A pochi giorni dalle midterm elections il New York Times esce con questo titolo in prima pagina: Tea Party Set to Win Enough Races for Wide Influence. E ammette che il Tea Party o meglio i Tea Parties, perché ce ne sono dozzine, centinaia, in pochi mesi hanno raggiunto una diffusione tale da diventare la forza trainante del conservatorismo americano e da «influenzare largamente» la politica federale.
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Le elezioni statunitensi di mid-term sono ormai vicine e i sondaggi indicano che in entrambi i rami del Congresso – attualmente a maggioranza Democratica – vi sarà un successo dei Repubblicani che probabilmente prevarranno alla House mentre resteranno in minoranza al Senate, pur riducendo il distacco in seggi che oggi li separa dal partito del presidente.
È stata necessaria una mediazione diretta tra Angela Merkel e Nikolas Sarkozy, per sbloccare il braccio di ferro che da settimane spaccava a metà i 27 membri dell’Unione europea sul nocciolo del nuovo patto europeo di stabilità da far succedere al “patto stupido” precedente.
Dal 1994 il Sud Africa ha fatto sentire il proprio peso all’interno dello scenario internazionale più di quanto in realtà tale peso contasse, grazie alla statura morale derivante dalla transizione pacifica a un regime democratico e dalla politica di riconciliazione di Mandela. I valori fondanti del paese si sono tradotti, all’esterno, in una politica estera caratterizzata con coerenza per 16 anni da un marcato idealismo, talvolta in tensione con interessi di altra natura.
Il nuovo Sud Africa
Obama ha scelto un basso profilo nell’annunciare la fine formale delle operazioni di combattimento in Iraq. Alta è stata la sede scelta per il discorso alla nazione: l’Ufficio Ovale. Ma i toni sono stati deliberatamente asciutti: nessun proclama di vittoria; nessuna rivendicazione eccessiva dei propri meriti; nessuna critica troppo pesante al suo predecessore. Nulla, insomma, che potesse alimentare nuove polemiche o riaprire una dolorosa introspezione collettiva attraverso la quale l’America è in parte già passata.
Al di là del folklore, delle boutades e delle provocazioni di Gheddafi cosa rimane della tre giorni del leader libico in Italia? Un’analisi a freddo evidenzierebbe probabilmente l’ulteriore passo compiuto nella partnership strategica tra i due paesi, nello stringersi ulteriore di una “Amicizia”, come scritto nel trattato di Bengasi firmato due anni orsono, che dura, seppur con importanti punti di tensione, da ormai quarant’anni, ossia dall’arrivo al potere del Colonnello.
Il Fondo monetario internazionale nel quale si è appena accomodata Christine Lagarde è un’istituzione profondamente diversa anche solo rispetto a pochi mesi fa. Ci sono, certo, circostanze passeggere che contribuiscono a rendere il ruolo dell’Fmi e quello della stessa Lagarde in qualche modo singolari. C’è l’abnorme catena di eventi che ha portato all’elezione dell’ex ministro dell’Economia di Sarkozy a Washington.
Visti da Tokyo, i tempi non sono adatti per brusche sterzate in politica estera. Il nuovo primo ministro Kan Naoto sembra esserne consapevole, come indicano le sue reiterate dichiarazioni circa l’insostituibilità del pilastro difensivo americano. Ma questo non significa che tutte le incomprensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra Washington e Tokyo nei nove mesi del governo Hatoyama siano destinate a scomparire.
La tensione verso il raggiungimento di un sistema di governance dotato di regole efficaci prodotte da un processo decisionale legittimo, oltre che efficiente, caratterizza la storia contemporanea delle relazioni internazionali e dell’economia globale. Nel 2009 si è assistito a una decisione epocale – quella di sostituire il G8 con il G20 come principale incontro annuale per discutere di cooperazione economica internazionale.
Il 2009 è passato alla storia come l’anno in cui un popolo, quello iraniano, ha tentato di opporsi al regime usando per la prima volta la potenza dei social network per organizzarsi e far sentire la propria voce al resto del mondo. Se quella formidabile richiesta d’aiuto è per ora caduta nel vuoto, la colpa non è certo della Rete, ma delle timidezze e degli equilibrismi dei governi occidentali che nel migliore dei casi hanno preferito limitarsi a generiche condanne delle violazioni dei diritti umani.