La strategia geopolitica russa appare improntata a riaffermare la propria influenza nello spazio post sovietico, condizione che le permetterebbe di assurgere nuovamente al ruolo di grande potenza, e di contenere le crescenti ambizioni di svariati attori geopolitici (Unione Europea, Nato, Cina, Stati Uniti, Turchia) sul cosiddetto “estero vicino” di Mosca.
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Phnom Penh: un’ombra scura si staglia all’orizzonte delle manifestazioni contro il governo di Hun Sen, una nube impregnata di atavici rancori e di odio. L’onda umana che dallo scorso settembre costantemente scende in piazza gridando a migliori salari, minore corruzione e invocando elezioni regolari per ora non è riuscita a spazzare via l’apparato di Hun Sen, ma ha avuto successo nello sfogare tutta la propria frustrazione in poche ore di follia dello scorso 3 gennaio.
L’analisi dei cambiamenti avvenuti nella struttura di controllo e repressione del potere di Damasco e nella gestione delle risorse dedicate alla contro-insurrezione mostra un coinvolgimento sempre più diretto di uomini e mezzi iraniani e russi.
Le ragioni per essere ottimisti sui risultati di Ginevra II sono poche. E non lo sono solo a causa del clima d’ineluttabile e pessimistico fatalismo, che per gli osservatori occidentali generalmente circonda ogni processo (dalla pace in Palestina alla democratizza-zione in Nord Africa) che dovrebbe portare a un qualche miglioramento all’interno delle società mediorientali. Questa volta ci sono, purtroppo, almeno due ottime ragioni per essere pessimisti, l’una profondamente interconnessa all’altra.
Dopo il Mali, la Repubblica Centrafricana. La seconda guerra di François Hollande, iniziata il 5 dicembre scorso, continua nell’ombra. La Francia dimostra una volta di più di perseguire una politica interventista nel continente nero, dispiegando migliaia di soldati, mezzi pesanti e aviazione nelle ex-colonie colpite da crisi securitarie. Queste “operazioni umanitarie” sono, in realtà, le ultime carte che l’Eliseo può giocarsi nell’estrema difesa dei privilegi economici della potenza coloniale che era.
Tornato alle urne per la sesta volta in tre anni, l’Egitto avrà tra pochi giorni una nuova Costituzione che sostituisce quella a forte impronta islamista approvata poco più di un anno fa dal deposto nonché legittimamente eletto presidente Mohammed Morsi. Ma più che sui 247 articoli messi a punto a dicembre da una Commissione di 50 membri, il referendum chiedeva l’approvazione del paese sull’operato del ministro della Difesa al-Sisi, architetto del golpe popolare dell’estate scorsa e della successiva messa al bando dei Fratelli musulmani.
L’inchiesta sulla corruzione che ha investito il governo turco e alte sfere economiche del paese a fine 2013 sta mettendo a dura prova l’immagine dal primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, la stabilità dell’esecutivo e la politica dell’Akp in un anno di importanti scadenze elettorali (amministrative a marzo e presidenziali ad agosto). L’Akp ha fatto della lotta alla corruzione uno dei suoi cavalli di battaglia e proprio la sua estraneità agli scandali che avevano travolto i precedenti esecutivi era stata la carta vincente nelle elezioni del 2002.
La partenza del contingente statunitense alla fine del 2011 ha rappresentato nella storia più recente dell’Iraq un momento di svolta importante, riconsegnando al suo esecutivo piena sovranità e responsabilità sul proprio territorio nazionale.
A dicembre su Al Jazeera era andata in onda la notizia che la “solita” Taslima Nasreen, la scrittrice bengalese che dal 1994 vive in esilio per le continue minacce di morte, aveva fatto di nuovo arrabbiare gli integralisti musulmani per la sceneggiatura della serie tv indiana Dussahobas (La miserabile vita in comune). Per “offendere” il Profeta, Taslima ha osato parlare di matrimoni forzati, stupri, prostituzione, doti matrimoniali e altre delizie coniugali. E questo non nella sua patria, il Bangladesh, dove non può nemmeno mettere piede.
Il mini accordo sulla facilitazione degli scambi internazionali raggiunto a inizio dicembre a Bali – sotto l’ombrello multilaterale della Wto – pone una questione rilevante: si vuole procedere, d’ora in poi, attraverso patti commerciali globali, aperti a tutti, o si preferisce la strada degli accordi bilaterali o regionali, magari chiusi in se stessi?