Le Zone Economiche Speciali, nate negli anni sessanta su impulso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per promuovere lo sviluppo industriale e delle infrastrutture con intento transitorio, sono divenute negli ultimi 50 anni la forma urbana a diffusione più rapida. Immaginate come un’anomalia amministrativa, utile solo a far partire un’economia, oggi è possibile contarne oltre 4000 sparse per il mondo a dimostrare quanto siano dei formidabili catalizzatori di connettività e crescita. Giova a tal proposito ricordare che quando Deng Xiaoping decise di istituire a Shenzhen la prima zona economica speciale, la città altro non era se non un villaggio di pescatori a nord di Hong Kong che oggi conta 15 milioni di abitanti con un pil pro capite cento volte superiore a quello di trent’anni fa. L’esperienza delle ZES ha raggiunto da diversi anni anche i paesi dell’Unione Europea dove sono all’incirca novanta le zone sulle quali vigono esenzioni dalle regolamentazioni fiscali. Tra queste, particolare importanza ha assunto la Polonia, dove 14 ZES sono state istituite a partire dal 1994 nelle regioni meno sviluppate al fine dichiarato di attrarre investimenti e favorire la crescita economica e sociale oltre a rafforzare la competitività dei territori rimasti in ritardo in seguito alla dissoluzione del blocco sovietico ed alla conseguente trasformazione politica dell’est Europa. Nel Supply Chain World, come ha colto il geografo indiano Parag Khanna, le ZES sono luoghi in cui il commercio estero (nella forma dell’acquisto diretto di attrezzature e idee nuove) e l’investimento estero (in cui sono società straniere a portartele in casa) si verificano contemporaneamente. Nel caso dei governi più avveduti questo strumento viene utilizzato in maniera strategica sia quale vettore degli interessi nazionali che per assicurare tecnologia, infrastrutture e formazione professionale a vantaggio della società e dei territori divenendone il motore dinamico delle economie locali. In tal senso la crescita del flusso delle merci e del traffico ro-ro nel Mediterraneo generato dal raddoppio del Canale di Suez, unitamente allo sviluppo delle zone economiche speciali, rappresenteranno in futuro i fattori che maggiormente andranno ad incidere sullo sviluppo del trasporto marittimo. Per queste ragioni l’Italia portuale si dovrà far trovare pronta.
Le zone economiche speciali italiane
Nell’ambito del percorso di rilancio della competitività portuale del Mezzogiorno la Legge 59/2017 e il successivo DPCM 12/2018 hanno recepito i risultati raggiunti da altre esperienze, stabilendo l’istituzione delle Zone Economiche Speciali nelle regioni del sud d’Italia. La decisione di utilizzare questo strumento normativo attorno ai principali scali portuali meridionali va senz’altro inquadrata nella strategia che ha inteso far leva sull’economia marittima per limitare la posizione di svantaggio con l’Europa del nord ed il grave ritardo infrastrutturale permettendo tra l’altro a quelle regioni di recuperare il divario di competitività che le interessa direttamente, raggiungendo in questo modo gli obiettivi di produttività in grado di favorire la crescita dell’occupazione nelle aree meno sviluppate del Paese. Un’azione finalizzata a cogliere l’elemento di innovazione delle zone economiche speciali concependo il porto come elemento fondamentale nello sviluppo territoriale. Le 8 ZES istituite dalla legge richiamata in precedenza potranno effettivamente rappresentare un’importante fattore di crescita ed innovazione se saranno opportunamente sfruttate e valorizzate. L’attrazione di investimenti, infatti, appare la ragione principale del successo delle ZES unitamente agli incentivi fiscali e creditizi per le aziende ma che inevitabilmente necessiteranno, per essere competitive, della realizzazione di collegamenti fra i porti ed i retroporti con l’industria manifatturiera e soprattutto con una rete di trasporti ramificata. Solamente in questo modo le ZES meridionali potranno divenire dei poli di attrazione per i flussi provenienti dal Mediterraneo e grazie alle interdipendenze settoriali, un pivot di sviluppo per l’intera Penisola. Altrettanto determinante sarà l’individuazione (peraltro in parte già avviata) dei Commissari di Governo che dovranno attuare i Piani di Sviluppo Strategico di ogni singola area, tenendo presente come all’istituzione delle ZES non corrisponda automaticamente uno sviluppo economico stabile. La crescita di tale aree richiede infatti significativi investimenti e la garanzia di durata del vantaggio fiscale concesso alle imprese per un tempo sufficiente a invertire stabilmente la tendenza economica e far discendere dei benefici utili ad alimentare una percezione positiva negli abitanti in cui le zone economiche speciali sono state localizzate. Il regolamento attuativo delle ZES pone giustamente particolare attenzione alle infrastrutture, rendendo così necessaria una chiara individuazione degli interventi prioritari attraverso analisi di contesto ed una distinzione degli interventi finanziati rispetto a quelli da finanziare. In tale situazione saranno pertanto decisivi l’analisi della sostenibilità complessiva degli interventi nonché un cronogramma di questi ultimi, da finanziare in coerenza ed integrazione con gli interventi agevolativi previsti.
Evitare eccessivi ostacoli burocratici e colmare i gap infrastrutturali
Nel processo di istituzione delle ZES italiane sono emerse tuttavia delle perplessità circa la mancata emanazione di una legge organica dedicata alla compiuta regolamentazione della materia cui si è preferito un approccio minimale con l’inserimento di due articoli in un più ampio testo normativo avente come oggetto generico la crescita economica del sud Italia. Una siffatta scelta normativa potrebbe generare confusione e incertezza operativa sia da parte degli enti territoriali tenuti all’iniziativa di richiesta di istituzione delle ZES e alla redazione dei Piani di Sviluppo Strategico, sia da parte degli investitori impossibilitati ad avere una chiara definizione ex ante dello scenario regolamentare ed operativo nel quale si accingono ad investire le proprie risorse economiche. Un potenziale dunque che corre il rischio di rimanere inespresso a causa degli ostacoli burocratici e delle carenze logistiche degli scali portuali, evitabile con un dimensionamento maggiore che permetta di attirare i grandi player. L’Italia infatti sconta uno squilibrio fra imprese afferenti al comparto marittimo tra nord e sud causato anche da un approccio disomogeneo alla dimensione marittimo- portuale della Penisola. Per tali ragioni risulta vieppiù urgente, come peraltro evidenziato da Paolo Sellari, rendersi conto dell’evidenza dimostrata dalla globalizzazione ovverosia che la variabile geografica da sola, se non associata ad un quadro di efficienza, qualità logistica, decisionismo e coerenza politico-territoriale, non possa conferire al Mediterraneo quel ruolo di protagonista nel contesto globale, rischiando al contrario di alimentare un processo di colonizzazione dei porti già avviato dalle grandi compagnie di navigazione con pericolosi effetti de-territorializzanti.
In definitiva, le condizioni favorevoli create dalle ZES potranno rafforzare il tessuto produttivo del Mezzogiorno, elemento imprescindibile per il rilancio dell’intero Paese e supportare la crescita delle imprese oltre a favorire la nascita di nuove realtà portuali, retroportuali, e di piattaforme logistiche, soltanto se riusciranno a realizzare la semplificazione delle procedure amministrative e quindi una riduzione del sistema burocratico. Così assolveranno alla loro funzione principale ovverosia quella di essere la punta di lancia di una decisa strategia euro-mediterranea in grado di trasformare l’Italia in un perno dei traffici fra Europa ed Asia.