È opinione comune tra gli analisti che un intervento militare internazionale in Siria destabilizzerebbe il vicino Libano. Ma viene subito da obiettare che il Libano è già destabilizzato. Il devastante scontro tra Assad e i suoi oppositori ha abbracciato il Paese dei cedri da oltre un anno. Da quando, era il maggio 2012, si registrarono i primi episodi di violenza a Beirut, ma soprattutto a Tripoli, roccaforte sunnita nel Libano del nord, quindi confessionalmente vicina alle posizioni anti-Assad.
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In attesa degli sviluppi di un’azione militare a guida americana contro la Siria, la situazione sul terreno rimane complessa e frammentata.
Come si spiegano gli errori e le incongruenze della politica mediorientale di Obama? Derivano davvero dalla mancanza di una strategia o conseguono, anche, a scelte sottaciute e costrizioni che a lungo si è sperato di poter gestire o quantomeno eludere?
Mentre crescono i venti di guerra intorno alla Siria, la politica di Washington in Medio Oriente potrebbe rivelarsi un inaspettato, improvviso e improbabile successo, con un cambiamento di prospettive radicale fino a poco tempo fa. Barack Obama è stato criticato in maniera durissima per la sua politica verso i paesi arabi e l’Iran. L’Occidente aveva assistito alla deriva turca ed egiziana verso l’Islamismo autoritario, agli sviluppi della bomba iraniana, ai litigi del
Fra gli attori capaci di influenzare la crisi siriana, anche la Cina trova un proprio ruolo unendosi alla Russia nel porre il veto contro un’azione militare motivata dal presunto impiego di armi chimiche. Nulla di nuovo per un paese che ha sempre fatto del principio di sovranità nazionale (o dell’antimperialismo) un diritto sacro. Nel 2011, però, questa costante è venuta meno durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha visto l’astensione cinese sull’intervento militare in Libia, paese fra i principali fornitori di greggio per Pechino.
Sono in molti a criticare il possibile intervento americano (nonché francese e britannico) in Siria sottolineando che finora i piani bellici statunitensi nella regione non hanno mai sortito gli effetti desiderati. Lo ha affermato perfino il presidente siriano Bashar al-Assad in una intervista per la stampa russa, e bisogna ammettere che perfino i più grandi detrattori del dittatore di Damasco in questo caso faticano a negare una certa fondatezza al suo argomento.
Washington e Londra sembrano determinati ad attuare in tempi brevi azioni militari contro il regime di Bashar Assad anche in assenza di prove documentate dagli esperti dell’Onu presenti a Damasco circa l’impiego su vasta scala di armi chimiche da parte delle forze lealiste siriane. Più che sui responsi dei team del Palazzo di Vetro gli anglo-americani sembrano affidarsi ai report dell’intelligence, in stretto contatto con i servizi d’informazione israeliani e che hanno già indotto l’Amministrazione Obama ad accusare Damasco.
Uno degli ostacoli più difficili da superare per gli Stati Uniti e i loro alleati qualora decidessero di intervenire militarmente in Siria è la mancanza di approvazione di tale missione da parte del Consiglio di Sicurezza dove la Russia rimane determinata a vetare qualunque proposta in tal senso. Una situazione simile era occorsa anche nel 1999 prima della guerra in Kosovo e proprio al modello seguito allora ci si potrebbe rifare per un attacco in Siria.
Fin dallo scoppio delle prime rivolte, la Turchia è stata in prima linea nel cercare una soluzione alla crisi in Siria. Il miglioramento delle relazioni bilaterali a partire dall’inizio degli anni Duemila aveva trasformato il vicino siriano in uno dei principali partner regionali di Ankara e allo stesso tempo nell’esempio più significativo della politica di “zero problemi con i vicini” condotta dal governo del partito Giustizia e Sviluppo (Akp).
Il presunto ricorso ad armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar al-Assad nell’operazione condotta alla periferia Est di Damasco, nell’oasi di Ghouta, che avrebbe causato centinaia di morti tra la popolazione civile, ha indotto Stati Uniti e Gran Bretagna sulla soglia di ciò che durante la guerra fredda era definito brinkmanship, una rischiosa escalation della tensione, fino ad un punto di non ritorno.