La destituzione del vice-presidente Emmerson Mnangagwa da parte del presidente Robert Mugabe il 6 novembre ha aperto una nuova fase – forse la più acuta e definitiva – nella lunga crisi che attraversa lo Zimbabwe dal 2000. Il 14 novembre i militari, certamente sostenitori del partito di governo (ZANU-PF) e di Mnangagwa, intervengono prendendo il controllo del paese e mettendo agli arresti domiciliari il presidente (il quale è comunque apparso ad una cerimonia pubblica), anche se dichiarano che non si tratta di un colpo di stato ma soltanto di un intervento volto a garantire ordine e sicurezza al paese.
Non sono ancora del tutto chiare le motivazioni di questi avvenimenti. Se le teorie più speculative vedono nel recente viaggio in Cina del comandante delle Forze Armate, il generale Constantino Chiwenga, un possibile coinvolgimento cinese, altri, molto più realisticamente, sottolineano la lunga battaglia in seno al partito di governo, con tensioni fra fazioni che sono state una costante di questi anni. Basti solo ricordare la crisi che portò nel 2014 all’uscita dal partito di un’altra leader storica, l’allora vice-presidente Joice Mujuru, anch’essa combattente per la liberazione come Mnangagwa, il quale l’ha poi sostituita alla vice-presidenza. Mujuru ha dichiarato che occorre garantire per il prossimo anno elezioni libere e corrette dopo un accordo di transizione.
Così come, se è importante e ambiguo il ruolo assunto dalla moglie del quasi 94enne Mugabe, Grace, non va sottovalutato il fondamentale ruolo politico del ministro dell’Istruzione superiore Jonathan Moyo, figura di spicco del partito il quale, qualche anno fa, ha lanciato la sua Generazione 40 (G40) con il fine dichiarato di dar voce nel partito ad una nuova generazione.
Sull’altro versante si è consolidata la fazione di Mnangagwa, detto il Coccodrillo (per questo la sua fazione è nota come Lacoste): essa include tanto alcuni politici vicini a modelli liberali, come l’ex ministro delle Finanze Patrick Chinamasa, destituito mentre cercava di ampliare le collaborazioni con la finanza internazionale per risollevare l’economia del paese, quanto settori dei veterani di guerra che avevano sostenuto la riforma agraria radicale del 2000 ma si sono poi allontanati dal presidente.
Tutto questo sembra indicare una nuova lotta per il potere in vista dell’era post-Mugabe, una lotta che vede come contendenti la moglie del presidente e il suo vecchio “portatore d’acqua” Mnangagwa.
Ci si interroga sugli scenari possibili. Le congetture possono essere tante ma cogliere esattamente i passi che gli attori in gioco potrebbero fare è molto più difficile.
Se accettiamo l’ipotesi (molto plausibile) che si tratti di un rinnovamento in seno al partito e di una lotta interna per la ripartizione delle spoglie è possibile credere ai militari quando dicono che consentiranno il Congresso straordinario della ZANU-PF del mese prossimo (mantenendo alla presidenza Mugabe almeno fino al Congresso stesso) al fine di definire l’agenda elettorale e post elettorale e una transizione condivisa.
Se guardiamo all’ipotesi contraria (meno probabile), ossia che si vada verso uno sfaldamento totale, le incognite diventano maggiori, a livello interno, regionale e internazionale. Sul piano interno, una questione chiave è cosa potrà efficacemente fare l’opposizione. Alcuni suoi leader per ora si sono limitati a chiedere le dimissioni immediate di Mugabe per favorire la transizione. Sul piano regionale, l’interrogativo riguarda come si collocherà la SADC che, tramite il suo presidente di turno, il leader sudafricano Jacob Zuma, ha affermato che in Zimbabwe si deve mantenere e proteggere il rispetto dei dettami costituzionali pur nella complessa congiuntura attuale. La Troika, l’organo incaricato di coordinare gli stati membri sui temi di pace e sicurezza, ha chiesto la convocazione di un summit straordinario della SADC. Gli attori internazionali, soprattutto occidentali, che a suo tempo hanno avuto un ruolo forte nell’isolare lo Zimbabwe anche con smart sanctions che avevano colpito lo stesso generale Chiwenga, oggi sono chiamati a favorire la ricostruzione di un nuovo quadro istituzionale condiviso.
Nel mezzo ci stanno molte altre ipotesi, inclusa quella di una resistenza da parte del presidente Mugabe ad accettare dimissioni o forme di allontanamento dal potere, ipotesi che comunque non prospettano scenari chiari e prefigurabili. Che si vada a una qualche forma di resa dei conti è realistico pensarlo, più incerto definire come questo potrà avvenire.
Alcuni si domandano se il cambiamento porterà a progressi democratici e maggiore rispetto dei diritti umani. Anche questo al momento non è un passaggio lineare. Se oggi sono pochi coloro disposti a sostenere Mugabe, è però vero che il suo più probabile successore viene dalla stessa forte esperienza autoritaria che ha contraddistinto la storia e la politica dello Zimbabwe, incluso il ruolo svolto dalla leadership del paese nel Gukurahundi, ossia le vaste e drammatiche violenze perpetrate nei primi anni ’80 dal governo nella regione del Matabeleland.
In conclusione, transizione certamente, un cambiamento certamente, molto più difficile prevedere attraverso quali processi di mediazione e assetti di ricomposizione. Gli attori regionali e internazionali possono svolgere un ruolo propositivo, a patto che considerino la complessa storia politica dello Zimbabwe.