chiamati ad esprimersi a favore o contro Robert Mugabe, il vecchio padre-padrone della patria le cui dimissioni da presidente, arrivate dopo un colpo di stato ‘dolce’ nato all’interno del suo partito nel novembre scorso, avevano fatto il giro del mondo. Sulle schede, gli elettori non troveranno nemmeno il nome di Morgan Tsvangirai, l’ex-leader sindacale fondatore e guida del Movement for Democratic Change (Mdc), che dalla fine degli anni Novanta aveva incarnato l’alternativa democratica e filo-occidentale all’egemonia dello Zanu-Pf, il movimento che negli anni Settanta, sotto la guida di Mugabe, aveva condotto la guerra di liberazione contro il regime bianco. Sopravvissuto a violenze e incarcerazioni (e anche a un periodo di coabitazione con il presidente, nel ruolo di primo ministro, che tra il 2009 e il 2013 aveva avviato la parziale ripresa dell’economia), il 65enne Tsvangirai ha fatto in tempo ad assistere alle dimissioni di Mugabe, ma è morto di cancro nel febbraio scorso, pochi mesi dopo l’uscita di scena del suo avversario storico. 

I due candidati che si contendono la successione a Mugabe sono Emmerson Mnangagwa e Nelson Chamisa. Il primo, classe 1942, da fedelissimo di Mugabe si è trasformato, nel breve volgere di qualche mese, in avversario del vecchio leader, dal quale, con il benestare dei militari, aveva ereditato partito e carica. Il secondo, quarantenne, militante del Mdc dalla sua fondazione nel 1999 nonché giovanissimo ministro per le nuove tecnologie nel governo di unità nazionale del 2009-2013, rappresenta il movimento che era stato di Tsvangirai. Quotato in maggio al 31% delle intenzioni di voto, contro il 42% di Mnangagwa, Chamisa era dato in graduale rimonta, al 37% (poco sotto al 40% del presidente uscente), nell’ultimo sondaggio Afrobarometer, condotto su 2.400 elettori tra la fine di giugno e i primi di luglio e pubblicato a pochi giorni dall’apertura dei seggi.

La campagna, per molti versi, è stata circondata dalle stesse polemiche che hanno accompagnato tutte le tornate elettorali nello Zimbabwe dal 2002: accuse di brogli, denunce di violenze e pressioni nelle campagne, appelli alla comunità internazionale sono rimbalzati, come al solito, sui media. Un mondo di differenze, anche questa volta, sembrava separare il “coccodrillo” Mnangagwa dal suo giovane sfidante. Con Mugabe dagli anni Sessanta, coinvolto nella famigerata repressione nel Matabeleland e nelle Midlands negli anni Ottanta, il neo-presidente uscente appare invariabilmente serio, compassato e di poche parole. Da parte sua Chamisa, che ha iniziato la sua carriera come leader della Zimbabwe National Student Union alla fine degli anni Novanta, sfoggia un’oratoria vivace e divertente e ama rifarsi a Obama, a Macron e al giovane Trudeau, oltre che al modello fornito dall’‘emergente’ sudafricano Mmusi Maimane.

A ben guardare, però, tra i due sfidanti sono spuntate anche somiglianze nemmeno immaginabili solo pochi anni fa. Contrariamente a Mugabe, Mnangagwa, che non perde occasione per sottolineare la propria distanza dall’ingombrante predecessore, ha invitato gli osservatori internazionali a seguire le elezioni e a certificarne la regolarità. Entrambi i candidati si sono impegnati a sviluppare le infrastrutture industriali e di trasporto, gravate da anni di incuria e mancanza di investimenti. Se Chamisa ha puntato di più sulla forza del linguaggio obamiano della speranza e del cambiamento, il presidente in carica ha rivendicato il merito di avere “riaperto lo Zimbabwe agli investitori” e ha sottolineato i vantaggi della stabilità e dell’esperienza. Ma entrambi hanno promesso di stimolare gli investimenti stranieri, di pagare fino all’ultimo centesimo i debiti dello Zimbabwe con il Fondo monetario internazionale e con la Banca mondiale e di restaurare la credibilità del paese sul piano internazionale. Ed entrambi hanno dato ampie assicurazioni circa il proprio impegno nel combattere la corruzione e nel riformare il settore agricolo, ponendo fine al disordine causato dai conflitti dei primi anni Duemila. Sarà anche forse per questo che i report giornalistici riferiscono, con un po’ di sorpresa, di discussioni tra elettori di opinione diversa, in pubblico e alla luce del sole.

In alcuni casi, i due candidati sono sembrati addirittura scambiarsi le parti. Mnangagwa ha fatto sforzi per riallacciare i ponti con i farmer bianchi, oggetto degli espropri voluti da Mugabe che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila avevano innescato la lunga crisi politica ed economica dello Zimbabwe, con l’obiettivo di convincerli a rientrare nel paese. Chamisa, da parte sua, ha dovuto respingere l’accusa di aver accettato l’aiuto finanziario di Grace Mugabe, moglie dell’ex-presidente, in cambio della nomina a vice-presidente in caso di vittoria; mentre sui suoi alleati del National Patriotic Front, un movimento fondato da transfughi dell’ala giovanile dello Zanu-Pf espulsi da Mnangagwa perché rimasti fedeli a Mugabe, grava il sospetto di aver organizzato un attentato dinamitardo contro lo stesso Mnangagwa, terminato con la morte di due membri del suo staff.

Nelle aree rurali, da sempre fedeli a Mugabe, il suo successore ha dovuto impegnarsi per farsi perdonare la colpa di avere defenestrato il fondatore dello Zanu: per mantenere il loro sostegno, ha dovuto far leva sui sentimenti di fedeltà al partito, sull’età del suo avversario e sul timore dei contadini neri di vedersi contestato il possesso dei lotti ottenuti in seguito agli espropri ai danni degli imprenditori bianchi. Che peraltro lo stesso Chamisa si guarda bene dal voler rimettere in discussione. Insomma, i conflitti attorno alla ‘questione della terra’, che nell’ormai lontano 1999-2000 avevano scosso lo Zimbabwe fin nelle fondamenta, sembrano allontanarsi nel tempo e sfumare lentamente all’orizzonte. Un segnale tutto sommato incoraggiante anche per il vicino Sudafrica, dove le promesse di redistribuzione delle terre da parte del nuovo presidente Cyril Ramaphosa sembrano cadere in un contesto molto diverso da quello dei primi anni Duemila e assai meno esplosivo.

 

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

 

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AUTORI

Rocco Ronza
ISPI Associate Research Fellow, Africa Programme

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