Diversamente da altri paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente, dove la coscienza nazionale è più radicata, in Libia l’idea di nazione è un concetto che ha faticato molto ad affermarsi.
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Se fra i motivi che hanno spinto i militari egiziani a collaborare alla rimozione di Moubarak c’era l’intento di restituire l’Egitto al suo ruolo naturale di centro del mondo arabo e del Medio Oriente, non è detto che i fatti libici siano coerenti con quell’obiettivo.
La politica dell’Italia nei confronti della questione libica negli ultimi sei mesi meriterà nei prossimi anni uno studio approfondito. I critici hanno riscontrato in essa molti degli storici vizi della politica estera italiana: l’incapacità di una vera azione autonoma, l’impossibilità di svincolarsi dalle costrizioni legate alla dipendenza energetica, l’ansia di esclusione da consessi internazionali, l’attenzione al rango più che al ruolo, la mancanza di una visione di lungo termine.
La Libia è entrata nella “primavera araba” in maniera anomala. Per la natura armata della rivolta-guerra civile scatenata contro Gheddafi, la sua internazionalizzazione, sollecitata e ottenuta da Bengasi nella consapevolezza che senza un sostegno armato esterno non sarebbe mai riuscita ad aver ragione del Rais. Che ha avuto il duplice torto di essersi reso inviso a (quasi) tutta la Comunità internazionale, ben prima dello scoppio della rivolta, e di governare un paese ricco ma non importante strategicamente.
È stato detto che Nicolas Sarkozy avrebbe scommesso sulla campagna di Libia per provare a vincere un’altra campagna: quella della prossima primavera per l’Eliseo. È stato ricordato che la Francia, come del resto l’Italia e altre potenze, fino a ieri stendeva tappeti rossi per accogliere Gheddafi. È stato ironizzato sul fatto che Parigi abbia attaccato Tripoli quasi per far dimenticare i rapporti con tanti dittatori del pianeta, in particolare in Africa e, fino al giorno prima, in Tunisia ed Egitto.
Dopo 42 anni di dittatura maniacale e monolitica le sfide a cui la Libia deve fare fronte sono molte. Non si tratta solo di curare le profonde ferite lasciate dal conflitto, ma di ricostruire in pratica dal nulla il sistema di governo e la società civile. L'ambiente è fragile: un recente studio della Columbia University di New York stima a 43% le possibilità di guerra civile.
Nella generale difficoltà che accompagna l’analisi e la comprensione dei fenomeni in corso, di una cosa possiamo tuttavia essere certi: la crisi libica è stata caratterizzata da dinamiche talmente uniche e particolari da rendere sospetta, o quantomeno ambigua, la vulgata ufficiale della stampa e dei governi che a vario titolo vi hanno preso parte.
Il caso giudiziario che sta interessando l’ex direttore generale del Fmi, Dominique Strauss Kahn, non deve gettare una cattiva luce su un’istituzione chiave della governance economica globale. Anche se l’operato del Fmi non è stato scevro da errori, l’istituzione rappresenta un presidio indispensabile per la stabilità del sistema. Nel corso della sua storia, che inizia come sappiamo a Bretton Woods nel ‘44, il Fondo ha operato adattando progressivamente obiettivi e strumenti all’evoluzione del contesto esterno. Si possono distinguere tre periodi.
The German elections have been described as boring. The very word boring is indicative of how Germany's perception in the world has changed and turned away from the memories of the past century, traversed by German extremes. The German Chancellor has always embodied the country’s major aspiration in a given historical moment; for Konrad Adenauer it was democracy, for Willy Brandt passion (he taught Germans not only to respect democracy but also to love it), for Helmut Schmidt reason, and for Helmut Kohl reunification.