La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
Risultati della ricerca:
Le prove d’Egitto (che se non risolte torneranno a essere piaghe).
La questione egiziana mette tutto il mondo di fronte ad alcune importanti prove dalla cui risposta dipenderà molto del nostro futuro, prima dell’Italia e poi dell’Europa.
«Speriamo che questo segni la fine del cosiddetto ‘Islam politico’», è il commento sugli eventi degli ultimi giorni in Egitto di un amico che vive al Cairo da molti anni e che, pur essendo un profondo conoscitore dell’Islam, ne ha sempre guardato con diffidenza le ambizioni politiche. Sono in molti a pensarlo, e ad auspicarlo.
La piazza ha vinto? Parrebbe di sì a giudicare dall'esultanza con cui è stato accolto l'avvertimento prima, l'ultimatum poi e infine il colpo di stato operato dalle Forze armate al comando del generale el-Sisi.
Ma quale piazza? Ha perso quella della Fratellanza musulmana che pure sarebbe erroneo sottovalutare soprattutto nella prospettiva di nuove elezioni.
È una brutta pagina quella che è stata scritta in Egitto. Nonostante l’opposizione di piazza a Morsi abbia sostenuto che l’intervento militare interpreta la volontà del popolo, nonostante i vertici religiosi – compreso il grande shaykh di al-Azhar – si siano apparentemente schierati a favore del pronunciamento militare, la defenestrazione del presidente da parte dell’esercito ha tutta l’aria di un vero e proprio golpe.
I fattori che hanno promosso e portato a termine il cambio di regime in Egitto sono stati la piazza, l’esercito e la Fratellanza Musulmana, che ha vinto le elezioni e ha governato per circa un anno dopo la caduta di Mubarak sotto l’urto delle manifestazioni e dopo l’interludio del governo di una giunta militare in attesa del compimento del processo elettorale. I tre fattori sono ritornati in campo in questi giorni di scontri con un risultato diverso. L’esercito non ha mediato come allora fra la piazza e il potere assicurando in fondo la legalità della transizione.
Edward Snowden ha lasciato Hong Kong a poche ore di distanza dalla formalizzazione delle accuse nei suoi confronti per spionaggio, ma la polemica attorno alle sue rivelazioni non si è placata.
A pochi giorni dal primo anniversario della presidenza Morsi e a oltre due anni dallo scoppio delle sollevazioni che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak, l’intero Egitto sembra trattenere il respiro, in attesa di conoscere cosa avverrà il 30 giugno.
Che cosa accade in Brasile? La domanda, declinata in varie lingue, accenti e sfumature, si ripete sulle prime pagine delle principali testate giornalistiche internazionali. Come pure negli studi di accademici e ricercatori, oltre che ovviamente negli uffici del Palazzo governativo di Planalto. La rivolta sociale, cominciata il 13 giugno a San Paolo per protestare contro l’aumento del biglietto dei bus ed estesasi inesorabilmente per il “gigante latinoamericano”, ha sorpreso l’opinione pubblica.
Un milione di persone in piazza, proteste e violenze. Ciò che sta accadendo in Brasile è piuttosto inusuale, per un paese pacifico e poco incline agli scontri tra classi sociali. A maggior ragione durante un torneo calcistico, la Confederation Cup. Il calcio, si sa, in Brasile può ipnotizzare un intero paese. Ma allora perché sono esplose queste tensioni? Che sta succedendo? E poi proprio ora, dopo la lunga galoppata dell’economia brasiliana che ha beneficiato decine di milioni di abitanti.